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7 Febbraio 2013 | Racconti d'autore

Però un paese ci vuole

Di Giovanna Grignaffini, La Lepre Edizioni, 2012 (prima puntata)

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

7 febbraio 2013

Il romanzo di esordio di Giovanna Grignaffini, nata a Fontanellato nel 1949, già docente di Storia e Teoria del Cinema presso il DAMS di Bologna e membro della Camera dei Deputati dal 1994 al 2006, ha come sottotitolo “storia di nebbie e contentezza”: la nebbia degli inverni di Fontanellato, paesino nella Bassa parmense noto per la Rocca Sanvitale affrescata dal Parmigianino, ma anche la nebbia dei ricordi riportati alla memoria da Francesca, la protagonista.

Francesca ha lasciato il suo paese alla fine degli anni Sessanta, appena ventenne, per andare a studiare a Bologna, e ci ritorna dopo vent’anni per fare i conti con la sua giovinezza e con gli amici di quel tempo. Il suo è dunque un viaggio a ritroso nei decenni, accompagnato dalla colonna sonora dell’epoca che ha scandito la sua adolescenza, le canzoni dei Beatles, dei Nomadi, di Caterina Caselli, dei Kinks. Se in quegli anni di lotte studentesche e di ideologie, c’era la voglia di andarsene da un piccolo paese che non dava prospettive, «però un paese ci vuole» dice uno dei protagonisti. Francesca dunque torna alla ricerca delle sue radici, e anche per far luce su un mistero che lasciamo scoprire al lettore. La domanda, alla fine, è sempre la stessa: da quel paese, da ogni paese, bisogna andarsene? E poi tornare – oppure no?

“Fontanellato è un ridente paesino annegato nella Bassa parmense.”Avevo scritto proprio così in un tema di seconda media. E la nota a margine redatta in rosso dalla mia insegnante di lettere sottolineava quel felice ossimoro tra ridente e annegato. In quegli anni non avrei saputo dire nulla di certo a proposito della felicità, ma quanto all’ossimoro sì, qualcosa potevo dire: era stato del tutto involontario.

Fu comunque così che cominciai a familiarizzare con le virtù, per me terapeutiche, di quella figura retorica.
Vennero poi più meditate immagini e descrizioni di Fontanellato. Un’improvvisa escrescenza del terreno tra la via Emilia e il Po. Terra di acque, argilla, fossati e resurgive: Fontana lata. Una sequenza compatta e circolare di case, mattoni e facce che si assomigliano. Una variazione di intensità dell’aria che si lascia accecare dal riverbero del verde e del marrone della terra. O semplici referti delle sue stagioni: caldo-afoso in estate, freddo-umido in inverno. Ma nel ricordo aveva poi cominciato a prendere forma un’immagine che si era infine imposta e trasformata nel pensiero dominante.
Trecento giornate all’anno che sempre nascono e muoiono nel grigio.

In quello stesso tema tuttavia, oltre che “ridente” avevo di­chiarato Fontanellato “inabbandonabile” in ragione di molteplici sue qualità riconosciute: abitanti cordiali, porticati accoglienti, castello maestoso, viali ombrosi e piazzetta ciarliera.

In realtà lo avevo abbandonato a vent’anni. Per necessità, più che per scelta. Per normale sviluppo degli eventi, più che per disperazione. Sul camioncino che mi portava fuori dal paese insieme a una cucina Salvarani, avevo pianto. Qualche anno dopo mi ricordavo solo del grigio.

Normale sviluppo degli eventi, più che ingratitudine.

Per arrivare a Fontanellato, abbandonata l’autostrada del sole all’altezza di Parma, bisognava immettersi sull’antica via Emi­lia in direzione di Milano e svoltare dopo ponte Taro, verso Busseto e altre terre verdiane. Poi si poteva filare tra i campi di pomodori, di grano e barbabietole, rallentare lungo frazioni e campanili, derapare ai tre curvoni della morte, stringersi lungo le strettoie di fiumi e canali, fermarsi e imprecare ai due passaggi a livello della linea ferroviaria Milano-Bologna, eternamente chiusi. Poi si poteva riprendere velocità tra fattorie e confini di podere fino al viale di Fontevivo. Che era già un po’ come essere arrivati sul viale di Fontanellato. Perché dopo Fontevivo quello che ancora ci divideva dal nostro paese e dal resto del mondo era una strada che nessuno conosceva: i forestieri non la sanno, è sempre deserta. Era una tortuosa, sconnessa e sempre polverosa strada bianca. La solita strada, bianca come il sale. Il grano da crescere, i campi da arare. Come aveva cantato Luigi Tenco, al Festival, la sera prima di ammazzarsi in una stanza d’albergo, a Sanremo.

