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7 Novembre 2013 | Racconti d'autore

Il nazista e la bambina

Testo tratto dal romanzo omonimo di Liliana Manfredi (Reggio Emilia, Aliberti editore, 2008) – prima puntata

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Alessia Del Bianco

7 novembre 2013

23 giugno 1944: sul ponte della Bettola, una località dell’Appennino reggiano fra Monteduro e Paullo, una bambina di undici anni gioca a saltarello in mezzo a tre misteriose buche nell’asfalto. Sono i segni di un attacco appena fallito dei partigiani contro i tedeschi. Di lì a poco la vita della piccola comunità sarà cancellata quasi del tutto. 
Liliana Manfredi, tra i pochi sopravvissuti della strage nazista della Bettola, ha scritto la sua avventura per rendere onore anche all’ignoto che le risparmiò la morte.

Ho settant’anni e sono nata due volte.
La prima volta in casa di mia nonna.
(29 aprile 1933).
La seconda volta ero in mezzo a un prato, di fianco alla casa ridotta in cenere dai tedeschi.
24 giugno 1944.
Avevo tre buchi di pallottola nel corpo.
Il nazista mi puntò il fucile in mezzo agli occhi.
Poi ci guardò dentro.
E fece salva la mia vita.

[…]

Sera

Il mio 23 giugno passò come passano le giornate di una bambina felice. Fra giochi, canti, la corda, aiutare la mamma. Nulla di importante, tutto di importante.
I tedeschi si erano accorti dei buchi, avevano fatto qualche domanda, e qualche ora più tardi erano tornati con un camion di sabbia e ghiaia che due operai volenterosi avevano sparso dentro le buche.
C’era una tensione di fondo nei discorsi lasciati a metà, negli sguardi un po’ smarriti degli abitanti di Bettola, quel confabulare animato della locanda mentre mio nonno ascoltava Radio Londra con il volume basso e l’orecchio attaccato.
La sera della notte di san Giovanni, la porta della locanda fu colpita per la seconda volta.
Questa volta, però, Beneventi fu veloce ad aprire.
“Ah, ancora voi” disse con tono preoccupato.
“Sì, ancora noi” confermò Lupo. “Fate come ieri. Chiudetevi dentro e aspettate”.
Beneventi stava per aggiungere qualcosa, ma il suo occhio vide il color canna di fucile del mitra del partigiano.
“Ma quello è un mitra!” urlò spaventata Lea, accorsa a dar man forte al marito.
Quella rilevazione fece scoppiare il panico. Lupo entrò deciso nella locanda, con l’intenzione di calmare gli animi e controllare che non ci fossero trappole per il suo commando. Catturò l’attenzione di tutti cercando di spiegare che la lotta partigiana era contro i tedeschi e i fascisti, che mai avrebbe torto un capello ai civili. A meno che…
Stava per finire la frase, ma il suo orecchio percepì l’ansimare di un motore. Prima fu il tintinnare lieve come di una campanella, poi il crescente sferragliare dell’acciaio, subito dopo il fischiare della gomma sull’asfalto. Erano circa le ventidue, ben oltre l’ora del coprifuoco. Un automezzo che percorreva a quell’ora la Statale 63 era sicuramente tedesco.

I tedeschi erano due. Scendevano da Casina per andare chissà dove. Ancora qualche chilometro di tornanti e poi la strada sarebbe diventata bella dritta, una lingua di ghiaia e asfalto a tagliare i campi, le vigne, i piccoli centri urbani, fino a entrare nella bocca della città. Ancora pochi chilometri e sarebbero arrivati in qualche altro comando tedesco, dove li aspettava un letto comodo quanto basta per stemperare nel sonno il malessere di un altro giorno di guerra.
Niente letto comodo quella notte, invece.
Sentendo il rollio del motore, i partigiani che erano rimasti di guardia davanti alla locanda buttarono un ostacolo sulla strada. Appena il camion tentennò, vedendo con i suoi fari miopi l’ostacolo, i partigiani si materializzarono sulla strada intimando l’alt con l’arroganza delle armi.
I nazisti, colti di sorpresa, si videro perduti.
Uno di loro, nel colpo di reni di chi sapeva di essere a pochi istanti dalla morte, provò a dire: “State buoni, partigiani, non sparare…”.
Poi, chissà, un gesto innocuo o forse di difesa, il nervosismo o più probabilmente il destino. Dal fucile di Guerro partì un colpo, imprevisto, non annunciato, forse accidentale. Fu l’involontario aprite il fuoco. A quello ne seguirono molti altri, tutti contro il camion tedesco.

A quel fuoco si aggiunse anche quello di Lupo. Era entrato dentro la locanda per patteggiare la complicità degli ospiti. Al primo colpo di fuoco, senza ragionare, spalancò la finestra, scaricò tutti i colpi della sua pistola e lanciò due bombe a mano.

