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21 Febbraio 2013 | Racconti d'autore

Però un paese ci vuole

di Giovanna Grignaffini, La Lepre Edizioni, 2012 (terza puntata)

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Mascia Foschi.

21 febbraio 2013

Il romanzo di esordio di Giovanna Grignaffini, nata a Fontanellato nel 1949, già docente di Storia e Teoria del Cinema presso il DAMS di Bologna e membro della Camera dei Deputati dal 1994 al 2006, ha come sottotitolo “storia di nebbie e contentezza”: la nebbia degli inverni di Fontanellato, paesino nella Bassa parmense noto per la Rocca Sanvitale affrescata dal Parmigianino, ma anche la nebbia dei ricordi riportati alla memoria da Francesca, la protagonista.
Francesca ha lasciato il suo paese alla fine degli anni Sessanta, appena ventenne, per andare a studiare a Bologna, e ci ritorna dopo vent’anni per fare i conti con la sua giovinezza e con gli amici di quel tempo. Il suo è dunque un viaggio a ritroso nei decenni, accompagnato dalla colonna sonora dell’epoca che ha scandito la sua adolescenza, le canzoni dei Beatles, dei Nomadi, di Caterina Caselli, dei Kinks. In quegli anni di lotte studentesche e di ideologie, c’era la voglia di andarsene da un piccolo paese che non dava prospettive, «però un paese ci vuole» dice uno dei protagonisti. Francesca dunque torna alla ricerca delle sue radici, e anche per far luce su un mistero che lasciamo scoprire al lettore. La domanda, alla fine, è sempre la stessa: da quel paese, da ogni paese, bisogna andarsene? E poi tornare – oppure no?

– Se la mettete su questo piano allora preparatevi, perché le rivelazioni sono appena cominciate – disse Carlo prendendo sotto braccio Franco e incamminandosi verso la stanza del Parmigianino.

RESPICE FINEM

Eccola là, la nostra scritta misteriosa. Appesa nel blu, resa più incerta dalla semioscurità della stanza.

Quella scritta che ci aveva fatto passare interi pomeriggi con la testa all’insù, al centro della stanza del Parmigianino, a chiederci che cosa volesse mai dire respice finem. E a discutere per ore, tra noi, del fine, dei fini e della fine. Non me ne ero più ricordata per anni, di quella scritta.

Correva intorno alla cornice lignea dorata dello specchio scuro che stava al centro di un cielo blu senza stelle. Non si rifletteva niente in quello specchio scuro, ma da esso prendeva luce quella scritta che vi scorreva intorno. E che girava, girava continuava a girare senza inizio né fine, continuando a ripetere:

respice finem.

– Osserva la fine – disse Carlo – letteralmente significa solo questo.

– Alcuni dicono attendi la fine – aggiunse Franco.

– Da piccoli dicevamo che voleva dire: ricordati che devi morire – dissi io.

– È vero, è vero – disse Cinzia – me la facevate sempre recitare ai funerali e nella processione del venerdì santo. Che due cretini che eravate! E io a venirvi sempre dietro nelle vostre stupidate.

– Oggi sappiamo che non è un vero e proprio memento mori, ma un invito a considerare sempre le possibili conseguenze ogni azione umana – disse Carlo.

– Il sapientone che sa sempre tutto! – esclamò Cinzia – Ma per fare qualcosa di buono, delle volte, alle possibili conseguenze non bisogna proprio pensarci. E poi mi fa male il collo a guardare sempre in su.

– Guarda che non l’ho dettata io, né la scritta né le sue interpretazioni. Io rimango della mia idea: e cioè che solo la fine può spiegare l’inizio – disse Carlo.

– E comunque le conseguenze delle nostre azioni non dipendono solo da noi – disse Franco.

– State zitti che non vedo niente – disse Cinzia.

