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7 Dicembre 2017 | Racconti d'autore

Nóstoi

Poesie di Agostino Venanzio Reali tratte dalla raccolta omonima (sottotitolo “Il sentiero dei ritorni”, Castel Maggiore, Book Editore, 1995)

A cura di Vittorio Ferorelli, con la collaborazione di Alessia Del Bianco

Sacerdote, poeta e artista, originario di Montetiffi, in Romagna, dopo avere vissuto e operato tra i francescani come padre Venanzio, Agostino Reali ha lasciato dietro di sé centinaia di versi inediti. Ne abbiamo scelti alcuni dalla raccolta curata dai suoi confratelli, omaggio a un uomo che utilizzava la poesia come un’antenna, per captare la voce dell’invisibile nello spazio aperto tra cielo e terra.

Gitano idiota
(L’Altro di “Satura”)

D’altro un sospiro è in me,
dannato ai sentieri della terra.
Quando le betulle tremano d’azzurro
il reame dell’universo m’intride
l’indomita mente di un’acre
nostalgia d’infinito.
Gitano idiota amo
trarmi dietro il creato
il fiume di gente senza ormeggi
e sgombri gli occhi di felicità,
conquisa la speranza d’amore
che sempre esorbita il cuore.
I miei occhi nomadi
in altri cercano invano
il nettare della gioia divina.

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Preghiera del mattino

Il bucato dell’alba
sul filo dei monti
indora l’aurora,
arde il sole tra i rovi.
Spalancarsi d’imposte,
spumeggiare di verde,
frescura di comari ai davanzali.
Dal greto un carrettiere
ferisce l’aria con un lagno uguale;
dalla fucina di Tugní dell’oro
viene un alacre stanco martellare;
la Flavia canticchia sommessa
falciando rondini volute di brezza.
Il cuore tuttavia ha guerra:
tu, madonna mia,
fammi trovare pace con me stesso,
fammi trovare pace col tuo Dio.

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In ognuno dispera l’eterno

Stamattina gli uccelli cantano sinistri
in un sole d’islanda e stoccafissi
e io sogno canarini d’agrumi
contro il mare ionico.
Il soffitto del cielo è senza valichi
e in ognuno di noi dispera l’eterno.
Di parvenze escluse dalla siepe
piú se ne innamora la mente,
quasi ombre di nubi
mandate da collina
a collina dal vento,
liberando favi di stelle.
Se venendo la sera sapessi
che il mio male non le ha toccate
me ne andrei con la speranza
d’una fragrante purezza.

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Infantilezza della sera

Torna il carro odora il fieno
stelle grilli nel sereno.

Torna il carro coi bambini
lieto sangue erba fragrante.

Sopra l’aia fra gli stolli
gira l’ombra maggiolaia.

L’aria odora di mentastri
rane luna e falò d’astri.

Trepestii lezzo d’armenti
dolci aneliti d’amanti.

Il mio bianco gelsomino
raccomando a tutti i santi.

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Verso l’esilio interiore

Crescere l’alba di colombe
sul cotogno dell’orto
vedere piú non spero,
né dal muretto delle lucertole
le mele prevenire l’aurora.
Errano già gli smerghi
e un loro lagno acuto
sulla lama del garbino
mi svolge dal cuore e ruba
il gomitolo del desiderio.

[dalla raccolta postuma: “Incontro alle cose” / sezioni: “Adagio sostenuto” (“Gitano idiota”, “Preghiera del mattino”); “Allegro smorzato” (“In ognuno dispera l’eterno”); “Crepuscolare” (“Infantilezza della sera”); “Crescendo” (“Verso l’esilio interiore”)]

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Non dite piú parole

Era scalzo in me
con aghi di brina sui piedi.
Lo condussero davanti al plotone
e nell’aria, piú gelida
per la corrosa luna di nichel,
esplose il grido del mondo.
Era scalzo in me,
la brina gli mordeva le dita:
la donna pia e la luna
infinitamente remote.
Le sfere sui quadranti
camminavano ancora, ma voi
non dite piú parole,
sopratutto non scrivetene piú.
Hanno sparato a Dindo, ma vi prego
non dite piú parole;
la Nina è una madonna dei dolori,
ma non dite piú parole;
la filanda è muta, il fuoco spento,
ma non dite piú parole;
una gracile bimba fa la spola
da una soglia all’altra, ma non dite,
non dite piú parole, sopratutto
non scrivetene piú.

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Questi, i miei paesi

Sono questi i miei paesi
con le donne nel vano degli usci,
i ragazzi urlanti alle svolte,
la Silvia nel pullover arancione,
i melograni in fiore
sul ciglio di ca’ di Carlone
e gli occhi anonimi d’armenti
che sotto limatura di cicale
mi s’iscrivono dentro desolandomi.
Rivedo gugliate di rondini
contro il velario del silenzio,
la madonna dell’ulivo che l’afa
dei meriggi alleggeriva con l’ombra,
lunghi gli occhi dolci materni.
Rivedo Manlio, berretto a visiera
sugli occhi d’antico clown
e l’anfora di lacrime riposta
che fa del riso un gemito.
Rivedo la diruta “mistedia”
con dentro, bellicoso, il san Michele;
rivedo gli occhi nella sera clementi
dei borghi incastonati nei monti
che non speravo rivedere piú.
Nella lunetta turchina
sul portale della chiesa rivedo
l'”ecce homo” di terracotta
ancora ammanettato, schernito
da piovaschi e bestemmie,
solo tra parvenze aliene,
ancora sempre presente
negli ostensori della gente
che quando va via
anche lui un po’ se ne va.

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Il rubino dell’amata

La betulla non trema
nel sole gelido;
sola traccia di vita
il respiro che gela.

Nei penetrali il sangue
mobilita e pulsa,
fantaccino inesperto
del riso di canini.

Il tempo e la morte
rubano dal castone del cuore
il rubino dell’amata,
la sua fiamma meridiana.

A chi smarrisce la rotta
della speranza, amara
e dolce è l’ora che morte
col capestro avanza.

È necessario custodire
la perla nella conchiglia,
per avere qualcosa da offrire
agli amici quando si torna.

[dalla raccolta postuma: “Fantasmi di un reduce” / sezioni: “Caina” (“Non dite più parole”); “Interludio” (“Inno breve”); “Nóstoi” (“Questi, i miei paesi”, “Il rubino dell’amata”)]

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Lo scricciolo

Lo scricciolo posato sul cavo ad alta tensione
cantava nell’alba tenera di colombi viaggiatori:
così talvolta il cuore sulla vastità del mistero.

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Chiese

Consunte madri
pazienti nei vicoli,
ferme vele sui clivi
la croce rugginosa
intarsiata nel sereno
a colloquio col vento
calato dai monti,
a voi la nube
arsa del mio pensiero
timidamente viene
a implorare pace.

[dalla raccolta postuma: “Poesie eccedenti]

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Per approfondire si può leggere e ascoltare la puntata dedicata ad Agostino Venanzio Reali nella rubrica “Protagonisti” di RadioEmiliaRomagna
 

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