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15 Maggio 2008 | Racconti d'autore

Parole d’artista

Di Concetto Pozzati, Corraini 2007

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri

15 maggio 2008

Il bolognese Giorgio Morandi è uno degli artisti più noti a livello internazionale. E’ interessante, allora, avvicinarci a questa icona del Novecento – le sue famose nature morte con le bottiglie – attraverso la conoscenza diretta che ne ha fatto un altro pittore, anche lui di Bologna: Concetto Pozzati. Il quale ha scritto un libro – “Parole d’artista” –  che raccoglie pagine di diario, incontri, giudizi, riflessioni su alcuni pittori incontrati nel corso di una vita (Pozzati oggi ha 72 anni).
Tra gli artisti più noti ricordati da Pozzati, ci sono, oltre a Morandi, Osvaldo Licini, Lucio Fontana, Piero Manzoni, Emilio Tadini, Mario Schifano, Mario Ceroli, Jannis Kounellis.
Interessante, nel brano che vi proponiamo, l’incontro di Morandi con il mitico sindaco comunista Giuseppe Dozza della Bologna del dopoguerra.

GIORGIO MORANDI

Teneva Morandi il labbro inferiore sporgente per scandire le parole e per arrotare l’esse dolce dialettale avendo scelto “l’aspetto di una pazienza infinita” (Raimondi) anche se non risparmiava nessuno. Dopo la mostra del Baglioni del ’14 non voleva più esporre a Bologna nelle collettive perché sottolineava: “Ho esposto in compagnia di Bacchelli, Vespignani, Licini e Severo Pozzati. La mostra è durata una sola notte e c’è mancato poco che prendessimo delle botte”.

Di Carrà diceva: “Andava bene fino al 1920 e poi più”; mio padre Mario lo appellava il “Milionario” perché si era buttato nell’affiche dove era l’indiscusso maestro insieme al grande Cappiello (pessimo pittore però), Cassandre e il fratello Severo (Sepo).

Morandi sotterrava legati da spago i pennelli usati, quei pennelli che erano stati carichi di bruni e di terre ritornavano alla terra: una di resti. Come con i resti dei colori grattati dai quadri non riusciti dipingeva” di prima” nuovi quadri attraverso poltiglie accumulate da resti.

Nessuna tavolozza avrebbe creato magicamente e alchemicamente tali impasti. D’altronde tutte le nature morte sono resti di povere cose che vengono da lontano, da una memoria quotidiana altra, ad eccezione dei paesaggi in quanto Morandi non possedeva il senso “aptico” cézanniano ma li guardava, li possedeva attraverso il cannocchiale per poterli avvicinare, comporre e metterli in posa come una natura morta, una natura che è morta (ecco dove Arcangeli aveva intuito l’inconscio informel se non l’ultimo naturalismo di Morandi).

 

Morandi quando venne a conoscenza che Giuseppe Raimondi aveva nel ’52 venduto le sue opere che gli erano state donate e che Raimondi negava di averle vendute, lo definì: “il Buggiardini detto il Menzogna”. Morandi era caustico nei confronti di tutti e al “povero” Raimondi non risparmiava più niente tanto è vero che quando uscì il suo libro “Giuseppe in Italia”, lo definì “Giuseppe nello… spazio” (erano i tempi dello Sputnik).

Aveva il terrore degli aerei perché galleggiavano rumorosamente nello spazio (“dal frastuono le tegole si sono mosse”) al contrario delle sue silenziose nature morte, appoggiate ben salde ad una linea-spessore “campo” viste con sguardo diagonale quasi dall’alto, pronte alla “fucilazione” attraverso “l’altro zero”.

