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12 Marzo 2015 | Racconti d'autore

Parva

Un testo di Bartolo Nigrisoli tratto dall’autobiografia omonima (a cura di Marco Veglia, Bologna, Bononia University Press, 2014)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

Bartolo Nigrisoli, chirurgo di eccezionale valore, nel 1931 fu l’unico docente universitario bolognese a rifiutare il giuramento di fedeltà al regime fascista, e per questo venne destituito. Ecco il suo racconto.

Qualche tempo dopo l’avvento del Fascismo i professori universitari furono chiamati a giurare di essere fedeli al Re e di non appartenere ad alcuna società segreta (intendasi alla massoneria).
Si sapeva che ciò che importava ai gerarchi del fascismo era il giuramento dirò così antimassonico, e non il giuramento pro Rege, che era messo lì più che altro per lustra.
Per me il giurare di non appartenere alla massoneria era cosa facile e piana, perché non vi appartenevo, né vi avevo mai appartenuto per quanto fossi nato e cresciuto in mezzo a massoni ed avessi molti amici fra essi.
Ma il giuramento di fedeltà al Re era cosa alquanto diversa non essendo io monarchico. Contro la Monarchia non avevo tuttavia mai fatto niente, e giuramento di fedeltà l’avevo già prestato altra volta, come ufficiale medico.  Fui pertanto alquanto esitante, ma poi mi parve di poter giurare anche questa volta e giurai, dopo di avere però chiesto parere a qualche amico, e fra gli altri al Silvagni, che mi esortò a giurare.
Pronunziai la formula del giuramento e la firmai davanti al Rettore (Professor Sfameni) ed al Preside (Professor Viola), ma mi parve di compiere un atto di umiliazione, quasi di viltà, ed uscii di là col fermo proposito di non fare mai più un sacrificio così grave contro la libertà del pensiero e la mia dignità personale.

***

Qualche tempo dopo l’uccisione di Matteotti venne in clinica da me un collega professore a mostrarmi, ed a chiedermi se firmassi il manifesto di Benedetto Croce contro il fascismo (il così detto manifesto degli intellettuali), ed io lo firmai, ma quando apparve sul «Corriere della Sera», la mia firma per molti fu una sorpresa, ed alcuni me ne fecero anche rimprovero.
Avrei firmato molto volentieri quello per il Professor Salvemini, perché più reciso, ma non mi fu mostrato.
Per quello di Croce io ero stato mentalmente un istante in forse, perché parevami troppo malvaceo e poco chiaro, ma per le gerarchie fasciste fu invece di significato chiarissimo, e nell’autunno 1944 un onesto funzionario della Questura politica mi consigliò di allontanarmi da casa mia e riparare altrove, – vecchio come sono – perché si era nei miei confronti tirato fuori, oltre il rifiuto al giuramento, e l’avversione costante al fascismo, anche il manifesto Croce del 1925 al quale si dava anzi l’importanza maggiore, ed «io correvo pericolo».

***

Nell’autunno del 1924 Sua Eccellenza l’Avvocato Aldo Oviglio, Ministro di Grazia e Giustizia, ritenendosi a me obbligato per l’assistenza prestata al suo povero figliuolo, e non conoscendomi bene, credé dimostrarmi la sua grande riconoscenza facendomi dal Duce nominare Senatore del Regno.
Una sera mi ero appena coricato, quando arrivò da me il compianto Monsignor Pallotti, amicissimo di Sua Eccellenza Oviglio, ed anche amico mio personale, prelato che aveva grande entratura nelle cose pubbliche, specie in quelle tra chiesa e fascismo.
Monsignor Pallotti arrivò da me tutto lieto di potermi annunziare che ero stato nominato Senatore del Regno assieme al Professor Giuseppe Albini, il grande latinista e mio caro amico, e che egli (Monsignore) aveva da Sua Eccellenza Oviglio e dal Prefetto di Bologna l’incarico di darmi comunicazione ufficiosa della nomina già avvenuta.
Sorpreso e ancora mezzo assonnito, io dissi subito: «Benissimo per il Professor  Albini, ma non per me che non ho i meriti, e che di Senato non voglio saperne in nessun modo».
E Monsignore: «Ma le nomine sono già fatte e comunicate ufficialmente al Prefetto».
Ed io: «La mia la disfacciano, io non ne voglio sapere per molte ragioni, prima perché non ne ho i meriti, poi perché ho idee diverse in tutto da quelle dominanti»: ed altro aggiunsi ancora a confermare il fermo mio rifiuto alla nomina.
Così la sera; poi la mattina, perché non dovesse mai sorgere qualche malinteso, scrissi a Monsignore una lettera durissima ribadendo le dichiarazioni serali, e accentuandole ancora quasi sgarbatamente; e così la mia nomina fu annullata.
Di questa lettera mandai copia ai miei amici, i Senatori Luigi Rava e Alessandro Lustig, nella speranza di trattenerli un po’ nella corsa verso il Fascismo.
Rava mi rispose: «questo si chiama voler proprio tagliare i ponti, e mi dispiace, anche perché speravo vederti alla testa dei Senatori emiliani, ora in mano dell’Onorevole Di Bagno».
Anche Lustig rispose dolente, e dicendo che avevo passato il segno.
Mi fu detto che in quell’occasione Mussolini domandasse al Signor Frignani, ravegnano, direttore del Banco di Napoli: «Ma perché tanta avversione del Nigrisoli»; a cui l’altro avrebbe risposto: «Per le idee che ha diverse da quelle del fascismo».