I partigiani della Celere erano male armati. Avevano nove moschetti, nove mitra, una pistola e qualche bomba a mano, tutto paracadutato dagli aerei alleati. I nazisti invece erano ben armati. Avevano la MP 40, l’eccezionale machine pistol d’acciaio. Non si inceppava mai, era leggera e precisa come la spada di un samurai. E avevano il fucile Mauser, meno maneggevole ma anch’esso tremendo, prodotto della tecnologia tedesca. Ma gli MP 40 e i Mauser rimasero muti quando i partigiani scaricarono tutte le pallottole e la paura che avevano in corpo contro le sagome in divisa grigio-verde.
Jabhun Gluscko, ucraino, anno di nascita 1911, e Heinrich Hesse, prussiano, anno di nascita 1898, finirono in quell’istante la loro guerra.
Le armi tornarono al silenzio e il tempo si fermò. Nessuno fece, disse o pensò nulla per pochi istanti. La camionetta stava immobile in mezzo alla strada, ferita a morte anche lei, come i suoi due passeggeri.
Dopo qualche esitazione, Lupo, Maestro e Drago si fecero coraggio e si avvicinarono ancora, con prudenza, alla camionetta. Qualche passo, guardandosi reciprocamente con la coda dell’occhio, per sentirsi meno soli di fronte all’orrore della guerra, all’orrore della morte, anche se era la morte del nemico.
Tutto fermo.
Ancora due passi.
Tutto immobile, solo l’arrancare sfinito del camion, con il parabrezza a pezzi e le luci sbilenche dei fari.
Un altro passo.
Uno ancora, con la certezza crescente di aver fatto fuori due nazisti, un’emozione fortissima, un misto di terrore, euforia, follia.
Un altro passo. L’ultimo. Di troppo.
Il mirino di una mitraglietta sbucò di scatto dal predellino posteriore del camion. Era buio, l’aria puzzava di polvere da sparo e di sangue, ma Lupo vide due occhi impazziti, aggrappati disperatamente all’ultimo treno per restare in vita nella notte di san Giovanni. Quei due occhi terrorizzati tenevano fra le mani un mitra carico di pallottole. E quel mitra sparò. Lupo, Maestro e Drago caddero uno dopo l’altro. Caddero increduli, con gli occhi pieni di stupore, come la sera prima sul ponte. Increduli che la guerra fosse così difficile da fare.

Maestro e Drago morirono all’istante, Lupo durò appena qualche minuto in più, ma fu solo agonia. Gli altri partigiani, dopo un lungo momento di smarrimento, cercarono di organizzare la caccia al tedesco sopravvissuto, ma trovarono solo tracce della sua ombra.
A quel punto, decimati e sbandati, abbandonarono in tutta fretta la Bettola e il suo ponte maledetto, trascinandosi il corpo di Lupo, ancora attaccato alla vita da un filo così esile che si spezzò appena arrivati nel bosco di Monteduro. Con un rapido addio al suo cadavere, i partigiani superstiti sparirono anch’essi negli anfratti della collina.

La rullata dei proiettili ricacciò tutti gli abitanti della Bettola nella locanda e nel terrore. Il tedesco scampato ai proiettili e alle ricerche approfittò della confusione per infilarsi da qualche parte nella notte e riprese, nessuno sa come, la strada per Casina. Forse trovò una bicicletta, forse corse a piedi, come un pazzo, urlando e bestemmiando dentro di sé contro i partigiani, la guerra, il ferro e il fuoco. Correva o pedalava con l’arma sempre in mano, sentiva dentro un motore impazzito, faceva correre i suoi anfibi, e si aspettava di vederseli ancora, quei bastardi italiani, traditori, voltagabbana, vederseli uscire da quel cespuglio e tirargli in faccia con il mitra, per fare conto pari, tre morti contro tre morti.
E invece no.
Il nazista arrivò senza altri problemi nella piazza di Casina. Davanti aveva il Comando della Gen. Hauptmannschaft Toscana. Dietro aveva i cadaveri di due uomini che portavano la sua stessa divisa e tre ragazzi di vent’anni, diventati uomini prima del tempo e prima del tempo diventati polvere.
Le sue urla e la sua apparizione avevano già messo sul chi va là la guardia del Comando tedesco, che un istante dopo fu inondata dalla lingua impazzita di un soldato che urlava di aiutarlo, e cercava di spiegarsi, e diceva di andare a vendicarsi della Bettola, che quella locanda di pezzenti era un covo di partigiani, che lui ne aveva fatti fuori tre ma che ce n’erano altri.
Alle 23.50, ora in cui il tedesco scampato all’agguato dei partigiani arrivò a Casina, il comandante Nicolaiev si era già ritirato nella sua stanza “presa in affitto” da una famiglia. Aveva percepito un po’ di agitazione e l’irrompere di qualcuno nella casa. Aprì la porta con addosso la vestaglia da camera e con la sua Luger nella mano destra. Quando vide che era uno dei suoi si rilassò, ma solo per un attimo. Dal concitato racconto del sottoposto capì la gravità generale e qualche particolare che gli avrebbe creato non pochi problemi con i superiori.