 

Solo dopo parecchi minuti che eravamo là dentro, la luce fioca e diffusa di un faretto, collocato al centro del pavimento, aveva cominciato a insinuarsi lungo le pareti, a rendere visibili i contorni delle figure, a proiettarle fuori dal muro, verso di noi. Vedevo musi appuntiti di levrieri e corna di cervo venire verso me. E grovigli di corpi, abbracci, forme sinuose e lotte, che si sporgevano dai paesaggi, dai motivi floreali e dalle lunette che li incorniciavano. Gesti conturbanti e leggeri, teste di Medusa,

danze di putti alati, amori di ninfe: niente stava fermo in quella oscurità incantata. C’era una grazia rarefatta e diffusa nell’aria, ma del tutto priva di ogni maniera. Anzi, si trattava di una grazia continuamente sporcata da un eccesso di dettagli privi di proporzione: gomiti, cosce, musi e volti senza misura, sguardi e posture sempre fuori posto. Un disequilibrio continuo e cangiante, rappreso nel blu e verde dei fondali, nell’oro degli stucchi e nel bianco levigato dei corpi. Sentivo Carlo parlottare piano con Franco, e Cinzia muoversi frenetica da una parete all’altra:

– Non me lo ricordavo così bello, non me lo ricordavo – mi disse due volte, piano, passandomi accanto. Rimase anche per attimo, incerta, al mio fianco, sfiorandomi leggermente la mano. Poi andò a sedersi in uno dei quattro angoli della stanza e disse: – Bene, ora sono pronta a sentire la storia. Andammo a sederci ciascuno in uno dei quattro angoli della stanza e il primo a parlare fu Franco, che disse:

– Ci siamo divisi i compiti e a me è toccata la parte pallosa dei cenni storici. Devo quindi ricordarvi che Galeazzo Sanvitale, commissionò quest’opera a un giovanissimo Parmigianino, nel 1524. Ma era sua moglie Paola Gonzaga la vera destinataria…

Cinzia lo interruppe:

– Grazie Franco, apprezziamo la preparazione e lo sforzo, ma credo che data l’ora sarebbe meglio passare direttamente alla storia… Scusa, ma non lo credi anche tu?

– Certo – disse Franco – ma Carlo voleva che vi parlassi, di Paola Gonzaga.

– Esatto – disse Carlo alzandosi – perché è proprio con Paola Gonzaga che comincia… e che finisce questa storia.

Andò a collocarsi sotto la lunetta in cui risplendeva il ritratto di Paola Gonzaga, immersa nella luce e nell’oro, e con le mani che sorreggevano un cantaro per il vino e una spiga.

– Siamo al tramonto, – disse Carlo – e l’oscurità sta avvolgendo ogni cosa. Uomini, dèi, animali e piante: tutto, come vedete, sta per essere inghiottito dalle ombre e dal buio, ma l’ultimo bagliore di luce viene a depositarsi proprio qui,. su questa lunetta, intorno a Paola Gonzaga.

– È bellissima – disse Cinzia. – E mite. Sembra una dea.

– Però è triste, – aggiunsi – ha il volto reclinato e lo sguardo abbassato. Sembra una Madonna.

– Lo dicono in molti, che è una Madonna – disse Franco – Anzi, dicono che proprio questo ritratto di Paola Gonzaga ha ispirato il Parmigianino per il suo dipinto forse più noto la Madonna dal collo lungo. Comunque è vero che lungo queste pareti hanno tutti lo sguardo abbassato o rivolto altrove: anche le ninfe, i putti e i levrieri. Solo le teste di Medusa sono rivolte direttamente verso di noi. Ma, sulla Medusa, siamo noi che non possiamo posare lo sguardo.

– Perché no? – disse Cinzia alzandosi e andando a guardare da vicino le teste di Medusa.

– È una lunga storia. Ma, secondo il mito, chi osa guardare la Medusa viene punito e trasformato in pietra – disse Carlo.

– Queste teste sembrano senza occhi. Oppure hanno gli occhi chiusi – disse Cinzia. – L’esatto contrario degli occhi della camera ottica, che sono sempre aperti e rivolti verso di noi.

