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31 Ottobre 2019 | Racconti d'autore

L’orma della nostra storia

Testo di Andrea Emiliani tratto dal libro “Il museo alla sua terza età. Dal territorio al museo” (Bologna, Nuova Alfa, 1985)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Francesco Angelelli (associazione "Legg'io")

Storico dell’arte raffinato, tra i più esperti della pittura moderna italiana, Andrea Emiliani fondò nel 1974 l’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna. Rileggiamo le pagine in cui spiegava, con il suo stile inconfondibile, cosa sono in concreto questi beni, al di là delle definizioni tecniche. Ringraziamo per la lettura Francesco Angelelli e l’associazione “Legg’io”.

Linguaggio comune e più raffinati codici per gli «addetti ai lavori» sembrano non essere in grado di sottrarsi, oggi ancora, alla burocratica seduzione di certe stringate formule d’uso. «Beni culturali», come anche «patrimonio culturale» sono infatti formule che letteralmente trionfano anche nel linguaggio delle comunicazioni di massa: e poiché questo dibattito, a partire dagli anni Sessanta, è stato piuttosto intenso, esse sono entrate a vele spiegate anche nell’uso corrente. Nulla di più desolante: si tratta infatti di riduzioni, per lo più di carattere giuridico e amministrativo, nate dalla sintesi obbligata dei dettati di legge. Purtroppo, è significativo che queste formule siano state originate e diffuse proprio dal codice dei giuristi.
Anche questo è un segno importante del fatto che al settore è stata dedicata nei secoli un’attenzione prevalentemente compresa entro l’opposizione fra interesse pubblico e interesse privato. Anche questa opposizione è motivo di indubbia portata culturale, ma non dovrebbe essere il solo. Sembra però difficile che l’attenzione all’«arte» intesa come oggetto possa configurarsi secondo libere scelte culturali. Valgono forse più i grandi «modelli» della tesaurizzazione, del mercato, della speculazione, che sono modelli del resto antichi e tradizionali. Essi testimoniano in fondo che «beni culturali» e «patrimonio culturale» non sono simboli o immagini, ma oggetti e materiali concreti, presenti nella nostra vita sociale e individuale.
L’impegno che noi ci proponiamo, e che questo stesso libro vuole illuminare, è che proprio dietro quelle insegne di sapore giuridico sta lo spazio gigantesco della nostra stessa vita storica o temporale. Si tratta della nostra creatività, della vicenda del nostro lavoro sedimentato, stratificato secondo accumulazioni che qualche volta tocca all’archeologo di scoprire, ma che per lo più si erigono ancora attorno a noi. Enorme, straordinariamente vitale è, nel nostro Paese, lo spessore storico entro il quale si annidano le formule abbreviate che dicevamo prima, e che non vale la pena di usare anche perché esigue, irrispettose di fronte all’immane spettacolo del lavoro dell’uomo e delle comunità.
L’intero luogo sociale della nostra esistenza è contenuto entro l’espressione di ambiente. E quest’ultimo può assumere la veste di ambiente costruito, e cioè eminentemente progettato e lavorato dall’uomo. Ma non si può tralasciare il fatto che «costruito» appare, alla luce di una riflessione ormai spontanea, anche l’ambiente rurale, come del resto ogni altra generale e particolare caratteristica. Il nostro spazio è, come ci appare, frutto di un’organizzazione potente, continua, ininterrotta. Si tratta di peculiarità eccezionali, probabilmente anche ingombranti, come numerosi fra noi malignamente pensano.
Certo, queste peculiarità sono un dato che segna di sé la società italiana, ne condiziona molti movimenti, fino a dettare determinate circostanze e limiti ai modi di sviluppo. È probabile in ogni caso che proprio queste peculiarità, se opportunamente conosciute, possano indirizzare quella cosa difficile, smarrita o inafferrabile che si definisce qualità della vita.

Tutte queste cose insieme sono, indubbiamente, le nostre città, le nostre campagne, le nostre stesse case. Certo, l’orizzonte del paesaggio agricolo che accoglie anche l’occhio distratto del guidatore d’autostrada.  Certo, il profilo delle case, l’immagine della città che silenziosamente nutre la nostra vita e il nostro lavoro. È raro che a qualcuno di noi sfugga la sensazione di ripercorrere vie consuete, di calpestare selciati e piazze logorati da un lungo cammino, di assopirsi in stanze già abitate o di affacciarsi a finestre che ripetono un antico, carissimo sguardo. Questa emersione lenta ma continua di un paesaggio, sia urbano che rurale, interamente, intensamente costruito dall’uomo, è allora la nozione più esatta che si possa cercare di far rientrare nel così esiguo cestino dei «beni culturali». È l’orma stessa della nostra esistenza storica, non sminuzzata in una serie nozionistica ed enumerativa di monumenti, ma strettamente connessa ai perimetri spaziali che oggi ancora noi sensibilmente avvertiamo, quali la terra, le prospettive di paesaggio, il cielo stesso con le sue nuvole o il suo sereno.
Ognuno di noi, dall’angolo di osservazione più normale e quotidiano della sua vita e delle sue attività, può dunque avvertire concretamente quel senso di posterità che l’opera dell’uomo contiene allo stesso titolo del senso di attualità, senza davvero che il primo assuma il significato un po’ aristocratico e un po’ lamentoso che una intera cultura e un lungo costume politico hanno invece per decenni e decenni cercato di alimentare.
È certo che, a un’augurabile pulizia delle cristallizzazioni gettate in questo modo sullo spessore storico e spaziale italiano, nulla può giovare quanto una esatta rilettura del rapporto fra società e arte, fra società e lavoro. Rapporto entro il quale, inoltre, fondamentale appare la conoscenza dell’opera dell’uomo all’interno dell’organizzazione dello spazio.
Allorché a ognuno risulterà chiaro quanto intenso sia il contributo dell’uomo e del suo lavoro su ogni formale apparizione del nostro paesaggio così urbano che rurale, e dunque di come inesistenti appaiano anche i concetti di «bello di natura», oltre quelli del «bello innato», allora molta strada sarà stata fatta per leggere nel profilo del nostro ambiente, sia nelle vesti esterne che nei suoi interni contenuti, che davvero l’arte può essere quell’«homo additus naturae» (quell’“uomo aggiunto alla natura”) di cui Bacone suggeriva l’esatta, moderna definizione.

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