C’è un paesaggio al Museo Morandi con una linea biancastra che spacca orizzontalmente il cielo grigio. Ci si chiedeva il perché di quella fenditura e Morandi rispondeva che “era passato un aereo e aveva lasciato una scia bianca… dissi a Brandi che sarei stato astrattista se fossi nato dopo”. Anche se indirettamente, per articolazioni di spazi, è stato maestro e suggeritore di tanti: da Ben Nicholsùn a Julius Bissier, da Burri a Soldati, da William Scott a Jean Fautrier sino a Romiti.

Era superstizioso, teneva in tasca un grosso chiodo di ferro di cavallo  con capocchia ricurva per paura d’incontri o di nefaste dicerie… “Non si sa mai” diceva.

Morandi ruppe con molti amici sodali, da Gnudi ad Arcangeli, da Raimondi a Licini, da mio padre a De Chirico, Carrà, Guidi che chiamava il “Maestro dei miei stivali” e che lo “scartò” al premio per la Biennale, ma tenne salda l’amicizia con Longhi, Brandi e il “docile” Vitali.

Era logico che i pittori bolognesi, che non l’amavano, quando entravano al caffè S. Pietro o a quello della Borsa, vedendo allineate bottiglie sopra al bancone del bar esclamavano ironicamente: “Questa è la Cappella Sistina di Morandi”.

Ho tra le mani il bel libro di Mandelli (scolaro prediletto di Morandi e Guidi) “Via delle belle Arti” che ho anche presentato alla G.A.M. di Bologna e Mandelli ricorda che un giovane giornalista che doveva fare un’intervista al Maestro bolognese chiese a Morandi “Professore Lei non è mai stato a donne?”, Morandi, ricorda Mandelli, si levò di scatto e irrigidito iniziò questo dialogo:

“Senta lei, quanto prende per scrivere l’articolo?

Duemila lire.

Lo sa quanto vale un mio quadro?

Sulle ottantamilalire.

Bene, le regalo un quadro purché non scriva niente su di me.”

Mi viene in mente un’altra intervista che mi è stata ripetutamente raccontata da Arcangeli: “Professore perché non si è mai sposato?

Senta Lei, Senta bene. C’è un pittore a Milano, dicono che sia un grande pittore che sta dipingendo e terminando un quadro, dicono che fosse, dicono, un capolavoro. Passa la moglie ed esclama: Carlo non fa ancora soffrire… e sa cosa ha fatto quel grande pittore?… ha cancellato il quadro… E lei si sposerebbe?”

Morandi chiedeva (checché se ne dica era informato su tutto!) se era vero che Moreni avesse dipinto “L’urlo del sole” e richiedeva “Ma il sole c’è veramente?”.

A proposito di Moreni in visita a Morandi sembra che il tagliente e provocatore Mattia consigliò Morandi che per vedere veramente un quadro di Rembrandt bisognasse mettersi di spalle all’opera, gambe divaricate e a testa in giù, per vedere e possedere l’opera.

Sembra che Morandi abbia acceso una sigaretta.

Morandi, dicevo, aveva battute alla soda caustica e quando gli si chiedeva chi c’era a Bologna rispondeva: “Incion”, nessuno. Ma possedeva anche un’ironia tagliente e per un’edizione speciale del ’47 di una rivista diretta da Brandi, Morandi incise appositamente una natura morta con oggetti e mostrandola all’amico Gnudi: “Hai visto? Sono tutti di latta così se a Brandi gli cadono, non si rompono”. Era una sferzante risposta al precedente articolo sul maestro bolognese dove Brandi dialogava con le bottiglie di Morandi che, stanche di essere ossessionatamente a:Ilineate e osservate, cadevano dal trespolo e si “rompevano il collo”.

A una importante mostra dell’Arte Italiana del Novecento alla Galleria La Loggiadi Bologna, negli anni ’50, allora in via Castiglione, diretta da Maria Pederzini e Bruno Nanni, che allineava opere dei maestri da De Chirico a Morandi, da Carrà a De Pisis, ecc… curata da Gnudi, Arcangeli, Cavalli, viene chiesto a Morandi di tenere una visita guidata al sindaco Dozza, il grande mitico amministratore di Bologna; Morandi doverosamente accetta ma solo se la visita fosse stata a porte chiuse.

