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24 Maggio 2012 | Racconti d'autore

Novelle stralunate dopo Boccaccio

Riscritte nell’italiano di oggi, a cura di Elisabetta Menetti, Quodlibet Editore, 2012 (prima parte).

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

23 maggio 2012

Uno dei generi più apprezzati della letteratura italiana è la novella, che ha iniziato la sua fortuna nel Trecento con Boccaccio. Ma se Boccaccio è il novelliere più noto, non possiamo dimenticare i suoi seguaci o epigoni del Quattrocento e Cinquecento, da Sacchetti a Bandello, dal modenese Francesco Maria Molza a Ser Giovanni Fiorentino. Il problema, per il lettore di oggi che abbia voglia di scoprire storie fantastiche e sorprendenti, spesso anche conturbanti com’era nello stile popolaresco di allora, è la difficoltà di leggere l’italiano antico. Per questo l’editore Quodlibet ha chiesto ad alcuni autori di tradurre le novelle nel linguaggio contemporaneo. Tra questi “traduttori” vi sono noti scrittori emiliano-romagnoli: Daniele Benati, Ermanno Cavazzoni, Gianni Celati, Ugo Cornia. Vi leggiamo due novelle riscritte dal modenese Ugo Cornia e dal reggiano Ermanno Cavazzoni.
Francesco Maria Molza (1489-1544)

L’avventura di due trombettieri
Francesco Maria Molza
Novella riscritta da Ermanno Cavazzoni

Poiché in vari luoghi della Lombardia si era dif­fusa, o dicevano che si era diffusa una pestilenza mortale, era vietato poco tempo fa ai lombardi di entrare in diverse città, e soprattutto a Firenze, dove si faceva buona guardia per ordine dei magi­strati che in questi casi sono attentissimi. Come se bastassero queste pignole contromisure terrene (e non invece il pentimento e le preghiere) per non far entrare dentro le mura l’ira di Dio per i nostri traf­fici orrendi. Dunque essendo spesso impossibile per molta gente proveniente dalla Lombardia procede­re oltre, capitò che due tipi in cammino verso lo stesso posto s’incontrassero per strada; erano due tipi qualunque, di famiglia non erano gran che; e facevano un mestiere di basso livello, cioè gli araldi, e davano in affitto a chi li pagava la voce e il fiato, e campavano di questi guadagni. Uno era al servi­zio del marchese di Mantova, l’altro lavorava per la città di Modena e lo chiamavano Burdiga, forse perché la sua vita era un bordello. Il mantovano si chiamava invece Barrachino, e per una qualche ragione portava appese a una spalla due trombe con lo stemma del marchese suo signore. Il Burdiga forse per andar via più leggero aveva lasciato a casa le sue; o forse s’era dimenticato di prenderle. Men­