– È solo un problema di cattiva conservazione. Perché la Medusa ha sempre gli occhi spalancati – disse Carlo.

– In effetti – disse Franco – anche in questa stanza, come nella camera ottica, si gioca con lo sguardo. E si parla dello sguardo e delle sue disavventure. Vero Carlo?

– Certo – disse Carlo. Fece un ampio gesto a Cinzia per invitarla ad andarsi a sedere nel suo angolo, e poi riprese a ‘re: – Il nucleo fondamentale della storia rappresentata qui dal Parmigianino lo conoscete tutti. È tratto dalle Metamorfosi di Ovidio e vi si narra di una battuta di caccia finita in tragedia a causa di uno sguardo.

– Finita in tragedia a causa di una ingiustizia – dissi. – Un’ingiustizia ancora più inquietante perché proveniva proprio da una dea.

– È vero – aggiunse Cinzia – io mi ricordo che allora, dèi o non dèi, andavamo sempre via da questa stanza incazzati con il mondo e con le sue ingiustizie.

– Calma ragazze – disse Carlo – perché qui non si parla di politica ma di metafisica. Inoltre, le fonti e le interpretazioni sono molteplici e bisogna fare molta attenzione ai dettagli. Allora, il nucleo fondamentale della storia è noto. Atteone sta facendo una battuta di caccia, si allontana dai suoi compagni, si inoltra nel bosco e vede Diana fare il bagno, nuda, con le ninfe. Diana si arrabbia, trasforma Atteone in un cervo, e il cervo-Atteone viene sbranato dai suoi stessi levrieri che non lo riconoscono…

– Quello che ho detto. Una vera ingiustizia. Atteone viene punito per una colpa che non ha commesso – disse Cinzia. – Fatemi sedere e stiamo più raccolti, perché, vi ripeto, qui ci vogliono pensieri veloci e leggeri come levrieri – disse Carlo.

 

Andammo tutti a sederci al centro della stanza, le incrociate, intorno al faro che la illuminava.

-Allora,- riprese Carlo – la domanda è la seguente: che cosa poteva e doveva fare Atteone? Davvero ci troviamo di fronte una colpa senza peccato? Perché una colpa c’è, indubbiamente

– Essersi trovato là, per caso, non può essere un peccato! E quindi nemmeno una colpa – disse con foga Cinzia.

-Aveva ragione il nostro vecchio bibliotecario, che ci diceva sempre di leggere i russi – dissi. – Lì, a discutere di colpa, destino e responsabilità individuale, sono dei veri maestri.

– Infatti la questione riguarda proprio l’esistenza di una colpa a prescindere dalle volontà individuali. E il fatto che comunque, per la giustizia divina, a ogni colpa debba necessariamente corrispondere una punizione – disse Carlo.

– Io so che Franco veniva lui, volontariamente, fino allo stagno per spiarci. Atteone, invece no, vede per caso -. disse Cinzia.

– E anche per la giustizia terrena la responsabilità non può che essere individuale e determinata dalla volontà. Non dal fato – aggiunsi.

-Va bene, mi arrendo. – disse Carlo. Inutile porre con voi donne questioni che travalicano la pura contingenza: E comunque, Atteone, forse non era del tutto innocente in un quadro che contempla anche le responsabilità sovraindividuali.

– Mi stai riproponendo il problema della colpa originaria della dannazione e del peccato originale? – chiesi senza cercare di nascondere a Carlo il profondo fastidio che mi stava invadendo.

– Mi riferivo, più semplicemente, a quella somma di impercettibili azioni e omissioni che contribuiscono a far nascere un clima. Che alimentano un clima o lo lasciano sopravvivere e dentro cui è più facile che si manifesti la colpa..

– State parlando ancora di me, cazzo? – urlò Franco – State dicendo, come tutti, che dovevo andare in questura a denunciare? Fare nomi, dire che avevo visto dei gesti o delle movenze furtive in casa mia…

– Carlo sta parlando di tutti noi, non solo di te – dissi.

