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24 Luglio 2014 | Racconti d'autore

Sul pedale

Racconto di Alfredo Oriani tratto dal libro “La bicicletta” (a cura di Ennio Dirani, Ravenna, Longo Editore, 2002) – prima puntata.

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri.

Alla fine di luglio del 1897, lo scrittore romagnolo Alfredo Oriani partiva per un viaggio di due settimane in bicicletta, tra la Via Emilia e gli Appennini. Inventando il cicloturismo culturale.

Faenza, domenica 30 luglio, 1897

Ho dovuto partir solo.
Insino a mezzogiorno avevo sperato che Orlandi, il mio giovane amico tornato l’altro ieri dalla battaglia di Domokòs, mi avrebbe accompagnato; egli lo desiderava anche più di me, ma secondo il solito questo desiderio tutto pieno di poesia non ha potuto realizzarsi.
Nell’ombra della seconda sala, che il caffettiere dell’Orfeo mantiene fresca per i pochi avventori del meriggio, alcuni vedendomi in maglia e gambe nude mi hanno salutato con mordaci ironie: me lo immaginavo, non pertanto qualche cosa ha sussultato in fondo al mio spirito. Sono partito. Le vie della città erano deserte, deserto il lungo e triste borgo che si stende oltre il ponte; nelle molte bettole si beveva già in maniche di camicia, bianca, poiché era domenica e festa di non so quale Madonna.
La via Emilia mi è apparsa dinnanzi larga dritta bianca polverosa: il sole vi cadeva acciecante, non una bava di vento: silenzio nei campi tutti coperti di sole, giacché le ombre stavano ancora rannicchiate sotto gli alberi. Per la strada, lungo i margini, veniva qualche figura lontana.
Tiro su i calzoni a mezza coscia perché le loro pieghe non strofinino noiosamente la valigia, che riempie il telaio della bicicletta, salto in sella e dò il primo colpo di pedale: andrò per Forlì e Santa Sofia, valicherò la doppia giogaia dell’Appennino al Carnaio e a Mandriole, salirò ai conventi della Verna e di Camaldoli, e poi da Poppi a Siena, da Siena a Pisa, da Pisa alla Collina, dalla Collina a Bologna e da Bologna a Faenza. Coprirò così un migliaio di chilometri in dieci o dodici giorni, viaggiando sempre come adesso sotto il sole, in maglia, colle gambe nude e il piccolo berretto rigettato sulla nuca perché i raggi mi battano bene sulla fronte e ne caccino l’ombra fredda, che vi si appiatta dentro da tanti mesi. È il primo viaggio vero della mia vita, intrapreso così senz’altro scopo che di viaggiare.
Quante volte ne avevo sognato da giovane!
Allora l’orgoglio mi bruciava negli occhi neri come una fiamma di faro e, alzando la testa dinnanzi all’ignoto dell’avvenire, mi sentivo passare sul volto i brividi delle lontane tempeste. Adesso non è più così; l’orgoglio sta ancora dritto, ma quella speranza di vittoria, che inebbriava le sue mute e teatrali provocazioni, è caduta.
Uno sparviero e una colomba entrambi feriti: l’uno vigile ancora, cogli artigli stretti sopra un ultimo ramo senza foglie; l’altra appiattata fra le erbe scure, intorno al tronco fulminato della quercia.
Ecco una rondine: mi striscia dinnanzi sulla strada così rasente alla polvere che si direbbe vi cerchi qualche cosa.

[…]

Adesso i contrafforti si spezzano e si ammonticchiano. La strada sale e scende, si attorciglia, si raccorcia in spirali, che mi fanno riconoscere l’errore di non aver voluto diminuire la mia moltiplica di 2,30. Non importa, aggancio l’anello della cinta mandatami dal giornale “la Bicicletta” per le salite e, premendo più vigorosamente sui pedali, trionfo.
La valle aumenta di bellezza, ma nei ponti, nelle case coloniche e nella cultura serba ancora il carattere romagnolo: ascolto correndo le parole, che mi suonano sempre all’orecchio colla medesima asprezza dialettale. Ecco Cusercole, più bello e più piccolo di Meldola; un castello diroccato dei marchesi di Bagno, discendenti, credo, dei conti Guidi, lo minaccia ancora dall’alto sebbene mutato in palazzo: dev’esservi lassù qualche pittura e qualche mobile prezioso, almeno così mi dissero a Meldola, ma ho giurato di non accattare impressioni artistiche, e non salirò quella breve ed aspra vetta. Invece sboccando dalla curva del ponte m’imbatto in una lunga e folta processione, che vi discende; la banda del paese suona un valzer, le donne a dieci o dodici per fila ciarlano riempiendo tutta la strada; e più lontano, in alto, scintilla dentro l’oro di una grande cornice il vetro della immagine santa.
M’appiedo e saluto: poi taglio colla bicicletta la processione, e le donne sorridono come fanciulli a scuola di questa distrazione nella solennità del rito religioso. È festa nel paese: dinnanzi a due bettole quasi contigue i giovani più miscredenti irridono alla processione cercando con gesti ironici i propri amici fra i bandisti.
Vi è qualcuno che creda o preghi in quella processione?
Mi sono appena fatto questa domanda che ad una finestra quasi invisibile, nell’angolo rientrante di una casa dipinta di rosso, scorgo una figura di malato coi gomiti sul davanzale e le mani in croce. È un vecchio giallo, calvo: non gli si vede che la camicia al collo, giacché è forse sceso di letto udendo passare la processione, ma il suo volto la segue con una così potente invocazione che alcuni alzano come me gli occhi a guardarlo, e sorridono. Rivedrà ancora la processione quel vecchio ammalato, che nello spasimo della paura domanda a quella Madonna, chissà come dipinta, il miracolo di qualche altro anno di vita? La Madonna è già scomparsa, mentre egli resta inginocchiato nella stessa posa, col volto teso, senza che nessuno lo guardi più.
Hanno irriso alla viltà del suo dolore, e basta: la gente non avrebbe altro da offrirgli.