tre quindi camminavan di fianco s’erano messi a discutere come entrare a Firenze. «Ma te – diceva il mantovano al Burdiga – te come fai per entrarci?» «Eeh – diceva il Burdiga – lo sai che ci stavo pro­prio pensando? e m’è venuto in mente che vicino alla porta c’è un oste che siamo in confidenza sotto ogni riguardo, e che forse grazie a lui ce la cavo ad entrare». «Ma se alla porta le guardie, che sono sempre scassacazzo e rompicoglioni, ti fanno giurare, tu giuri?» «Io per me giuro cento volte – gli risponde il Burdiga – che se coi giuramenti si entra, per me va più che bene; e se poi nel caso che non entrassi, io sono uno che lascia le cose andare per il loro verso, essendo che da parte mia non ci perdo un soldo, perché m’ha mandato il Comune, e se c’è danno è suo. Lo sai anche te che chi serve il Comu­ne non serve nessuno». «No aspetta – dice allora il Barrachino – che ho trovato il modo di entrar di sicuro: io ti do una di queste trombe che ho al collo, e tu fai finta d’essere mandato dal mio signore, così non ci sarà nessuno che non ti vorrà far entrare». Al Burdiga gli piacque il consiglio, prende la trom­ba, e come avevan pensato entrano senza problemi a Firenze; vanno alla locanda e in poco tempo fan tutto quello che erano stati mandati a fare. Dopo di che tornati alla locanda e non sapendo più cosa fare si mettono a girare per la città. Quando arrivano alla chiesa dell’Annunciata era già tardi; stanno un po’ a guardare le pitture e i voti attaccati, poi non potendo più reggersi in piedi, si mettono sdraiati dietro l’altar maggiore per riposarsi e rimettersi in forze. Dove però, o per la stanchezza o per il frescolino, si addormentano. E continuano a dormire fin che viene notte e la chiesa vien chiusa. Il Burdiga poco dopo si sveglia, si guarda attorno e vedendo solo un gran buio, aveva paura; poi gli viene in mente il collega, e brancolando lì intorno si mette a cercarlo per vedere dov’era finito; lo trova che dor­miva ancora di brutto; si mette a tirargli un braccio fin che l’altro si sveglia. Il mantovano ancora mezzo addormentato credeva d’essere alla locanda. «Porco Giuda che mi sono addormentato qua su una panca mentre gli altri sono andati a dormire lasciandomi solo… mi pare anche, se ben ricordo, che non ho cenato o bevuto – poi sentendo il Burdiga gli dice – amico! ma porco cane dove diavolo siamo?» Alla fine comprendendo d’essere chiusi dentro la chiesa pensano di starsene buoni, perché se qualcuno li sente magari crede che si sono nasco­sti lì per rubare. E così mentre brontolano per esser rimasti senza la cena, sentono picchiare forte a un portone da fuori e chiamare; e subito da una porti­cina della sagrestia vedono uscire un prete con una candela in mano, con un mantello sulla camicia e nessun ulteriore vestito addosso; il quale va dritto al portone e senza domandare chi era lo apre. E vien dentro una donna non male, con due piatti di stagno avvolti in un tovagliolo bianchissimo; il prete con l’espressione contenta li prende, li appog­gia su un altare vicino e comincia alla donna a farle delle carezze e a darle i più appassionati baci del mondo. Poi senza nessun rispetto della religione e del luogo s’era tolto il tabarro, l’aveva disteso davanti all’altare e ci aveva disteso sopra la donna, che un po’ non voleva e diceva «non voglio», e un po’ però non le dispiaceva; ma lui aveva già inco­minciato, in buona pace con la coscienza, a farle quello che non si fa in chiesa, ma casomai nei bor­delli che ci sono a Camaldoli.

Aah! pazienza infinita di Dio! che più grande non si può immaginare! se lascia impunite tutte le schifezze che fanno i preti; permettendo che sfoghi­no i loro delinquenziali appetiti davanti all’altare, cioè sotto i suoi occhi e sotto le reliquie sante dei suoi santi gloriosi. Credo che anche le pietre di quella chiesa si vergognassero e cercassero di vol­tarsi da un’altra parte nel muro. Non so certa gente dove prende il coraggio di far quello che fa. Ma adesso non ne voglio parlare. Dico solo che ne conosco uno di questi ministri di Dio che sta a Roma, ed è arrivato a un punto tale di vizio che anche i più schifosi preti che si posson trovare sem­brerebbero dei santi devoti, al confronto con lui. Che è arcivescovo domenicano (e tra l’altro è mio zio) ed è una carogna vile, pestifera e velenosa come un serpente, gli occhi ce li ha gonfi di voglie, il collo grasso, la gola come un imbuto, e ci mette tanto impegno a fare del male quanto un santuo­mo a fare del bene. Sempre pronto a giurare il falso contro gli amici, e ad esempio anche contro noi che siamo i suoi parenti; sa inventare le più pazzesche malvagità, è bevitore accanito, e dove c’è fango o merda gli piace rivoltarcisi dentro peggio che un porco. Ma lasciamo stare, che sento già il crepitar delle fiamme e l’odor di bruciato che manderà il maledetto nell’aldilà.

Se uno ha in mente la vita malefica e scellerata di questo tale (che come ho detto è mio zio), sarà più facile immaginare come il prete di cui sopra avesse potuto coricarsi e amoreggiare con la sua devota davanti agli occhi della Vergine Santa e del Figliolo, che abitando in chiesa vorrebbero almeno un po’ di decenza. Quindi i due trombettieri, che vedevano tutto, gli sembrò brutta cosa non cele­brare il nobile assalto dando fiato alle trombe; così messe alla bocca, incominciarono a suonar così forte che pareva dovesse venir giù la chiesa. Il reve­rendissimo prete era come gli fosse venuto il diavo­lo addosso o gli si fosse infilato su per il di dietro, per cui era corso fuori atterrito da un accidente così improvviso, e quella poveretta con lui, creden­do fosse venuta la fine del mondo. I due colleghi intanto erano quasi morti dal ridere; vanno all’al­tare che doveva essere il letto di nozze e prendono i piatti con la tovaglia bianca e il tabarro di lui che era steso per terra. Quindi tutti allegri tornano alla locanda, dove slegano la tovaglia e trovano i piatti pieni di ravioli e altre cose; essendo passata l’ora di cena da un pezzo, cenarono di gusto a spese del prete e della sua concubina. Poi se ne vanno a letto, invece che dormire per terra e a digiuno, come avevan creduto. Al prete intanto gli sembra­va di sentirsi sempre le trombe dentro le orecchie; finché quando si fu un po’ calmato tornò mogio mogio in chiesa, non sapendosi immaginare chi né che cosa di quel gran casino, e neanche della scom­parsa del suo tabarro. Chiude la porta e se ne va a dormire, anche se dormire in quella notte riuscì a dormire poco; perché appena sentiva un soffio o uno scricchiolio credeva stessero ricominciando le trombe.

