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11 Luglio 2019 | Racconti d'autore

Tra l’orlo e l’ordito

Poesie di Isabella Bordoni tratte dal progetto “Theoria degli affetti / Abitare le conseguenze”

A cura di Vittorio Ferorelli e Rita Giannini. Lettura di Isabella Bordoni

Autrice e artista, nella sua ricerca poetica Isabella Bordoni ha più volte indagato la dimensione del tempo e i suoi segni: quelli depositati negli archivi, o quelli impressi nei luoghi e nelle vite. Come nel progetto “Theoria degli affetti / Abitare le conseguenze”, che l’ha portata a vivere per due settimane nella Casa residenza per anziani di Vignola. Vi proponiamo, nella lettura dell’autrice, alcuni testi tratti da questo progetto, che, oltre a un itinerario acustico urbano e una mostra fotografica, ha prodotto un’edizione radiofonica per il programma “Tre soldi” di Rai Radio 3.

Essere passati da qui da questa terra, incontrarsi amarsi tessere vicinanze
lontananze sopportare l’abbandono, muovere le mani sulla carta,
l’abbraccio l’archetto il pennello, le cose di casa,
preparare la tavola con gli ospiti hanno costruito la durata,
il patrimonio, l’eredità più feconda.
Poi c’è il morire. E ogni morire tu intuisci essere un atto
che giunge a leggibilità solo nel nostro morire.
Tra un momento e l’altro, si apre al mondo una tenerezza.

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Sul finestrino del treno
è un ricalco di sé il tempo
sul riflesso
del vetro, decanta nell’attraverso.
Vedo un ragazzo, un uomo giovane,
ha i jeans ha un pullover grigio ha occhiali ha
abiti che tu non hai mai avuto è
qualcuno che tu non sei mai stata
eppure di te la stessa ha
consuetudine dei gesti.
Così sul vetro c’è
un paese gli abiti e ci sei tu
sulla bici grande
che ti cercavi le chiavi nella tasca.
Eravamo altri ed eravamo questi

e negli altri sei tu sei
quella donna sui trent’anni che ha
il vezzo del sorriso sugli scogli
e dietro l’erba c’è
poi lontano, sulla destra, il mare.
E nel vederti in altri dove sei, sono io
che per età oggi
così spostato l’asse il tempo, sono io
tua madre

e che arbitrio penso,
dirlo, se un altro io altro non è
che figlia sempre.

Eppure e nonostante e anche, essere qui
sull’annuncio di un’altura, qui su questo treno penso
essere qui per le braccia di una figlia.
Noi tutti esseri del sempre,
inattuali, inattesi, ininterrotti
dell’attimo che avanza e svana e sconosce e dura
e io mai così intera come
nella cosa rotta.

Essere caduta in quella roggia, penso
in piedi come un battesimo e nessuna ferita
se non un black out, un altro, ancora uno.

Quella notte noi
distese l’una e l’altra quasi accanto,
il corpo è diventato spazio antico
e noi a raggiungerci
attraverso lontananze.

Io appartengo alle generazioni
che amano i bambini e i vecchi
che conoscono la parola cordoglio
e la sostanza del lutto.

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Giungere fino a qui e sentire la resa del pensiero.
Avere pensato che da grandi si sarebbe capito e invece, non avere capito.
Sentire l’inizio e la fine, senza soluzione di continuità.
Un costante incipit del congedo.
Attenersi al mondo.
E poi?
Chiedeva, sottraendosi.
Giovinezza dell’epoimondo, adultità e epoché.

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Ho immaginato un mondo di sostanze piccolissime, legate tutte e mutevoli nella forma dove ogni cosa si sacrifica nell’altra… in questo mondo traccio segni che si vorrebbero durevoli. Di alghe e pesci, di strisce d’acqua, di luci e ombre. Mondo. Mondo. Quello che qui si chiama Mondo!
Nel risveglio degli odori dall’ippocastano all’acanto, vicino al pino, al leccio, al carrubo tra alberi di bassa quota ti vedo, vedo, ti vedo farti urna sensibile, ti vedo fratello sorella tu che mi sei tu loro negli altri che io sono, ti vedo, vedo ti vedo la compresenza di molte vite.
Noi prossimi soltanto e solo talvolta, nell’ora invulnerabile di questa stella, iniqui nella struttura del sapere.

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Pochi flash nel vederti.

