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6 Novembre 2008 | Racconti d'autore

Pelè facci sognare

di Vittorio Ferorelli, pubblicato in M.A.R.E., Regione Emilia-Romagna, 2008.

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

6 novembre 2008

Si chiama M.A.R.E., cioè Movimento, Arte, Racconto, Espressione, il premio di narrativa che l’assessorato al turismo della Regione Emilia-Romagna ha istituito per stimolare la fantasia di tutti coloro che sono innamorati del mare. Come scriveva Cristoforo Colombo nel 1492, “La lingua non è sufficiente a dire e la mano a scrivere tutte le meraviglie del mare”.

Vi leggiamo uno dei racconti finalisti, Pelè facci sognare di Vittorio Ferorelli.
 
Pelè facci sognare

Ero sicuro che mi sarei annoiato.
Tutto il viaggio era passato tra una predica telefonica di mio padre, una discussione con mia madre, e i silenzi trascendentali di mio fratello.
Cosa avevo fatto di male nelle vite passate per avere due geni­tori e doverli affrontare a turno, una domenica sì, una dome­nica no?
La strada per il mare sembrava un lungo fiume nero, pieno di canoe. E le canoe erano fitte di gente. Grandi. Bambini. Grandi e bambini. Cani e biciclette. Tutti insieme appassionatamente.

La mia prof di italiano diceva sempre così. Chissà che cavolo voleva dire? “Che nervi!” – mi dicevo – “Scommetto che quan­do arriviamo è già ora di pranzo…”.
La mia unica speranza per sopravvivere alla traversata era il CD.
“Per carità, Thomas!” – aveva detto la mamma – “Non crederai di mettere su quella roba nella mia macchina! Va a finire che a tuo fratello gli viene mal di stomaco”. E si era fatta una delle sue risatine. La tipica risata di un cerco­piteco in via d’estinzione.
“Quella roba”, ragazzi, erano i Clash.
Che poi, almeno per un fatto di età, anche la mamma avrebbe dovuto farci la bava per London Calling. Macché! Lei era solo per Baglioni ed Elton John. Al massimo, ma solo quando era in vena di esperimenti psichedelici, si sparava un’overdose di Biagio Antonacci.

Il pallone me l’ero ricordato io, all’ultimo momento. Se aspet­tavo il mio fratellino stavo fresco.Non è che non ci intendessimo, noi due. Eravamo solo divisi dall’età. E dal carattere.
Lui, con la sfumatura alta sulla nuca e la pettinata alla Big Jim, aveva appena finito la terza media e già sapeva che facoltà avrebbe scelto. Io, che aspiravo da tempo alla cresta da mohi­cano, ero al liceo da quattro anni e non avevo ancora capito bene come si arriva a metà giugno senza debiti. Ci rispettavamo, questo sì. Ma un po’ a distanza. Come due campioni di wrestling prima di un incontro.

Con la palla non ce la cavavamo male, nessuno dei due. A me piaceva fare il “centravanti di sfondamento”, mio padre diceva così quando ero piccolo.
Forse perché, più che a calcio, mi sarebbe piaciuto giocare a rugby. Non lo so, doveva essere una questione di ormoni. Da qualche parte dovevo pure sfogarli, e vista la carestia cronica di femmine, io quegli ormoni li sfogavo volentieri sugli attaccanti avversari.
Federico, invece, era più bravo a stare in porta. Così attento, così scrupoloso, era uno di quei portieri che non si fanno mai sorprendere fuori dai pali.
Tredici anni per uno e settantasette di altezza. Tutto d’un pezzo.
Se io fossi stato suo padre, e se lui non fosse stato così secchio­ne, lo avrei già fatto studiare da professionista.

Nonostante tutto, arrivammo al mare che non erano ancora le dieci. La sabbia non scottava ancora, ma il sole di Riccione era già alto. Mentre mia madre, con l’aria più indifferente del mondo, si ungeva di olio di cocco ogni centimetro quadrato di pelle, io e Fede ci mettemmo a palleggiare senza impegno.
Nel frattempo, tra un tiretto e una parata, ci dedicavamo alla ricognizione del campo, in cerca di avversari e di alleati degni di noi.
Mezz’ora dopo, nella terra di nessuno che separava le cabine dagli ombrelloni, eravamo cinque contro cinque.

Le due squadre si erano formate quasi da sole, una di quelle simpatie e antipatie reciproche, di pelle, che tra ragazzi scop­piano improvvise, anche più che tra i grandi. Avete presente come funziona uno scanner? Era bastato guar­darsi l’un l’altro. In una frazione di nanosecondo ognuno aveva valutato il modo di parlare dell’altro, la luce e le ombre degli occhi, le forme dei corpi, la qualità dei costumi da bagno, la quantità dei peli sulle gambe.
E li aveva confrontati con i propri: “scansione completata”. Al mio fianco c’erano Ares e Antares, due gemelli quindicenni di Lugo.
Stessi capelli rossi, stesse lentiggini, stessa statura, piuttosto ri­dotta. Stessa “cadénza” romagnola. Neanche i nomi aiutavano a distinguerli. Sarebbe stata davvero dura capire chi fosse l’uno e chi l’altro, se il dio dei gemelli non avesse rimediato facendo Ares ovale e logorroico, e Antares secco e tendente al muti­smo.