La mattina dopo il Burdiga avrebbe voluto andar subito via da Firenze; ma il mantovano non aveva fretta e non si preoccupava. «Dai! Barrachi­no! – diceva l’altro – perché non ce ne andiamo? abbiamo avuto un colpo di culo, andiamo prima che il culo si trasformi in qualcos’altro; andiamo che è molto meglio, per Dio! » Il mantovano voleva prima vendere il tabarro del prete, e non voleva perdere neanche un centesimo per la smania di andare. «Adesso ho capito – diceva allora il com­pagno – perché, su dieci impiccati, nove son man­tovani; e anche te mi sembra che non vuoi abbassa­re la media. Perché mentre stai a vendere quell’ac­cidente di tabarro, magari lo riconoscono, ci pren­don per ladri e ci impiccano insieme senza neanche starci a sentire». Il mantovano girò tanto finché l’ebbe venduto a un rigattiere di piazza San Loren­zo; dove il prete, che c’era andato per comprarne un altro, lo riconobbe, come aveva previsto il Bur­diga. «Da chi l’hai avuto?» «Da due forestieri che son trombettieri del duca di Mantova». Il prete restò meravigliato; ma andò subito ad appellarsi agli Otto della giustizia penale: che gli era stato rubato il mantello. E quando alla locanda arriva­ron le guardie, il Burdiga si fece più bianco di un morto, che dalla faccia si capiva benissimo la veri­tà; mentre il mantovano aveva già una sua versione da dire, per cui faceva coraggio al socio. Quando furono davanti agli Otto per dire se l’accusa era vera, il Barrachino con la faccia sicura e la voce ferma disse così: «Signori, è vero che il mantello è stato del qui presente signor prete; ma adesso non è più suo, bensì nostro secondo diritto; e se lo dimostro ho vinto la causa. Bisogna sapere che ieri l’altro il suddetto ci chiese d’andare a suonare ad un matrimonio, e noi l’abbiamo servito come fosse stato il gran conte di Maddaloni in persona. E giuro che fu servito meglio di quanto avrebbe desiderato. Noi per questi servizi siamo abituati a venir ben pagati; ci sembrò perciò cosa onesta che il signor prete ci lasciasse in compenso questo mantello; adesso si vede che si è pentito e dice che l’abbiamo rubato. Se vi sembra sia furto giudicate sull’anima vostra e sulla nostra fatica e sudore, che noi siamo poveri e contiamo anche sui guadagni più piccoli. Se lui però vuol dire il contrario, sono pronto a dare testimonianza del luogo, della sposa e di come è andata la festa». Il prete sentendolo parlare così e sentendosi strizzar la coscienza per la gravità del reato, capì d’essersi messo in un’impresa sballata; e per paura che la faccenda andasse oltre e si sco­prissero i suoi malaffari, non solo non fece obiezioni, ma disse che era tutto vero quello che il mantovano aveva detto, e che solo gli era spiaciuto che avessero venduto il tabarro senza dir niente, come l’avessero rubato. Gli Otto considerando che il prete aveva fatto già retromarcia, lo cacciarono via incavolati, e lasciarono andare senza problemi i due trombettieri. I quali senza aspettare un minuto, tutti allegri per l’avventura, se ne andarono via da Firenze.

Mi pareva poi d’aver sentito che il mantovano, mentre prendeva i piatti sopra l’altare, avesse preso senza volere anche la tovaglia che c’era sotto; e che il prete li accusasse di nuovo. Ma non potrei con­fermare. Vera o no la cosa, i due senza altre noie se ne tornarono a casa.

Brano corrente

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