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27 Settembre 2017 | Racconti d'autore

Parliamo dell’elefante

Testo di Leo Longanesi tratto dal libro omonimo (sottotitolo: “Frammenti di un diario”, Milano, Longanesi, 1947)

A cura di Vittorio Ferorelli

Il 27 settembre di sessant’anni fa ci lasciava Leo Longanesi, giornalista, disegnatore ed editore. Per ricordarlo vi proponiamo alcune delle sue pagine, lette dall’attore Ivano Marescotti nella Biblioteca comunale “Giuseppe Taroni” di Bagnacavallo, paese in cui nacque. La lettura, realizzata il 15 giugno 2016, ha fatto parte della rassegna “Voci d’autore“, organizzata dall’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna.

Duclos, giorni fa, diceva:
«Signori, parliamo dell’elefante
(un giovane elefante di cinque anni
che destava la curiosità dei parigini);
è la sola bestia di una certa importanza
di cui si possa parlare, in questi tempi,
senza pericolo».
Grimm, Correspondance

1938

[…]

2 marzo
«Certo, il fascismo conosce i nostri lati deboli: è la sua sola forza», dice B.

[…]

18 marzo
Io avevo dimenticato i colori dei miei paesi, ed ora mi appaiono come li vidi fanciullo; Lugo, Bagnacavallo, Alfonsine. Ad ogni stazione ritrovo una Romagna perduta che il tempo non ha invecchiato. Ritornano all’orecchio le voci degli anni lontani, le cadenze familiari dei facchini nelle stazioni. I viaggiatori sono sempre gli stessi ciarloni ed espansivi personaggi della terza classe, tutti amici che riprendono i discorsi interrotti al mercato.
È davvero in treno che la Romagna si tiene unita; in treno si ha notizia d’ogni luogo, d’ogni famiglia, d’ogni affare. E se le notizie sono brevi e già risapute, allora il romagnolo ama discorrere di problemi grossi, di argomenti difficili. Ripete vecchi luoghi comuni, azzarda paragoni storici e ricorre ai pochi ricordi di vecchie letture o di conversazioni con uomini illustri. Perché ogni romagnolo ha sempre conosciuto un uomo numero uno, come s’usa dire, e di lui si fida più che del Vangelo. E qui bisogna notare che nei nostri paesi, per essere ascoltati, basta esercitare una professione liberale, leggere gli articoli di fondo e sapere, all’occasione, spiegare una parola difficile come parastatale, ad esempio, simultaneo o concomitante. Se una di queste parole poi entra nell’orecchio di chi v’ascolta, allora non gli sfuggirà più. A distanza di anni la ripeterà anche quando meno occorre.
Come piacciono le parole difficili ai miei compaesani! Un tempo, ricordo, bazzicava per casa un sensale che, udita non so da chi di noi la parola analogo, la ripeteva ogni cinque minuti per intercalare il discorso.
«Analogo è una gran bella parola», diceva.
Sì, i miei cari compaesani sono tutti un po’ illuministi ed hanno il gusto del sapere. Vogliono sempre sapere qualcosa di più di quel che gli occorre per vivere, e questa è la loro vera disgrazia. S’informano come possono e una volta informati, poveretti, sono così candidi da credere fino alla morte a quel che sanno. Se voi spiegate a un vostro vicino, in treno, chi era Carlo Magno, ecco che quel bravo viaggiatore, appena ritrovati gli amici al caffè, discorrendo del più e del meno, ricorderà Carlo Magno e lo renderà colpevole di Mentana.

[…]

22 marzo
La noia segue l’ordine e precede le bufere.

16 giugno
Fra vent’anni nessuno immaginerà i tempi nei quali viviamo.
Gli storici futuri leggeranno giornali, libri, consulteranno documenti d’ogni sorta, ma nessuno saprà capire quel che ci è accaduto. Come tramandare ai posteri la faccia di F. quando è in divisa di gerarca e scende dall’automobile?