Dietro di noi, a vigilare sulla porta difesa da Federico, un lun­gagnone che rispondeva al nome di Ermanno. Veniva da Bergamo, aveva tredici anni ma sul petto già gli spic­cava una foresta nera. Sarebbe stato un difensore perfetto, se non avesse portato gli occhiali da miope e se non fosse stato così schifosamente buono.
Di fronte a noi una squadra ufficiale, nel senso che i compo­nenti già si conoscevano tra loro.

I “rampolli”, così li avremmo battezzati, a cose fatte, io e Federico.
Erano cinque figli unici tra i quattordici e i diciassette anni, tutti di Milano e dintorni, e ogni cosa, da quello che indossa­vano sulla pelle a quello che dicevano, persino il modo in cui si muovevano, tradiva la loro origine fighetta. Non si erano neanche degnati di dirci il loro nome quando, quasi controvoglia, avevano accettato il nostro invito a giocare. Sembrava che ci facessero un favore a lasciare le sdraio. “Noblesse oblige” mi aveva sussurrato Fede nell’orecchio. Allora non avevo capito quelle parole (e anche ora, per metter­le giù, ho dovuto chiedere il suo aiuto) ma il senso era chiaris­simo: questi qui hanno proprio visto un bel mondo.

Mezz’ora dopo, l’umore dei rampolli era parecchio cambiato. Vincevano di brutto e cominciavano a prenderci gusto. Io e Antares ce la mettevamo tutta per superare la metà campo e avanzare verso la rete. Ci intendevamo abbastanza bene e qual­che bella azione veniva anche fuori. Ma il nostro punto debole erano Ares ed Ermanno. Al primo dribbling, il gemello bombato ansimava come un bul­ldog costretto a correre la maratona, e come se non bastasse, tutte le volte che era senza pallone, invece di riprendere fiato si perdeva in chiacchiere con Ermanno o con uno dei nostri avversari, e a volte anche da solo. “Bisogna aver pazienza” – sembrava dire Ares con gli occhi bassi – “mio fratello parla anche per me”.

Ermanno, poi, invece di contrastare gli attacchi dei fighet­ti scatenati, sembrava quasi lasciarli passare, con la faccia di un bergamasco rassegnato e ipovedente che diceva: “Allora? Se proprio vogliono vincere, chi sono io per impedirglielo?”. Senza difesa, Fede faceva il possibile, ma i miracoli del mio fratello-prodigio non bastavano: i longobardi erano tosti e non facevano complimenti, soprattutto da quando un gruppetto di sgallettate si era messo a guardare la nostra partita.
Da quel momento la cosa si era fatta seria, e i nostri avversari non vedevano l’ora di chiudere la pratica per aprirne un’altra, molto più piacevole, senza più sabbia e sudore attaccati sulla pelle.

Perdevamo già 8 a 4 e mancavano solo due gol alla nostra umiliazione, quando un fallaccio del capitano milanese mise fuori gioco Antares.
Udimmo per la prima volta distintamente la sua voce, e vi pos­so assicurare che non dovette essere un bel sentire per le orec­chie del nostro Signore.
Scambiai uno sguardo sfiduciato con Fede. Eravamo ormai rassegnati al disonore della resa, e i rampolli – ci avrei scom­messo una paglia – già pregustavano il piacere di un bagno refrigerante in compagnia della preda, come dei veri calciatori con le loro meritate veline.

Fu proprio in quel momento che mi accorsi di lui.
Doveva essersi fermato da poco a guardarci giocare, perché aveva ancora sulle spalle il suo carico di vestiti, fazzoletti, cap­pellini, occhiali, anelli e collanine. Sorrideva divertito, con tutti quei dentoni bianchi, come un bambino che guarda il circo. Fu proprio quel sorriso a togliermi ogni timidezza. “Ti va di giocare con noi?”
Rispose semplicemente di sì con la testa e si tolse di dosso tutto quell’ambaradàn.
I rampolli non la presero affatto bene: protestarono che ave­vano già vinto, che così non valeva, che faceva troppo caldo e altre balle del genere.
Fecero anche la mossa di andarsene, ma quando dissi che ave­vano paura di perdere, si guardarono in faccia, sorrisero alle sgallettate, fecero dietro-front e rimisero la palla al centro. Adesso sì che erano davvero gasati. Il gioco si faceva duro, ma io mi sentivo stranamente tranquil­lo: adesso avevamo il nostro fuoriclasse africano.
Amadou veniva dal Senegal, aveva 19 anni ed era in Italia da sei mesi.