Per sostenere la Linea Gotica l’esercito tedesco controllava le arterie principali: la statale 63, che dalla montagna si tuffa nel Po, e la via Emilia, flusso vitale da est a ovest fin dal tempo dei romani.
Nicolaiev si ricordò le parole di Kesserling, comandante delle forze tedesche in Italia, nel dispaccio giunto nelle sue mani il 17 giugno 1944, solo una settimana prima. “Controllare le scorribande partigiane… le popolazioni civili devono essere considerate corresponsabili… arresto dei famigliari dei partigiani e coprifuoco a discrezione… fucilazione immediata per ogni azione ostile e per il reato di bandenhelfer [aiuto alle bande, ndr]”. Essere attaccabili sulla 63 significava non sapere attendere agli ordini. Il comandante Nicolaiev questo lo capiva bene. E non se lo poteva permettere.
La decisione fu immediata. La decisione fu feroce. La decisione fu follemente logica. Prima ancora di capire con esattezza i termini dello scontro, il comandante decise che bisognava fare pulizia. Se la Bettola, invece che una locanda di birocciai, era un covo per imboscate partigiane bisognava distruggerla. Mai più pericoli da quel pugno di case. Mai più.
Il comandante diede l’ordine di radunarsi entro trenta minuti nelle sale del comando. Il sottoposto si dimenticò di salutarlo e si precipitò a eseguire l’ordine.

Le parole furono poche, chiare, terribili: “La Bettola nasconde partigiani e spie. Hanno attaccato e ucciso due camerati. Preparatevi bene e scendete questa notte stessa. Uccideteli tutti. Tutti”.
Tanta ferocia aveva la sua spiegazione. Assurda e folle e pazzesca spiegazione. Lupo aveva sparato dalla finestra della locanda. Lupo aveva detto ai tedeschi che la locanda spalleggiava i partigiani. Lupo aveva condannato a morte la Bettola.
Un’equazione terribile, sbagliata, ma inevitabile. Che rende ancor più inspiegabile ciò che successe alla Bettola dopo lo scontro a fuoco. Con due tedeschi e tre partigiani uccisi, con un tedesco in fuga, c’era una sola cosa da fare: fuggire. La Bettola è piena di anfratti capaci di nascondere chiunque anche al soldato più addestrato. Capace di occultare le vittime alla vendetta più cieca e impietosa. Boschi, il fiume, le colline che dolcemente scalano verso l’altrove. Tante vie di fuga e la complicità della notte.
E allora fuggire. Via, subito, ovunque. Perdere tutto, ma trovare la vita. Lasciare la casa, gli affetti, le abitudini, l’identità, ma acciuffare per il rotto della cuffia l’ultimo treno per una nuova casa, nuovi affetti, altre abitudini, una nuova identità.
E invece no. A parte Paolo Magnani, un ragazzo che si era imboscato nel sottotetto per sfuggire alla chiamata di leva, rimasero tutti lì.

[…]

Nemmeno noi Manfredi fuggimmo.
Nessuno di noi lasciò la casa dove, giusto il tempo di organizzarsi, sarebbe scesa la morte in divisa grigia.
Nonno Ligorio rientrò in casa con la faccia sconvolta. Questa volta non poté non raccontare alle sue donne ciò che era accaduto. Era successo il finimondo. Di nuovo le esplosioni. Poi gli spari. Tedeschi e partigiani morti.
“Cosa facciamo?” chiese mia nonna.
Nonno Ligorio ci pensò un attimo su e disse: “Vestitevi e andiamo a letto. Spegnete le luci e che nessuno si muova, per nessun rumore, evento, ragione. Finché non lo dico io. Non abbiamo fatto nulla, non dovremmo correre alcun pericolo. Ma stiamo pronti a qualsiasi cosa”. Poi tirò un sospiro dal fondo dell’anima, mi guardò negli occhi e disse: “Speriamo che l’alba arrivi presto”.
Mia mamma eseguì gli ordini del nonno. Dalla cucina, in cui si entrava dalla porta principale, mi prese per mano e mi condusse rapidamente nella nostra camera da letto. Accese la luce e si chinò per cercare qualcosa nel baule dei vestiti. Estrasse un vestitino di velluto nero, che mi aveva confezionato con le sue mani. Senza dire una parola mi tolse la camicia da notte e m’infilò il vestitino che mi arrivava alle ginocchia e lasciava nude braccia e spalle. Anche lei si vestì in tutta fretta. Dopo qualche minuto eravamo sdraiate nel letto. Mamma tirò fuori un rosario e si mise a pregare.
Lo faceva tutte le sere, mi parve normale. Mi raggomitolai vicino al suo corpo e anche se molto agitata, mi addormentai.
Ancora un’ora e sarei andata incontro alla morte in abito da sera.

[continua]

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