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21 Novembre 2013 | Racconti d'autore

Il nazista e la bambina

Testo tratto dal romanzo omonimo di Liliana Manfredi (Reggio Emilia, Aliberti editore, 2008) – terza puntata

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Alessia Del Bianco

21 novembre 2013

23 giugno 1944: sul ponte della Bettola, una località dell’Appennino reggiano fra Monteduro e Paullo, una bambina di undici anni gioca a saltarello in mezzo a tre misteriose buche nell’asfalto. Sono i segni di un attacco appena fallito dei partigiani contro i tedeschi. Di lì a poco la vita della piccola comunità sarà cancellata quasi del tutto. 
Liliana Manfredi, tra i pochi sopravvissuti della strage nazista della Bettola, ha scritto la sua avventura per rendere onore anche all’ignoto che le risparmiò la morte.

Dopo

[…]

Zio Galileo entrò nel camerone della scuola-ospedale con la sua livrea da autista. Guidava i camion della spazzatura e qualche volta le corriere di linea.
Fra i tanti parenti possibili, mi aveva preso in carico lui perché si sentiva in debito verso di me. La mattina del 20 gennaio 1942 s’era portata via suo fratello Angelo. Il mio papà.
Quella mattina zio Galileo era, come al solito, alla guida del camion. Papà Angelo montava e smontava dal predellino per caricare i bidoni della spazzatura che aspettavano lungo la strada. I bidoni venivano messi in fila sul cassonetto dell’automezzo e bloccati con una specie di corda.
La corda si slegò e papà se ne avvide. Corse verso il camion per rinsaldare il legaccio, ma scivolò sul ghiaccio e finì sotto le ruote posteriori. Una maledetta fatalità, un tragico incidente, uno scherzo del destino, che trasformò lo zio Galileo in qualcosa di più di un semplice zio e poco meno di un padre. Divenne molto presente nella vita della mia famiglia. Saliva alla Bettola, si informava da mia mamma sulle nostre condizioni, caricava sulla canna della bicicletta i suoi figli, miei cugini, perché mi tenessero compagnia.
Il suo arrivo in ospedale per portarmi a casa fu la più naturale delle visite. Non aveva mancato un giorno. Al mattino presto o alla sera tardi era sempre venuto a sincerarsi delle mie condizioni. Aveva gli occhi acquosi e tristi quando mi chiese: “C’me stet?”. E aggiunse: “Inco andom a ca’. Et cunteinta?”.
Da una specie di valigia tirò fuori un vestito e un paio di scarpe della mia misura. Erano di mia cugina Lena. Io non possedevo più nulla. Solo il vestitino nero ormai inservibile.

[…]

L’estate del 1944 finì in fretta e in fretta arrivò anche l’autunno. Il primo ottobre mi iscrissi alla scuola elementare di Montecavolo, classe quinta. Ma dopo un mese di lezioni arrivò dalle parole di mio zio una notizia che mai avrei voluto ricevere. “L’è la tua fortuna” mi disse lo zio, quando cercò di spiegarmi la mia nuova sistemazione. La zia Silvia, sua moglie, era appena scampata alla pleurite, confinata per un anno in un sanatorio sulle montagne modenesi. Lo zio si era dovuto occupare di lei e dei suoi sei figli, aiutato da Renata, una signora del paese. La fame non la si era mai patita, a quella tavola, ma nel dopoguerra era difficile aggiungerci un altro posto.
Dev’essergli costato un buco nell’anima grande quanto i miei prendermi da parte, una sera di novembre, e dirmi di preparare la valigia per trasferirmi nella mia nuova famiglia. Una famiglia di Fiorenzuola, un bel paesino qui vicino, dopo Parma, Fidenza, a due ore di treno, con due signori benestanti e brave persone, senza figli, desiderose di averne una. Io.
Non feci domande. Non erano tempi in cui i bambini meritassero spiegazioni. Compresi vagamente che il prete di Montecavolo e il prete di Fiorenzuola avevano ingegnato la soluzione per la mia vita: i signori Ferraboschi di Fiorenzuola d’Arda. E poco male che la nuova famiglia significasse cambiare un’altra casa, interrompere la scuola e, soprattutto, interrompere la quotidianità degli affetti. L’incertezza del dopoguerra, la speranza di un futuro migliore e chissà cos’altro mi fecero salire sull’espresso Bologna-Milano con un biglietto di sola andata per Fiorenzuola d’Arda.