Non sapemmo molto altro di lui, parlava ancora poco l’italiano e non ci fu molto tempo per approfondire la nostra conoscenza. Ma una cosa la scoprimmo in fretta: con il pallone tra i piedi ci sapeva fare.
Non aveva un fisico da paura ma si muoveva con leggerezza e velocità, come se, libero da quel peso da portare in giro tutto il giorno, il suo corpo potesse finalmente volare. “Vai Pelé, facci sognare” gridava Ares. E il nostro Pelé, gol dopo gol, trasfor­mava davvero la nostra partita in un sogno e quella dei milanesi in un incubo.

Lui si mangiava con eleganza un rampollo dietro l’altro, io andavo avanti come un ariete fino alla porta avversaria. Qui, pulita pulita, mi arrivava tra i piedi la palla, dovevo solo spararla tra il portiere e la ciabatta che faceva da palo. Sull’8 a 8 le sgallettate ci mollarono in tronco: volevano abban­donare il Titanic prima che affondasse.

Peggio per loro, si sarebbero perse un numero di magia che ci fece ritornare in mente un leggendario assolo del Pibe de Oro.
Nell’ultima azione, quella che ci diede la vittoria, Amadou fece tutto da sé: parti da centrocampo, scartò uno alla volta i tre armadi che si trovò davanti, evitò con un salto la sforbiciata dell’ultimo difensore, e dopo un’ultima finta, con il piatto del piede, fece passare la palla tra le gambe del portiere, morbida come un peluche.

I fighetti, bisogna dirlo, accettarono la sconfitta con una certa dignità. Vollero offrirci a tutti i costi un gelato. Quando ci riunimmo sotto i loro ombrelloni, ognuno con il proprio cono mezzo sciolto, su tutti noi calò un silenzio imba­razzato. I genitori dei rampolli erano tutti e sei lì, spaparanzati sui loro lettini, gli uomini a leggere i giornali, le donne in grup­po a fare chiacchiere. Alla loro presenza ci sentimmo improv­visamente goffi: non eravamo più i vincitori e i vinti, gli eroi di una battaglia che aveva fatto feriti nel corpo e nello spirito, ma che ci aveva fatto sentire tutti più importanti, almeno per un momento.

Eravamo ritornati dei comuni mortali, i soliti insi­gnificanti ragazzi in attesa di diventare grandi. Questo almeno è quello che sentivo io mentre finivo il mio gela­to, circondato dal silenzio indifferente di quegli adulti.
Un silenzio che fu rotto solo dall’arrivo di Amadou, che nel frattempo aveva recuperato la sua mercanzia e ripreso il suo giro. “Non abbiamo bisogno di nulla, grazie” fece uno degli uomini, senza neanche alzare gli occhi dal suo giornale sportivo. Era il più vecchio del gruppo, e la sua pancia diceva chiaro che, se mai un giorno aveva giocato a pallone, doveva averlo fatto giusto ai tempi di Rivera.

Il sorriso del nostro Pelé non perse un grammo della sua bian­chezza. Ci riprovò con il gruppetto delle signore, che eviden­temente non aspettavano altro per mettere fine ai loro discor­si sulle malattie dei parenti e gli ultimi fatti di cronaca nera. Piantato nella sabbia il suo negozio ambulante, Amadou tirava fuori uno a uno i suoi pezzi forti e sfoggiava le sue migliori tecniche di vendita, dandoci ancora una volta, senza volerlo, una lezione di stile.
Quando ogni principessa della Brianza ebbe scelto il suo ricor­do di quella giornata al mare, e venne il momento di pagare, l’uomo col giornale sportivo fu il primo a intervenire. Portafoglio in mano, aveva la faccia di uno che “a me nessuno mi fa fesso”.
Saputo il prezzo, lo ridusse di dieci volte e poi concluse in modo lapidario: “Prendere o lasciare”.

Avevo assistito altre volte a scene come quella, e ogni volta c’era qualcosa che mi suonava male. La contrattazione, diceva mio padre, è una cosa normale per gli ambulanti, fa parte del gioco, se non fai così quasi quasi ci rimangono male. Ma Amadou non l’aveva presa bene.
Forse perché intorno c’eravamo noi, e lui ora, di fronte ai no­stri occhi, aveva una dignità da difendere.
O forse perché quel modo di fare, ancora più della richiesta spudorata di un prezzo troppo basso, lo aveva offeso. Chissà quante altre volte aveva dovuto inghiottire in silenzio e stare al gioco. Ma quella volta no. Disse semplicemente: “Grazie lo stesso” e si riprese tutti gli oggetti: una collana, una cavigliera e un anello.
Poi, voltandosi verso di me, me li porse e disse: “Noi vinto bene. Tu non pagare”.

Raccolse le sue cose e se ne andò, lasciando tutti senza parole. Anche io non sapevo cosa dire. Guardai per un attimo Federico, poi mi alzai e corsi dietro ad Amadou, che andava verso il mare. Volevo restituirgli tutto. Ma lui niente, non ne voleva sapere. “Non so a chi darli!” escla­mai alla fine.
“Pas problème! Fai regalo alla tua donna!” fu la sua risposta. Mi sorrise per l’ultima volta e continuò lungo la spiaggia. Restai li come un cretino.
Come facevo a dirgli che io una donna non ce l’avevo?

Brano corrente

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