17 giugno
«Cercate di essere sincero, guardatevi nel profondo, afferrate la vostra coscienza, non abbiate timore di giudicarvi. Bisogna, di tanto in tanto, purgare la propria anima», mi dice B. C., un onesto signore di cinquant’anni, amico di famiglia. «Voi crederete che si tratti di politica, ch’io abbia una crisi, come tanti; no, mio caro, si tratta d’altro. Oggi è uno di quei giorni in cui sono solo con me stesso, ed ho un peso qui, sulla coscienza, che mi infastidisce».
Ci sediamo in giardino. Il signor B. C. guarda lontano, con occhi assenti.
«Sento che lei ha qualcosa da raccontarmi», dico.
«Sì, mio caro», sospira il signore con estrema malinconia.
«Dovete sapere che io, all’età di vent’anni ero un giovane allegro, vivace, contento di vivere, uno studente che non studiava. Avevo la parola facile e gli occhi accesi e le donne non mi costava fatica conquistarle. Bastava ch’io le fissassi un po’, poi con due frasi ben dette e le mani allungate a tempo giusto tutto era fatto… Ero allegro e spensierato, ripeto, più amico del diavolo che dell’acqua santa…
Ebbene, una sera, era giugno, ricordo, ed i miei erano già in campagna, chissà perché, forse perché le mie amiche non erano più in città, o perché il caldo era stato quel giorno più pesante, o perché di tanto in tanto il male bussa alla nostra porta, dicevo, dunque, che una sera misi gli occhi sulla nostra serva. Doveva partire l’indomani per raggiungere i miei in campagna. Fino a quel momento non l’avevo mai guardata, si può dire; era una bionda slavata, quarantenne, col viso lentigginoso e gli occhi un po’ cerchiati da una leggera congiuntivite, le labbra pallide, screpolate, senza contorno, sottili e logore come le asole di una vecchia giubba. No, non era ripugnante; forse ho un po’ esagerato nel descriverla. Aveva un seno gonfio, e i fianchi larghi, ma le gambe ben fatte.
Sì, credo che tutto accadde per colpa delle gambe. Le era morta la sorella da pochi giorni, era in lutto e portava le calze nere… Ecco, debbo dire che fin da allora le calze nere, specie quelle di cotone che fan le gambe più tonde, più spesse, più solide, debbo dire che le calze nere mi sono sempre piaciute. Non siete di questo parere? Con le calze nere una donna non mi deve venir vicino!…
Dicevo, dunque, che quella sera ero in terrazza al buio e guardavo giù nella strada la gente mangiare il cocomero. A un tratto, mi venne in mente che la serva aveva le calze nere perché le era morta la sorella. Fu un pensiero rapido, ingiustificato, improvviso. Mi voltai e guardai nella cucina illuminata. Sì, la serva aveva le calze nere, di cotone nero. Allora mi galoppò in testa il desiderio di quella donna; le orecchie mi si infuocarono, e il cuore cominciò a battermi forte come se stessi per compiere un delitto. L’Aminta, così si chiamava la serva, asciugava i piatti e guardava dalla mia parte con occhi assenti e stanchi. Ma fu subito sorpresa dal mio sguardo, come una rana dalla luce di una lampada.
Capì all’istante che io non ero lo stesso uomo di cinque minuti prima, pensò subito che eravamo soli in casa e ch’io avevo qualche idea strana. Intuì che qualcosa poteva accaderle, ma nel contempo non voleva credere ai suoi dubbi. Aminta, sembrava dicessero i suoi occhi, non lasciarti cogliere da paure ridicole, allontana questi sciocchi pensieri, sbagli. Ma sentiva di non sbagliare ed era attratta, più che dal mio sguardo, dalla situazione, dal momento… come dire? Era caduta nel mio momento.
Voi lo sapete, ogni uomo ha sempre un momento accanto a una donna nel quale può coglierla senza fatica. L’importante è raggiungere quel momento e non farselo sfuggire. Forse è questione del luogo, dell’ora, della stagione, non so, ma il nostro momento viene sempre. E l’Aminta aveva sentito ch’era perduta, ch’era entrata nella mia costellazione. Tentò una difesa: ‘Signorino!’ disse, ma era tardi. L’indomani mattina, mentre dormivo, partì, dopo avermi preparato il caffè latte. Raggiunse i miei genitori in campagna.
Ebbene, ebbene direte voi, cosa c’entra tutto ciò? Ecco: ricordate l’anno scorso quando veniste a trovarmi in campagna, ricordate di aver veduto in casa una vecchia serva, una vecchia cuoca? Una sera le parlaste, in giardino. Ebbene, quella era l’Aminta, ed è morta stamattina. Voi mi capite, io sono un uomo serio, ho dei figli, sono vecchio ormai… e quando dico che un peso mi preme sul cuore e che la coscienza…».

[…]

27 luglio
Sono fanatici, ma non senza conservare qualche amicizia nel campo avversario.