Credo che mai occasione migliore per la “lingua” feroce di Morandi fosse più propizia.

La visita è lunga e ognuno la racconta a modo suo ma la sostanza la si può riassumere così. Morandi non aveva certo voglia di illustrare criticamente le opere anche perché sapeva che Dozza non si intendeva di arte e allora “sparò” aneddoti e “cattiverie”. La passeggiata inizia con dei De Chirico metafisici e surreali e Dozza silenzioso e “ignorante” non li capisce anche perché Morandi non lo aiuta certamente; infatti liquida il maestro metafisico con “questo è greco” e si passa a Savinio riqualificando con” è fratello del greco”. Dozza, ingenuamente, chiede a Morandi perché porta un altro cognome e Morandi risponde “sa, signor sindaco, i greci sono strani”. Si prosegue e davanti ai propri quadri Morandi chiede di non sostare e di proseguire verso le tele di De Pisis di fronte alle quali Morandi si tocca il lobo dell’orecchio ammiccando al sindaco la “diversità” dell’artista. Dozza da comunista dallo zoccolo duro è intransigente ed esclama “non sarà mica un ‘busone’?”. Idem con Rosai dove giocatori di carte avrebbero destato l’attenzione “popolaresca” del sindaco ma il dubbio che fosse anche il pittore toscano omosessuale fece sì che il sindaco soprassedesse al suo compiacimento. E avanti con Sironi (“era fascista! “), fino a due marine di Carrà. Al sindaco piacciono, sono meno concettuali di altre opere e chiede qualcosa a Morandi che ancora si lascia andare con “sembra che non sapesse nemmeno nuotare! “.

Finalmente il sindaco si muove da solo e su una parete adiacente alle marine c’è un grande ritratto di Carrà intitolato “Lo zio”; Dozza dice a Morandi che qui non ha bisogno di spieghe o di notizie perché il quadro lo capisce e gli piace molto. Morandi è disarmato, non vuole offendere il sindaco, si avvicina all’opera, alza gli occhiali sulla fronte, legge la targhetta col titolo e dice “Signor Sindaco che sia proprio lo zio?”.

Anche quella volta Morandi non è stato certo dolce con i suoi compagni di viaggio dimostrando che anche in Italia non c’era “Incion”, nessuno. Bologna paga ancora le sue acidità rivolte solo a “brave persone” e non certo direttamante a critici e collezionisti.

Sono a Roma, ripercorro via Condotti all’angolo di Bocca di Leone, salgo i gradini del 21, suono a Mara Coccia e… incontro un Morandi diverso, inconsueto.

Stanza bianca, molto disegnata, quasi neo classica ospitava prima il…”Classico”, il mio ciclo sulle origini dei resti, i resti intesi come totalità dell’oggetto e non come reperti. La stanza, dicevo, allinea i resti di un mitico “laboratorio” della solitudine.

Se il resto per me è un modello da rideizzare, le bottiglie, brocche, cuccume di Morandi sono modelli divenuti resti. Ma i resti non sono il tutto? Se il resto è la totalità, questi oggetti sono memorie di opere o sono opere loro stessi?

Morandi dipingeva “copiando” e da buon “accademico” componeva (creava?), sceglieva, allineava “maquettes” e scatole di oggetti su

mensole-tavoli accorciati e forse segati per “paura” della profondità se non della circolarità. Un cartone per piano fondale, carta pacco puntata sullo spessore del tavolo per ottenere un altro spazio verticale. Il tutto magico, non fisicizzato, composto geometricamente, già disegnato, già progettato. Natura morta quasi dada, secca, dura. Morandi afferra una “bottiglia”, risceglie un oggetto e ne “vernicia” direttamente metà, metà tondo, solo un pezzo, un lato, con un colore sabbioso (bianco), antico (rosa), atmosferico (celeste). Ricompone gli oggetti già dipinti, sceglie “l’alzo zero”, l’orizzonte, il punto di possesso, di vista e li ricopia inarrivabilmente… Era già arte la stessa composizione? L’arte, si sa è la nascosta interpretazione poetica dell’oggetto, l’arte è oltre l’oggetto, ma è anche riconferma e riproduzione della stessa produzione dell’oggetto.