I miei due nuovi genitori mi fecero orrore immediatamente. Erano vecchi, freddi, cattivi, guardinghi. Come se avessero qualcosa da temere dal mondo esterno.
Che fossero ricchi non v’erano dubbi. Vivevano in una grande casa con un giardino davanti. Lui era pelato e corpulento. Aveva vestiti da signore, più di un paio di scarpe, un orologio che infilava nella tasca del panciotto, occhiali con la montatura in oro. Lei era di statura media, con i capelli castani sempre raccolti dietro la nuca. Si vestiva più modestamente e si occupava della casa, ma se possibile era ancora più altezzosa e distante.
C’erano anche due sorelle zitelle, ancora più vecchie dei miei presunti genitori. Si comportavano come se avessero qualcosa da nascondere. Mi relegarono nella stanza più lontana della loro grande casa. Non mi rivolsero quasi mai la parola. Mi sentivo un soprammobile, un oggetto di arredamento. Mi ritrovai, di nuovo, terribilmente sola, fra mura ostili, orfana per la seconda volta.
La mia giornata era divisa a metà fra la scuola, al mattino, e la solitudine domestica, dal pomeriggio alla sera. Non c’erano bambini con cui condividere il gioco, ma solo vecchi aridi e cattivi. Non c’erano chiacchiere e gesti d’affetto, ma solo silenzio o bisbiglii alle mie spalle. Non c’era niente che confortasse la mia anima di bambina con la vita spezzata. La villetta dei Ferraboschi, la mia “fortuna”, era una pensione gestita da streghe malvagie.
Foglia soffiata dalle intemperie della vita, caddi in uno stato di apatia. Senza nessuno che mi aiutasse, a scuola ero un disastro. I miei occhi erano spenti, la mia voglia di vivere se n’era andata in letargo. Ero confusa e spaventata.
Fu il buon cuore della mia nuova maestra a darmi una via d’uscita. Olga Riconda Blanchetti. Insegnava nell’illusione che l’educazione potesse migliorare il mondo, distante mille miglia dalla maestra di Montalto, che ci faceva salutare Dio-Patria-Duce prima delle lezioni e che ci puniva con bacchettate sulle mani o mettendoci in ginocchio sui sassi.
La mia nuova maestra capì il disagio della mia nuova collocazione familiare e decise, di sua spontanea volontà, di farsi carico della mia situazione. Si presentò a casa Ferraboschi e ottenne di farmi passare tutti i pomeriggi a casa sua con la scusa delle “ripetizioni”. In realtà, mi diede l’affetto della sua famiglia e l’illusione della normalità facendomi giocare con sua figlia e altre bambine del quartiere.

[…]

Epilogo

Oggi sono la Lilli. Ho settant’anni. Abito a Montecavolo, a pochi chilometri dalla Bettola. Ho vissuto un’esistenza serena, tranquilla, anche divertente. Ho un marito, Carlo. L’ho conosciuto a Felina, un paesino di montagna. Venne a casa di mia zia, mi fece ridere, ci sposammo con le due lire che lo stato mi dava come orfana di guerra. La nostra famiglia si è allargata a due figlie, Patrizia e Paola, e tre nipoti: Sara, Elisa, Tommaso.
Sono scampata a una strage nazista, è vero, ma la mia vera impresa è stata quella di essere felice dopo. Quella notte non si è mai allontanata da me. È una zanzara fastidiosa che ronza nelle orecchie, suono improvviso che viene e va prima di poterlo localizzare.
Ripenso a quel ragazzo, Lupo, il partigiano che sparò dalla finestra della locanda sui tedeschi. “Dio Santo, che faccio? Se i miei compagni non sono riusciti a scappare? Se li ammazzano? Se vedono le buche e danno l’allarme? Se ci rubano l’esplosivo e le armi?”. Chissà quante sono le domande che si impadroniscono del cervello di un ragazzo di vent’anni. Chissà quali risposte si diede Lupo per fare quello che fece. Mise mano al mitra e sparò uno, due, tre, dieci colpi. Tutto il caricatore della sua mitraglietta contro la camionetta dei nazisti che stava scendendo da Casina nella notte di san Giovanni. Quei proiettili rimbalzarono sulla vita di trentadue vittime non solo innocenti ma forse ignare della guerra. I suoi colpi di pistola furono la fanfara che ci accompagnò alla morte.