Di strada bianca e solita, e di grano, non c’era neppure l’ombra in quel pomeriggio liquefatto dall’afa e stupefatto dal lavo­rio del tempo, del catrame e del cemento. Non avevo dovuto né rallentare né accelerare mai: andamento turistico uniforme, una prova di regolarità scandita da geometrie basse e signorili, capannoni, insegne e scritte di tutti i tipi. Odore di erba secca e cemento.

Aspettavo il curvone della Ghiara che subito dopo il ponte dell’autostrada mi avrebbe portato a sfiorare il cartello blu con la scritta bianca Fontanellato. Continuavano invece a scorrere altre scritte, insegne, capannoni.

Aspettavo di vedere in lontananza, silenzioso e remoto, il cimi­tero; e me lo trovai invece improvvisamente di fianco soffocato da villini floreali, negozi e balconcini, tanto ordine e altre gioiosità austro-ungariche.

Era sbarrato e cadente il cinema dei preti: quello dei western, dei musical, di Totò e Marcellino tutti i sabati e le domeni­che; tutti i giorni, invece, melodrammi e commedie al Cinema Fulgor, quello che stava in centro, proprio dietro la piazza. Il tempo di riconoscere l’edificio della Casa del Fanciullo e stupirmi di due nuovi caffè. Il tempo di registrare la permanenza incombente e ampliata del santuario della Madonna della Be­ata Vergine del Rosario… Ed eccolo finalmente davanti a me: il viale di platani e ippocastani che cingeva la parte vecchia del paese. E sul viale non c’erano dubbi: era proprio ombroso come avevo scritto e come avevo continuato a ricordare.

Rallentai. Ancora incerta se parcheggiare lì o tentare di arrivare direttamente in piazza. Si poteva passare. Ma ero sicura di voler passare? Il problema più importante infatti era riuscire a ignorare più d’una delle curiosità che scivolavano lungo la fiancata della mia macchina. E che si facevano sempre più insistenti. Mi fermai proprio di fronte al voltone, unica struttura superstite delle antiche mura, attraverso cui si accedeva al cuore antico del paese. E cominciai a prendere tempo sistemando le custodie e i nastri che avevano segnato il sottofondo musicale del mio viaggio. Prima un’operazione meccanica: il nastro, la custodia, il clic della chiusura. Poi più meditata: Beatles, Rolling Stones, Mamas & Papas. DANCING IN THE STREET ascoltato quattro volte.

Che anno è? Che mondo è?

Stava tutto lì, sul sedile grigio della macchina, quel mondo denso di trasalimenti e scoperte, che ancora si affacciavano dalle fotografie sbiadite del beat italiano: i Nomadi, i Rokes, l’Equipe 84. Era invece scivolata sul tappeto la custodia dei Corvi.

Ma sì, proprio loro, quelli che sono proprio tutti di Parma, ve’!
Dylan e Beach Boys davano ancora un tremito nel toccare quelle loro cassette così preziose, ma il sussulto diventava quasi religioso nello sfiorare la custodia dei grandissimi Otis Redding e Aretha Franklyn.. Gli anni erano quelli. Il catalogo era questo. Solo che tra le sonorità astrali di Us AND THEM dei Pink Floyd e di SUNSHINE OF YOUR LOVE dei Cream, si era insinuato anche il martelletto pneumatico e tutto terreno di IN THE SUMMERTIME dei Mungo Jerry. Leggero sgomento. Svista della mia memoria compilativa o svista degli innamoramenti di una intera epoca?

E, soprattutto, era questo il catalogo?

Accesi di scatto la radio. C’è da spostare una macchina! L’urlo di Francesco Salvi illuminò parole come discrimine e confine, segnalando con forza che un’aria comune del tempo, tra tutti i pezzi della mia collezione privata di nastri, comunque sussisteva. E giunse a confortarmi circa l’esistenza di un presente che il tragitto Roma-Fontanellato aveva per un lungo momento fatto sprofondare.

Riavviai la macchina lentamente e passando sotto il voltone mi accorsi che stavo sempre più abbassando la mia posizione di guida. Mi protesi immediatamente sul volante scollando gli abiti dal sedile, e pensando che il grigio metallizzato e spento dalla polvere della mia Alfa154 miavrebbe consentito ancora per un po’ di attutire il frastuono degli sguardi: che si insinuavano, credevano di riconoscere, si stupivano, prendevano forza dal convincersi che avevano davvero riconosciuto, si avvicinavano impietosi e insistenti, domandavano e non si spiegavano come mai solo ora. Forse, finalmente?

L’orologio della torre centrale del castello segnava le cinque in punto nel momento in cui con lo sguardo potevo di nuovo tornare ad abbracciare la piazza, che non era più la stessa. Forse aveva già cominciato a cambiare quando ancora abitavo lì, come la via Emilia e la strada bianca dopo Fontevivo: solo che per troppo guardare avevo finito per non accorgermene.

