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19 Giugno 2007 | Racconti d'autore

N°65-RACCONTI D’AUTORE

Le biciclette. Di Cesare Zavattini.

Il testo de “Le biciclette”è tratto da “Straparole”, pubblicato da Bompiani nel 1967. Si trova anche nelle “Opere Complete 1931-1986” dei Classici Bompiani (2001), a pagina 606.

Gennaio 1961

Si potrebbe fare un ritratto dell’Emilia parlando delle biciclette; anche se ce ne sono in tutto il mondo, sembra qui la loro sede naturale, nella bassa padana dove all’improvviso arrivano da una carraia o da un portone e anche da sola, spiccando sugli argini contro il cielo, assume forza di un simbolo locale come la luna bassa. Basta che un passaggio a livello si chiuda per pochi minuti e subito vi si affollano decine e decine di questi veicoli; i viaggiatori delle littorine locali e dei grandi treni fanno in tempo, prima di essere portati lontani, a vedere le sbarre che si alzano e lo stuolo dei ciclisti con i cappelloní di paglia sporchi di verderame e i gilè con la catena dell’orologio, rimettersi in moto senza fretta, perché nessuno corre in bicicletta, come se il suo ritmo, a differenza dei nuovi mezzi fragorosi, sia il solo che favorendo la conversazione con la natura e col pros¬simo, ridia alla parola la sua proporzione.
Gli emiliani non usano la bicicletta per tragitti faticosi, laboriosi, ma corti, cortissimi, o per nulla, anche se gente umile di ogni strumento perpetua l’utilità (per esempio il contadino che porta al casello il suo quotidiano bidone di latte, il boscaiolo che raggiunge le rive lontane del Po, ogni mattina appena suona l’Ave Maria, senza falcetto e scure perché li ha lasciati là il giorno prima nascosti tra le robinie), la usano dunque come il cappello, che non si può abbandonare, poiché fa parte della persona anche quando è inopportuno. La bicicletta ha da noi qualche cosa del cane, continua compagna che si porta con sé magari senza montarla, per arrivare dalla casa al caffè che di¬sta venti metri. Per questo se ne trovano addossate alle colonne dei portici decine, mentre i padroni giuocano a carte e discorrono con monotonia di sport. Le lasciano a scottarsi al sole, a prendere la ruggine per la nebbia o per la pioggia, e se cadono, sia pure rumorosamente, nessuno le raccoglie, per ostentarne la fedele robustezza. Uno può lasciare la sua bicicletta anche una notte intera all’addiaccio, i furti sono più che rari in quanto una bicicletta dal suo proprietario e dai familiari e amici è riconosciuta da lontano come una faccia.
Una volta l’orgoglio di avere una marca rinomata era grande e costoso, adesso la bicicletta più è priva di lucen¬tezza e aggeggi più la si predilige, per condividerne la sua funzione primordiale; le classi non sono mai segnate da una bicicletta bella o da una bicicletta brutta, un ricco agricoltore, un negoziante di formaggi, pone nell’automo¬bile la sua vanità e nella bicicletta invece, con maggiore o minore consapevolezza, dei sentimenti quale il piacere del sentirsi provvisoriamente uguale agli altri.
Come i carabinieri, così i ciclisti padani vanno volen¬tieri due a due, un ciclista per appaiarsi naturalmente a un altro contravviene alle leggi del traffico, folte comitive di ciclisti si compongono secondo questo bisogno di parlare, di comunicare, la nota socievolezza che trasforma anche i sellini delle biciclette in sedie casalinghe per conversare. Si piantano nel centro dell’abitato con una gamba a terra e la seconda che pende lungo il telaio, specie i giorni di mercato, vicini al punto che i pedali di una si intrecciano coi pedali dell’altra, e si formano grovigli di ruote e canne da cui sembrerebbe arduo sciogliersi, ma si sciolgono con grazia, anche se montate da uomini corposi che poi si av¬viano verso casa tra discreti suoni di campanelli e accenni di fischi per avvertire un passante. Ma i toni non sono sempre idilliaci, ho visto un tale sollevare una bicicletta come un fuscello per scagliarla furente contro un díverbiante.
Interminabili file di biciclette ci sono per andare alle sagre dei paesi, resi ancor più limitrofi dalla facile pianura, e dietro un funerale con un fiere sul manubri nel ritorno dal cimitero si sparpagliano per viottoli campestri senza forzare l’andatura, quando saranno lontani dall’abitato forse pedaleranno forte per sfogare la voglia di vita accre, sciutasi nel seguire il morto.
All’alba i pescatori con la canna a tracolla inaugurano la giornata e la maggior parte ci va in bicicletta, verso il fiume o i canali delle bonifiche; con i pioppi alle spalle, decine di pescatori, distanti gli uni dagli altri poco o tanto si annunciano solo con parchi gesti il peso del gobbo “appena pescato, o allungano la mano verso l’erba dove spunta una bottiglia di lambrusco, che, pur essendo il vino tipico di almeno re quarti della regione, nasconde sotto questo unico nome una varietà di colori, di gusti, di schiume come nessun altro vino, a conferma che sotto tante facce per lo più quadrate e rosse ci sono tante sen¬tenze e tanti umori.
Se l’alba è dei pescatori, il crepuscolo è degli innamorati. Si sono allontanati dall’abitato incontro alla sera con un braccio dell’uno sulla spalla dell’altra; poi le luci repentine dei camion che trasportano l’uva e i tronchi dei pioppi più tardi li illuminano abbracciati, con le biciclette abbandonate sull’orlo dei fossi. Sono anche le ore nelle quali le balere diventano luoghi fatati, e i ballerini arrivano a centinaia anche dalla riva lombarda attraverso i ponti di barche che hanno il legno compatto quasi come quello dei velodromi, e le biciclette si ammassano, questa volta a centinaia, coi penduli cartellini del posteggio, schizzando fiamme dai raggi delle ruote sotto la luce elettrica. Dentro la balera i giovani ballano stretti, senza tanti complimenti, per cui nascono molti figli prima delle nozze e si parla d’amore non meno che a Catania, continuamente, ma tra le parole e il loro appagamento non corre la lunga distanza del mezzogiorn il senso del presente è così forte che ciascuno è spinto a godere subito di ciò che si offre.
S’incontrano fanciulli che vanno in bicicletta come pazzi, senza mani, per mostrarsi acrobati alle bambine coeta¬nee, e questo è il primissimo amore. I vecchi cercano di usare la bicicletta fino all’estremo, e anche quando le loro gambe sono deboli, riescono a issarsi sulla bicicletta, e a andare, vanno a comperare il pane per le nuore, con l’illu¬sione di una velocità propria.

Lettura di Fulvio Redeghieri.

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