– Però sono sempre io, cazzo! Che non va bene quando vi spiavo allo stagno, che non va bene quando mi rifiuto di fare la spia – disse Franco.

Io e Cinzia ci andammo a sedere più vicino a lui, tenendolo abbracciato tra noi. E Cinzia disse:

-Tutti abbiamo fatto delle cazzate, allora. Ma nessuno di noi ha commesso qualche colpa.

E io aggiunsi: – È vero. È stato così per tutti noi, in quegli anni .. Prima abbiamo vissuto tutti, un po’, le vite degli altri. Che era anche il nostro modo per sentirci parte del mondo. È stato

dopo, è stato poi che abbiamo cominciato a difendere la nostra vita, i nostri amici, a difendere la nostra parte.

– E adesso? Che cosa ci è rimasto da difendere, adesso? – disse Cinzia.

Adesso dobbiamo tornare a difendere i classici e la loro saggezza – disse Carlo. Anche perché, la scritta che corre lungo le pareti di questa stanza sembra dare proprio ragione a voi e alla vostra strenua difesa della responsabilità individuale.

– Cos’è questa storia della scritta? – chiese Cinzia.

– Vedete – disse Carlo – il fregio che corre lungo tutta la stanza alla base degli affreschi? Bene, al suo interno, anche se poco visibile, è presente una scritta, la cui traduzione suona pressappoco così: “Perché, Diana, se è la sorte che ha condotto qui il misero Atteone, egli è da te dato in pasto ai suoi stessi cani? Non per altro che per una colpa è lecito che i mortali subiscano pene. Una tale ira non si addice alle dee”.

– Bene – disse Cinzia – viva i classici che senza troppi problemi gliele cantano di santa ragione alle dee e alle loro ingiustizie. Ma di chi è la scritta?

– Non è presente nel testo originale di Ovidio – disse Carlo – e neppure in alcune sue variazioni, dunque è stata voluta direttamente dai committenti, cioè dai Sanvitale.

– Evviva i Sanvitale spiriti liberi – disse Cinzia.

– Spiriti liberi ma dolenti! – disse Carlo – Perché le domande interessanti cominciano adesso. E la prima domanda che vi rivolgo è la seguente: che cosa ci fa Paola Gonzaga, ritratta in guisa di Madonna luminosa e dolente, dentro l’oscura vicenda di Diana e Atteone?

– Di certo non era lì su quella parete, per ricordare a tutti che questo era il suo bagno – dissi ridendo.

– Stiamo parlando di questioni impalpabili e spirituali – disse Carlo con tono di leggero rimprovero.

– Forse anche lei aveva commesso una colpa, involontaria – disse Cinzia.

– Fuochino – disse Carlo.

– Per aiutarvi, posso ricordarvi che Diana è contemporaneamente la dea della caccia e la dea della nascita – disse Franco.

– Non portarle troppo lontano. Restiamo ai fatti – disse Carlo.

– Dunque i fatti qualche volta sono utili – disse Cinzia. Carlo sorrise.

– Potete parlare solo voi che sapete che cosa si nasconde dietro questo affresco – dissi. – Noi, possiamo parlare solo di quello che scorre sulla sua superficie. E quello che vi scorre sopra è un’ingiustizia, una tremenda ingiustizia.

– Esatto, un’ingiustizia – disse Cinzia. – E quando c’è un’ingiustizia, è sempre colpa vostra.

– Guarda che Diana è un dea – disse Franco.

– Non so… voi uomini confondete sempre tutto con le parole. Bisognerebbe vederci più chiaro – disse Cinzia.

– Allora vi invito a chiudere gli occhi – disse Carlo – e a riflettere un po’. Infatti, potete arrivarci anche da sole, a capire quali fatti ingiusti e dolorosi possono aver coinvolto Paola Gonzaga. Anzi vi aiuto. Che cos’è che ha sempre rappresentato, e ancora rappresenta, l’ingiustizia suprema, per una donna?