Debbo salire a Civitella. La valle si restringe, il letto del fiume diventa più sassoso, mentre la corrente dell’acqua s’interrompe a pozze talvolta di un verde translucido: spesseggiano i ponti, il sole comincia a declinare, e si leva un tenue scirocco. Adesso mi pare di essere in viaggio da molti giorni: ho dimenticato Faenza, la stizza di dover partir solo, non sento più la stanchezza delle salite. La cinta è stata davvero una buona invenzione; così legato sulla sella precipito furiosamente per le discese o striscio quasi volando su per le erte ripide e brevi, dinnanzi alle quali avrei dovuto appiedarmi. Nella piazza di Civitella trovo un gruppo di ciclisti: beviamo insieme qualche bicchier d’acqua imbiancata da poche goccie di anice, e in sella. La mia moltiplica di 2,30 mi assicura un vantaggio, ma non ne abuso per prudenza perché sono tutti giovani e potrebbero con uno sforzo vigoroso distanziarmi, lasciandomi solo. Sciaguratamente a Galeata il direttore delle scuole elementari, riconoscendomi, non resiste al piacere di denunciarmi, e subito il gruppo si muta in corteo; non sono più il viaggiatore ma il personaggio: alcune bottiglie di Sangiovese vecchio bevuto sulla piazza mutano quel riconoscimento in uno spettacolo, fanciulle e donne si assiepano cosicché dobbiamo attraversare tutto il paesello a piedi.
L’Appennino, che dovrò salire domani, sbarra l’orizzonte sembrando anche più alto, in un colore fumido e violetto: la valle è finita dentro a un canale formato dai due contrafforti, attraverso il quale il fiume cessò di correre poiché il sollione gli bevve tutte le acque; anche la strada si restringe, mentre nel silenzio della sera così diverso da quello del meriggio si distende la malinconia delle grandi ombre.
Molti contadini ritornano da Santa Sofia, un’eco di tromba ci colpisce.
– La banda municipale! dice trionfalmente il mio vicino: è la migliore della vallata.
Mi rassegno anticipatamente a questa sua eccellenza ed allungo il trotto per la strada, che discende.
Luccicano i fanali, una musica monta di laggiù insino a noi come un saluto: la gente stipa l’angusta piazza, dalla quale si ascende il ponte, che divide in due il paese. La miglior locanda è dall’altra parte, abbastanza lungi dalla banda.
Avevo fame, mangiai moltissimo, e male.

[…]

Salirò sino alla punta del Carnaio colla bicicletta a mano: come ciclista è quasi una confessione di sconfitta, eppure la vittoria che cosa mi otterrebbe? Le cime più lontane dell’Appennino paiono avvolte in un vapore purpureo, che le tagliate dei faggi macchiano di un rosso vivo; il sole già alto illumina senz’ancora riscaldare. Come si respira bene quassù! Chi passa per questa magnifica strada dacché la ferrovia attira altrove merci e viaggiatori? I contadini, che mi guardano dai campi, non sembrano abituati a vedere molte figure come la mia con una bicicletta a mano, e non si rendono forse conto del nostro girare in tal modo, mentre sarebbe tanto comodo salire in treno. Non ho mai trovato un montanaro, che comprenda in altri la passione del monte; ci giudicano degli stravaganti, costretti dalla noia del troppo lungo ozio a cercare un piacere nella fatica di viaggiare così. Il montanaro malcontento di essere povero non s’accorge d’amare i propri monti che dopo averli abbandonati per servire nelle città; allora la sua prima miseria, così libera nella solitudine alpestre, gli riappare dentro un incanto di poesia, tristamente. Ne ho conosciuti molti di questi sperduti per le strade della città, e mi hanno sempre fatto pensare a quelle mosche, cui i fanciulli con ingenua crudeltà strappano ambo le ali per costringerle a dover soltanto camminare.

[continua]

Brano corrente

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