***

Nei 12 anni che fui Direttore di Clinica, non andai mai al Ministero, né altrove a domandare qualche cosa; una sola volta ebbi rapporto con un Ministro, che mi mandò apposta da Roma il suo Segretario particolare con lettera in cui mi chiedeva (quasi anzi mi ordinava) di cedere 20 letti della Clinica Chirurgica Generale al Docente di una Specialità. Risposi verbalmente con un «no» secco, dicendo che era mio dovere di non sminuire in alcun modo la Clinica affidatami, e di restituirla quale l’avevo ricevuta, integra; favorevole alla nuova Clinica Speciale, ma non dentro ad un’altra con dannoso servizio promiscuo. Pertanto se volevano 20 letti, cacciassero prima via me. E la cosa finì subito.
Il servizio della mia Clinica procedeva bene soprattutto per merito dei miei assistenti. Di essi gli aspiranti alla Docenza incontrarono tutti molta difficoltà nell’ammissione, ma poi all’esame riuscirono – nullo excepto [nessuno escluso] – splendidamente, ed il Presidente della Commissione mi scrisse congratulandosi della eccellente preparazione dei miei allievi.
Non domandai mai un soldo né alla Università, né al Ministero: ed allo stipendio (modesto) di uno, o due assistenti, all’acquisto di apparecchi, strumenti, eccetera, ed alle gratificazioni ad infermieri, eccetera, provvidi devolvendo a ciò la quota a me spettante per le operazioni sui paganti.

***

Così a un di presso continuavano le cose mie: nessun atto, né segno di adesione mia al fascismo e vita di puro ospedale e di scuola, quando (novembre-dicembre 1931) capitò il giuramento di fedeltà al fascismo, giuramento che in cuor mio ero già da tempo deciso di rifiutare. Del mio rifiuto non dissi con alcuno fuorché col Professor Gigi Jacchia, incontrato a Padova alla prolusione di Guido Guerrini; i miei fratelli e mio nipote intuivano tuttavia che non avrei giurato e che quindi sarei stato prossimamente deposto della cattedra.
Il Rettore Magnifico, Professor Alessandro Ghigi, fu sorpreso, e fors’anche un po’ irritato del mio rifiuto, ed insistette a lungo e replicatamente, ma invano, per indurmi a giurare.
Alle ripetute e pertinaci sue domande sui motivi del mio rifiuto risposi sempre soltanto questo: «Giuramento simile io non mi sento di farlo, e non lo faccio».
Non è quindi vero che io facessi dichiarazioni repubblicane; e per quanto il Rettore m’interpellasse anche su ciò, e per quanto io fossi repubblicano, di ciò non parlai mai in quell’occasione.
Un giorno il Rettore mi chiamò per comunicarmi una lettera, che un Professore di Torino gli aveva scritta. Il Professore scriveva, che Sua Eccellenza il Ministro dell’istruzione lo aveva personalmente assicurato, essere il giuramento una pura e semplice formalità, priva di qualsiasi valore, e che quindi il Rettore dicesse a me di firmare, come aveva firmato lui con animo tranquillo.
Risposi che avrei firmato io pure se, e quando Sua Eccellenza Ministro avesse messo in iscritto ciò che aveva detto a voce al professore di Torino.
All’ultimo mio colloquio col Rettore, sempre con me gentilissimo, fu presente anche Vittorio Putti, il quale mi accompagnò dolente sino all’uscita dicendo: sic fata trahunt [“così vuole il destino”].
Essendosi sparsa voce del mio rifiuto al giuramento e della conseguente mia rimozione dalla cattedra, gli studenti, numerosissimi, mi fecero al mio entrare nell’aula delle lezioni una grande dimostrazione di affetto: che io troncai subito invitandoli recisamente a smettere senz’altro, se no me ne sarei andato io all’istante e per sempre. E fui esaudito.
E per premio di questo mio contegno si vide nei giorni seguenti gironzolare per i corridoi della clinica chirurgica una squadretta di giovani armati di bastone guidati da un professore e si diceva girassero per me.
Con lettera ministeriale del 15 dicembre 1931 io fui dimesso dalla cattedra «per essermi col rifiuto del giuramento messo in condizione di incompatibilità con le direttive politiche generali del governo».
Da quel momento fui sorvegliato da carabinieri e da questurini e fu detto che ciò era a mia difesa e può darsi fosse vero; certo è che tutti gli agenti dell’ordine pubblico furono con me sempre molto gentili, cosa di cui debbo loro essere grato.
Ma l’essere deposto dalla cattedra tre anni prima della scadenza normale fu per me cosa buona ed utile, perché mi tolse di dosso una grave fatica, qual è quella dell’insegnamento, quando è impartito con coscienza, e pertanto io fui e sono grato al fascismo… di avermi destituito.

[…]

Il concetto morale del carattere e della dignità umana, che mi aveva aperta la strada alla cattedra, fu lo stesso che mi fece destituire, essendo sotto il fascismo il bene morale diventato un male.
Finisco ripetendo ancora una volta, che il merito del buon andamento della Clinica fu in gran parte dovuto ai miei assistenti: ad essi ed a tutti i discepoli miei vadano ringraziamenti vivissimi ed il più fervido mio saluto.

Brano corrente

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