Prima di te tua madre in un letto simile a questo.
Il ricordo fa materia nel cervello si traduce
in immagine visiva ma il tempo, chi lo sa se esiste.
Forse il tempo è ciò che negli occhi si stipa e si raggruma.
Ma neanche gli occhi
esistono.

Ricordo la tenuta delle mani. Ma il tempo 

sta in un io non più io già altro io.
Sempre, il ricordo, è in qualche slittamento.


Essere te, o me, o l’impronta che lasciamo. 


La mano tua, se destra, si appresta agli intarsi del discorso
con quanta competenza la sinistra ripassa la procedura delle forme. 

Tu, se il tremore è nelle mani, è per continuo ripasso di sequenze. 

Perché la mano sia mano e il suo tempo forzi l’esistenza.

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Arrivare è “venire alla riva”.
Forse chi giunge, torna.
E il suo viaggio, è stato per mare.

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E ora, rifacendo una strada che conosco a memoria
ma che mi disorienta e mi situa
in una diversa e nuova prima volta,
sulla via di un andare che non è ritorno
e che non mi è casa né patria né abitudine
ma luogo semplicemente,
spazio del possibile, tempo dimorabile,
penso soprattutto alla ragazza sfinita dall’Alzheimer
che oggi ha oltre settant’anni ma dimostra i miei

penso che c’è, per lei con lei,
pure al buio c’è
un punto assolato, nella stanza.

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Al sicuro da qui, lontano / tra le stoffe e il canneto,
questa donna rincalza recente giovinezza.
Lei sogna di mattina appena / abbassa gli occhi le rade ciglia chiare.
Negli occhi risacche di malto e grano / intonano un Magnificat
straripa nell’ombra che le cerchia il viso dopo ogni eclissi
al suo bel muso da serpentello non posso dire
io veramente non so / perché si muore.

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Un tempo, nel mio tempo, c’era l’incredulità. Un senso d’ingiustizia che chiamava a una rivolta, intima perlopiù. Un lacrimare feriale tra cuore e carne per quello che la mente non sapeva ‒ che altrimenti.
Poi via via nel mio tempo, si è ammorbidita quella specie di rivolta, ammutolita un po’ ‒ per via dell’altrimenti; che non è corpo o cuore ma altro perfino, a cui io non so dare e dire un nome.
Sennonché alla morte non si può che credere e in quel credere non smettere di applicarsi al punto, alla cucitura, alla piega tra l’ordito e l’orlo. L’orlo, quel punto a cui non si accede che “poeticamente”.

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Tenersi negli occhi e più dentro, un chiarore di mondo.
Né corpo, né non.
Trabocca e nonostante non ha nome che “infinitamente”.
Consegnare a te figlia anche il difficile amare, che non ha un nome ma tutti.
Topìa del tempo. Provo a pensare il luogo come attimo.

Il sonno è arrivato così, senza motivo,
ha masticato ultime parole commestibili
mentre qualcuno bussava piano.
Il cielo è un tormento di stelle.
Occhiali ricolmi di malinconia
lasciati distrattamente sul comodino.

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Ci dev’essere ‒ pensavo ‒ un passaggio un bordo di questa esistenza da spostare,
sollevare, aprire e dietro o sopra o sotto o avanti un varco
per raggiungere un’altra esistenza dove l’io ancora io ma leggermente diverso.
Avere scandito una possibilità nel tempo umano

un orizzonte, un paesaggio, piuttosto che altri.
Forse morire è proprio questo raggiungersi nei punti rimasti in sospeso
nei luoghi, nei tempi, raggiungersi e ricomporsi.
Ora lo dico, che io chiamo proprio questo “poesia”.
Non una “resistenza” alla morte ma sua “coesistenza”, anticipazione e lungimiranza.
Qui, in questa spaziatura terrestre, in queste nostre circostanze umane

nel disegno tracciato con occasioni ‒ e accadimenti ‒ e conseguenze,
dove spazio e tempo coincidono, c’è, talvolta, un suono esatto.
A questo suono, precipitato nel tempo e che il tempo ci ha dato,
sostanza solida dei fili e dell’erba, io dedico.

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12 aprile.

Rientro ora nella stanza con una densità del pensiero che centrifuga le parole, asciuga la retorica.
Oggi ho incontrato occhi aperti e chiusi,
stati di assoluta vigilanza e altri di assenza e abbandono a sé,
ma in tutti ‒ in tutti e in ciascuno ‒ ho incontrato pungente, l’intelligenza.
A questa intelligenza si addice ora
un piccolo silenzio.

Brano corrente

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