– Non so, sono molte. Non me le fare elencare tutte. Ma ‘forse… Perdere un figlio – disse Cinzia trasformando in un sussurro l’ultima parola.

 

Restammo per lunghi minuti in silenzio, tutti catturati da quel ritratto luminoso e dolente di Paola Gonzaga, sempre più, ora, ai nostri occhi, mater dolorosa e innocente, ingiustamente privata della sua più amata creatura. Carlo ci spiegò che la morte del figlio più piccolo dei Sanvitale, di soli pochi mesi, era avvenuta nel 1524, lo stesso anno in cui l’affresco venne commissionato al Parmigianino. Quella stanza era dunque stata concepita come uno spazio appartato e segreto di meditazione, di preghiera e di memoria; una specie di “camera verde” in cui coltivare il culto dei morti e nello stesso tempo accogliere i percorsi misteriosi della volontà divina. “Alla luce di questa lettura – disse Carlo – il nostro respice finem andrebbe interpretato come un monito a guardare oltre la morte, verso il fine supremo e la sua giustizia”. Insomma, un invito a credere. C’erano molte altre tracce e simboli che confermavano o andavano verso questa direzione, ci venne ricordato. E Carlo fu puntiglioso nel mostrarci e precisarci ogni minimo dettaglio. Ci segnò col dito il cantaro del vino e la spiga, simboli dell’eucarestia; ci indicò il ritratto di un infante con un ramo di ciliegie, simbolo di morte precoce; ci ricordò che la figura del cervo risulta comunemente associata alla vita e al sacrificio di Cristo. “Il più grande di tutti gli innocenti, costretto a pagare per una colpa che, ne siamo certi, non è certo stato lui a commettere. Neppure involontariamente”, sottolineò Carlo.

E tutto, in quella stanza si trasfigurava. Sotto il peso delle parole di Carlo, l’intero affresco del Parmigianino si stirava, si contorceva e tornava a distendersi.

Era tutto più luminoso, il cielo splendeva più alto. E lungo la storia c’era più dolore; tra gli alberi, i fiori e le siepi, più spiritualità. Dai volti e dai gesti sprigionava più quiete. E l’innocenza, come un bagliore diffuso, rischiarava ogni cosa. Nella morte c’era più speranza. Nel sacrificio, c’era più ragione.

– Però… Però – disse Carlo – in questa luce di fede cristiana, che tutto trasmuta e trascolora, ci rimane qualche dettaglio oscuro, qualche crepa e sospetto, che è bene che io porti a vostra conoscenza. Anzi, fatemi riposare un attimo. Lascio la parola al mio allievo prediletto.

– Ma è una storia infinita – disse Cinzia.

– Una storia che non fa altro che ricominciare – disse Franco.

– Posso infatti dirvi che molti documenti testimoniano del fatto che in quegli anni la corte dei Sanvitale fosse una specie di cenacolo di intellettuali e artisti, non propriamente in linea con l’ortodossia cristiana. Anzi. E lo stesso Parmigianino, non lo era. E non lo era certo Giulia, la sorella minore di Paola Gonzaga, che parecchi anni dopo, insieme al suo cenacolo di Fondi, venne addirittura sospettata di eresia. Ma anche qui a Fontanellato, negli anni in cui fu realizzato il dipinto, si discuteva dei rapporti tra libero arbitrio e predestinazione. E la scritta che corre lungo il fregio di questo affresco, potrebbe essere letta proprio in questa chiave.

– E allora? E allora? – chiese Cinzia con lo sguardo sospeso alternativamente su Franco o su Carlo.

– E allora, – disse Carlo – c’è troppa acqua, in questo affresco, troppi specchi e misteri, troppe sproporzioni. Troppi sguardi che si cercano, troppe ombre, troppe mutazioni. Ci sono troppe lune. C’è una grande tensione nell’aria, un’inquietudine e un profondo disequilibrio, che nessun sacrificio di Cristo riesce ad appagare.

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