Un oggetto spaesato, metafisico, fuori dal tempo. Sto bestemmiando? Il grande “professore” che timidamente incontravo appena uscito da un’antica cartoleria, estraeva due pugni dal cappotto lungo, quasi asimmetrico, li apriva e sulle grandi lunghe mani si presentavano mucchi di gomme per disegno, tante gomme bianche, rossastre: “oggi non cancellano più” mi diceva sconfortato. Il magico “vecchio”, lo so che mi “cancellerebbe” con uno sguardo socchiuso, fermo, quasi doppiato e moltiplicato per le lenti alzate sopra gli occhi, occhi appoggiati anche sulla fronte.

Se Morandi avesse solo prodotto le nature morte fermandosi alla fisica composizione iniziale, al solo teatro scatola, sono convinto che sarebbe stato ugualmente un artista, un vero artista.

Non credo che la metafisica operazione della Nevelson sia più o meno intensa della nascosta e privata operazione pre-pittorica del maestro bolognese.

Sono anni che dico questo non certo per diminuire i “secondi” capolavori, ma solo per dimostrare che il processo creativo inizia prima del quadro e che le composizioni reali, se spaesate dal laboratorio, non sono più brandelli serviti alle successive stupende interpretazioni. Sono resti autentici, già resti di opere. Non più feticci da guardare per immaginare l’odore del tempo, ma autentici pezzi da museo. In quella stanza forse poco francescana per Morandi, in quello studio ho ricapito la mia idea. Sulle pareti, esposte e presentate analitiche foto dello studio e degli oggetti di Morandi: un laboratorio privato da rigattiere, fitto di memorie, incrostato di tonalità. Un laboratorio appunto della solitudine, struggente come ruggine polverosa che lascia quasi intatto l’oggetto pur coprendolo totalmente, ma corrodendolo quel poco che basta per donarti malinconia e spessori di memorie…, foto che fissano, attraverso il proprio procedimento virtuale, la fisicità e “verità” dell’oggetto; … come un sogno, disposti in una bacheca di vetro gli oggetti reali, quelli veri, quelli ri-toccati da Morandi, ricomposi:i insieme e uguali al quadro del 1964, l‘ultimo prima di morire, esposto per la prima volta.

Forse è anche la prima volta nella intensa storia morandiana che si guarda prima il quadro e poi si ricompongono gli oggetti: ora è il quadro il modello da “copiare”.

Siamo come allo specchio: la presentazione e la rappresentazione sono insieme ed esposte. L’emozione è alta. La mia antica idea si è realizzata. Ho rivisto Morandi, ho capito il suo universale “microcosmo”, ho visto e posseduto la sua precarietà. Le sue ombre, la sua carnosità insecchita nella materia, la sua grande infelicità. Certo, sapevo di avere di fronte un Grande, ma gli oggetti non servono solo a far ricordare, a rimandare, ma sono contenitori di idee e di giudizio. Gli oggetti sono sì fantasmi, scheletri radiografati, ma, tolti dalla scena, diventano anche loro “opere d’arte”. Ritornato a Bologna, guardo quel rosso terragno, quella carta assorbente tonale ma bucata dalle ombre – occhi – bocche di portico, guardo le case come cose morandiane e forse riamo questa città così avara con gli artisti. lo non ho amato Morandi come uomo, ma ora possiedo i suoi oggetti e cammino con loro in cerca dei quadri.

 

Brano corrente

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