O forse perché, talvolta, essendo ancora li si è già partiti.Sparito il ciottolato irregolare su cui si correva scalzi ed era difficile controllare i rimbalzi della palla o il precario incedere dei primi tacchi, sparite le tinte sbiadite e le incrostazioni delle facciate che raccontavano di tempi ancora capaci di invecchiare, anche il castello sembrava diverso. Più piccolo, più lindo e meno maestoso, assediato da tutte le parti dalle trasparenze delle vetrine e delle banche, dalle geometrie regolari dei portici, delle sedie e dei tavolini dei due caffè. L’immagine complessiva non era sgradevole, ma i dettagli erano tutti traditori.

Per me era sempre stato difficile attraversare, da sola, la piazza,che allora mi sembrava immensa. Apparentemente calma. Insidiosa. Non era tanto per quel dover continuamente salutare ed essere salutati, sorridere, parlare, informare e essere informati: in un piccolo paese il tempo non è che espansione spaziale di un buongiorno o di una notizia; ma per quell’insopportabile idea di essere in piazza.

E poi, al Caffè Centrale, c’erano i ragazzi.

Mi sentivo più tranquilla quando avevo una meta da esibire e che tutti potevano direttamente controllare. Andare a prendere l’acqua alla fontana, andare al Bar Sport a chiamare il babbo per la cena, andare a chiamarela Cinziache stava in piazza dalla parte opposta a casa mia, andare in tabaccheria a prendere le sigarette per mia madre. Cinque esportazioni nella bustina, e, per me, una bustina con le mentine. Più tardi, un pacchetto, due pacchetti, e, per me, le lamette per depilarsi i primi peli.

Di non trovare più la vecchia tabaccheria sotto il portico, all’angolo della piazza, non me lo sarei mai aspettata. Allora non fumavo, ma quella non era solo una tabaccheria. Era uno spazio di desideri e libertà. Un deposito ombroso e intricato, un labirinto in cui stazionavano accatastate tutte le cose utili e le più inutili delle meraviglie. Avevo potuto spiarci le copertine di Topolino e Grand Hotel, accarezzarci gli involucri di plastica dei giocattoli, acquistarci ombretti, profumi e il portafoglio similpelle: il primo regalo fatto. Lì, soprattutto, avevo saputo della morte di Kennedy e avevo pianto. Avevo poi anche saputo che tutti quelli della mia generazione ricordavano esattamente dove si trovavano quando era piombata su di loro quella notizia.

Tutti quelli. Ma quanti? E, soprattutto, la mia generazione?

L’altra tabaccheria invece, quella che stava sotto casa mia a Roma, sempre inondata di luce e del caldo riflesso delle cupole, era molto più piccola e vendeva solo sigarette e cartoline. lo ci andavo regolarmente per i biglietti dell’autobus. Il padrone all’inizio era simpatico, mi sorrideva e staccava i biglietti dell’autobus. Qualche volta parlava del tempo e di suo figlio che con un diploma non trovava lavoro. Poi cominciò a non aver più nulla da dire su suo figlio e sul tempo. E staccava sempre più silenzioso i biglietti dell’autobus.

Quando il disagio per quei silenzi divenne insopportabile, prima cambiai tabaccheria, poi cominciai a fumare. Venni così a sapere in quella luminosità che con un diploma, a Roma, qualche lavoretto sì, ma un lavoro fisso ancora niente.

Arrivai a casa di mia zia esausta. Ancora stordita dal rimescolìo sudaticcio della piazza. Mani tese e poi strette, sguardi penetranti e talvolta respinti, rossori e stupori. “No, non mi sono sposata”, Fai bene, c’è tempo, però una famiglia ci vuole, Roma sì che è una grande città, Però Funtanlè l’e un gran paes. E promesse di andare a trovare, rivedere, raccontare.

E il farmacista che si ricordava di quando, da piccola, mi facevo regalare tubetti di Formitrol in scadenza, anche senza la tosse perché lo masticavi come il pane. E Antonio che si ricordava di quando, da piccola, correvo con lui il sabato sera al Caffè Centrale: prima fila, mano nella mano, un bicchiere di acqua minerale con la fetta di limone, adesso tutti zitti!, sta per cominciare Studio Uno. E la Daria che si ricordava di quando, da piccola, camminavo al suo fianco alla processione dell’Assunta, davanti a tutti, anche al prete: vestite di tulle e di bianco, ghirlanda di fiori tra i capelli e, nel cesto, petali di rosa da lanciare lungo il percorso.
E tutti che, da piccola, prima o poi, mi avevano pagato un gelato da cinque lire.
Ero tornata. Dovevo ricominciare da piccola. 

Brano corrente

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