Pagammo la ferocia della guerra e anche per l’improvvisazione di chi fu costretto a combatterla. Nell’estate del 1944 vi era una sola certezza: la guerra la potevano vincere solo gli Alleati, che avevano già liberato Roma e risalivano ogni giorno sempre più a nord. I partigiani preparavano il terreno, infiacchivano i nazisti con piccoli o grandi sabotaggi, li punzecchiavano per poi sparire nelle gole delle colline o in un bosco, che a primavera diventano dedali imperscrutabili. Quello che all’epoca non tutti sapevano è che la guerra, se proprio bisogna farla, bisogna saperla fare. Altrimenti le conseguenze sono tremende e spesso ancora più ingiuste. Come alla Bettola: quando la asettica contabilità della guerra tirò la riga finale contò trentadue innocenti sacrificati alla morte di due nazisti. E un ponte appena scheggiato.
Ripenso ai miei nonni, seduti sul letto. Più che spaventati me li rivedo stupiti, immobili, rassegnati. Ripenso alla mia mamma, che mi vestì con l’abito scuro per andare incontro alla morte come a una festa di ballo.
Ripenso anche agli sfollati dell’osteria. Perché sono rimasti? Perché non sono fuggiti? Mi sono sempre chiesta se qualcuno di loro abbia dormito, quella notte. La stanchezza è più forte della paura? La paura è più forte della stanchezza? Cosa avranno pensato quelle mamme, quei padri, quegli uomini soli e in compagnia della miseria e delle loro bestie, prima di fingere che quella notte fosse una notte come le altre? Possibile che non immaginassero? Possibile che non sapessero? Vero è che le notizie, a quel tempo, non viaggiavano per nulla. Ma possibile che non sapessero di ciò che era successo a Tapignola, con don Pasquino Borghi? Coi fascisti che il 30 gennaio del 1944 avevano arrestato e poi fucilato al poligono di tiro di Reggio Emilia lui e altre otto persone? Possibile che non sapessero dello scontro di Cerré Sologno, il 15 marzo, con dodici tedeschi ammazzati dai partigiani e 7 partigiani ammazzati dai tedeschi, che aveva scatenato la rabbia della Wehrmacht? Dal 18 al 20 marzo le truppe della divisione Hermann Goering distrussero i borghi di Civago e Cervarolo, oltre che tre borghi nel modenese. Furono uccisi 136 civili. La statale 63, che sgusciava fra la mia casa e la locanda, era l’unica via di comunicazione fra montagna e città, era il fiume che portava a valle anche la notizia degli eventi. Possibile, mi chiedo ancora, che gli sfollati non sapessero?
Penso spesso alla sfortuna che si schianta sulla miseria. Il rogo della notte di san Giovanni si portò via la mia famiglia e il suo piccolo patrimonio. Mio padre lavorava come spazzino e assieme alla mamma aveva la custodia di una bella villa ad Albinea. Aveva addirittura versato la caparra per comprare una casa in centro città. Con la sua scomparsa l’acquisto era sfumato ma la caparra era rientrata nelle mani bagnate di pianto della mamma. Con la strage quei soldi sparirono. Forse bruciarono nei materassi, forse sono ancora alla deriva in qualche libretto di deposito.
Ripenso con orrore ai Ferraboschi, quei vecchi di Fiorenzuola che dovevano essere la mia fortuna e che invece mi trattarono da soprammobile. Ho scoperto, tempo dopo, che ero un paravento. Il Ferraboschi era un fascista che aveva bisogno di un gesto di riabilitazione pubblica, forse per evitare ripercussioni personali. Io, la scampata a una strage nazista.
E poi ripenso a quel soldato, al nazista che mi ha salvato la vita. Chi sei? Sei forse “Laner, capitano di gendarmeria, altezza 1,65 metri, età circa 50 anni, carnagione pallida, occhi azzurri, forte bevitore”?
Oppure “Muller, tenente di gendarmeria, altezza 1,75 metri, età circa 35 anni, capelli chiari lisci, forse originario di Brunswick, non fumatore”. Le caratteristiche corrispondono, ma il grado forse no.
Allora forse sei “Karl Went, sergente maggiore, altezza 1,75 metri, età circa 43 anni, robusto, capelli biondi”. Potresti essere anche “Edmond Keppel, sergente maggiore, alto 1,70 metri, di circa quarant’anni, capelli biondi e occhi azzurri, forte fumatore e bevitore”?
Leggo e rileggo l’elenco dei presunti protagonisti della strage cercando di associare i pochi nomi disponibili, raccolti dall’indagine della polizia britannica, alla tua faccia. Perché il mio più grande desiderio, insoddisfatto e condannato a restare tale, è quello di incontrarti ancora una volta. Ho una domanda che sta sulla punta della mia lingua da sessant’anni: “Perché mi hai salvato?”.
Lo so, è una reazione che può sembrare assurda. Anzi, è assurdo che una vittima di una strage nazista voglia fare domande invece di lasciarsi andare a un qualche tipo di sfogo, di vendetta, di spregio. Però è così, è la mia verità. Vorrei incontrarti e chiederti: “Perché mi hai graziato? Perché non mi hai uccisa?”.
Lo so. Forse hai ucciso tu stesso i miei nonni e la mia mamma. O forse non li hai uccisi tu ma hai bruciato i loro corpi e la mia casa. O forse hai ucciso gli altri innocenti nella rimessa della locanda, o forse li hai bruciati. Ma la mia domanda resta sempre quella: “Perché io no?”.
Coltivo il sogno che non sia stata la pietà a farti deviare dal tuo assurdo dovere di soldato. Coltivo il sogno che tu abbia provato disgusto per ciò che era successo, che l’alba ti aveva mostrato in tutta la sua oscenità. Coltivo il sogno che ti abbiano fatto schifo la tua divisa, la divisa dei tuoi nemici e ogni simbolo di guerra. Coltivo il sogno che ci sia un limite oltre al quale l’uomo ritorna in sé e trova la forza di cambiare non solo sé stesso ma tutto il mondo.
Coltivo il sogno di sentirmi dire tutte queste cose. Ma ormai ho settant’anni e sono l’ultima testimone della strage. Me ne andrò, un giorno, senza sapere i nomi dei miei assassini. E nemmeno quello di colui che mi salvò la vita.

[fine]

 

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