28 settembre
«Sua Eccellenza è fuori posto», mi dice l’usciere.
«Lo so, lo so».

[…]

10 ottobre
Ritrovo diversi appunti che scrissi anni fa su quell’uomo disgraziato e portentoso che fu Spezzafumo. Il suo cognome lo rispecchiava con fedeltà e ironia. Quando lo conobbi aveva già cinquant’anni, i capelli bianchi, gli occhi celesti venati di rosso e una continua barba di tre giorni. Ebbe sempre fame, camicie stracciate, calzoni rattoppati e le dita sporche d’inchiostro. Non portò mai il cappotto, e soffrì per tutta la vita un freddo cane.
Bugiardo, spaccone e sentimentale, viveva di piccole truffe. Indolente, si fingeva uomo d’azione; sapeva a memoria il Purgatorio e barava alle carte; bestemmiava, dormiva nei postriboli e andava a messa; anarchico, accompagnò Mussolini alla marcia su Roma. Quando non sapeva dove trovare un pezzo di pane, fuggiva a Gardone dal Comandante. Era stato compagno di scuola di D’Annunzio, diceva, e vendeva, dietro versamento di 100 lire, una fotografia del poeta soldato con firma autografa. D’Annunzio non lesinava al vecchio amico questi favori.
Il fascismo apparì in Emilia si può dire con Spezzafumo. Egli infatti fu uno dei suoi primi propagandisti. Molti uomini che divennero più tardi capi del regime si servirono di lui per aprirsi la strada. Correva da un paese all’altro a pronunciare discorsi, a presentare reduci che poi divennero gerarchi. Additava le loro medaglie come i venditori ambulanti mostrano la merce nelle fiere. I suoi discorsi erano brevi e chiari, le sue immagini colorite, le sue invettive penetranti. Alzava sempre tre dita e diceva: «Ecco i nostri punti: 1) Chi siamo e che cosa vogliamo; 2) Chi sono i nostri nemici; 3) Perché vinceremo». La sua voce era sonora, i suoi denti neri e radi. Quando lo fischiavano, sorrideva. Tutti si servirono di lui, da Mussolini ai gerarchi minori, ma nessuno lo sfamò. Spezzafumo era un bohémien; in una notte si mangiava quel che altri spendeva in un mese.
Tutti sapevano che Spezzafumo, prima o poi, chiedeva cinquanta lire, ma che si accontentava di dieci, di cinque, di tre lire. Per ingraziarsi gli amici diceva bugie, inventava storie straordinarie, giurava il falso e piangeva, perfino. Non era certamente un fior di galantuomo, ma il fascismo, che aiutava qualunque avventuriero, non lo sfamò, non gli dette nemmeno un pastrano. Spezzafumo non era austero, le sue bugie e i suoi progetti erano troppo pittoreschi per piacere al regime. Ecco alcune sue frasi:
«La giustizia è burocratica e la burocrazia si corrompe».
«Abbiamo sempre cercato di essere onesti, ma questa onestà non ci frutta nulla. Ci si ingrassa di onestà e si muore di fame».
«Si va in guerra perché restare a casa è da vigliacchi, e la vigliaccheria è più penosa della guerra. Io però sono un scarto di leva».
«Quando ero ragazzo dicevo: la mia patria è il mare, perché al mare. trascorrevo le vacanze».
«Gli uomini si valutano per i piaceri che negano in pubblico».
«Io sto al mondo per vedere come andrò a finire».
E finì stecchito dal freddo, alla stazione. Lo portarono all’ospedale ch’era già morto.

[…]

11 dicembre
Sono un carciofino sott’odio.

[…]

15 dicembre
Fanfare, bandiere, parate.
Uno stupido è uno stupido. Due stupidi sono due stupidi. Diecimila stupidi sono una forza storica.

16 dicembre
Alcuni bimbi poveri discorrono con altri bimbi ricchi.
Dice un bambino ricco: «La cicogna ha portato a nostra mamma un bel fratellino».
Dice un bambino povero: «Noi siamo poveri e nostra madre, invece, i bambini li fa in casa, da sola».

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Per vedere e ascoltare la lettura integrale: “Voci d’autore 2016” / Ivano Marescotti legge Leo Longanesi

Per approfondire: Trentatré domande a Leo Longanesi. Intervista realizzata da Enrico Roda per il quotidiano “Il Tempo” del 25 agosto 1955
 

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