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15 Dicembre 2011 | Racconti d'autore

Se son rose

di Massimo Vitali, Fernandel, 2011. Prima puntata

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri

15 dicembre 2011

Prendete la pancia di un uomo, Roversi. Aggiungete una moglie, un lavoro e centodieci chili di abitudini. Ora siate rudi: togliete la moglie, il lavoro e le abitudini. I centodieci chili, invece, chiudeteli a chiave nel bagno delle donne del cinema Corallo. Deciso a non uscire più finché non avrà portato a termine quella pausa di riflessione che in tanti gli hanno consigliato di prendersi, sarà il resto del mondo a venirlo a cercare: preti, maniaci, fotografi, cani, travestiti, psicanalisti, fabbri, venditori porta a porta. E donne, naturalmente. Roversi darà udienza a tutti, ma non aprirà la porta a nessuno.

Di questo parla “Se son rose”, il secondo romanzo pubblicato per l’editore Fernandel dal bolognese Massimo Vitali, nato nel 1978. Prima della lettura, vi facciamo ascoltare l’intervista fatta all’autore da Linda Vukaj.

Patate

Mettiamo che io abbia un figlio che un bel giorno vuole sapere che lavoro fa il suo papà. Io gli direi: ma io non sono tuo papà. Mettiamo che lui dica non scherzare, lo devo scrivere in un tema per la maestra. Allora gli direi: e va bene, sono tuo papà. Però da oggi sono anche disoccupato. Mentre gli spiego cosa significa la parola disoccupato, per non fargli lasciare il foglio in bianco con scritto solo “disoccupato”, dico a mio figlio che fino al giorno prima suo papà era impiegato in una ditta che vendeva gnocchi, purè, crocchette e qualunque cosa, fatta di patate, che si possa masticare. Certo, un impiego non proprio esemplare rispetto ai vari astronauti, pompieri o equilibristi del circo che popolano i temi dei bambini, ma per un bambino immaginario che importanza potrà mai avere il lavoro del suo papà?

A lui basterebbe avere un lavoro di cui scrivere, e al suo papà basterebbe avere un lavoro e basta, e invece da ieri non ha più neanche quello: concluso senza preavviso da un uomo cattivo che si fa chiamare capo. 
Ieri il mio capo mi ha convocato nel suo ufficio, mi ha fatto accomodare su una sedia, mi ha spiegato che c’era un problema, e il problema non era tanto la crisi del consumo di patate, come ho cercato di suggerire io a un certo punto, quanto io: il problema ero proprio io.
«Io chi?» Ho chiesto per sicurezza.
«Lei Roversi». Ha chiarito il capo. «Da quanto tempo lavora con noi?»
«Ho perso il conto».
«Se vuole glielo faccio io».
«Dieci anni».
«Sono tanti».
«Me ne dava di meno?»
Il capo non ha risposto ma si è acceso una sigaretta: «Lo sa cosa penso?»
«Se lo sapessi sarei al suo posto, a fumare dall’altra parte della scrivania». Ho detto fingendomi spregiudicato.
«Penso che lei dovrebbe prendersi una pausa di riflessione». Ha risposto lui, che spregiudicato lo è di natura.
«Una pausa di riflessione…» Ho ripetuto meccanicamente, iniziando a traballare sulla sedia.
«Proprio così». Ha confermato il capo, immobile dietro una nuvoletta di fumo.
«E su cosa dovrei riflettere, di preciso?»
«Questo lo deciderà lei». Ha continuato il capo impassibile. «Tempo ne avrà».
«Sta scherzando?» Ho chiesto fissandogli quel suo grosso naso a patata, frutto di tanti anni di sacrifici nel campo delle patate.
«Ho la faccia di uno che scherza?» Ha risposto lui, che al suo naso c’era abituato.
«Non si starà confondendo con qualcun altro?» Ho insistito vacillando sulle ginocchia e cercando di simulare un attacco di panico neanche troppo simulato.
«A differenza di altri, io non mi distraggo mai sul lavoro». Ha spiegato il capo diradando la nebbia fumosa e scuotendo il suo naso a patata da un lato all’altro della scrivania.
Non capivo a cosa si riferisse. Io i miei errori sul lavoro li nascondevo sempre benissimo. Erano dieci anni che li nascondevo con cura maniacale. A volte faticavo a trovarli io stesso.
Il mio capo invece ce li aveva tutti davanti a sé, radunati sulla scrivania, divisi per cartelle, una per ogni anno. Dieci anni di errori che così da lontano e con tutta quella nebbia non li vedevo bene neanch’io.
Così mi sono avvicinato: «Ma lo sa che ho un figlio da mantenere?»
«Dicono tutti così».
Poi il capo ha preso un foglio che era in cima alla pila, lo ha girato verso il sottoscritto e ci ha appoggiato sopra una penna:
«Ora dovrebbe farmi un autografo», ha detto.
Io non sapevo che i licenziamenti funzionassero così. Li avevo visti in tanti film, ma a me non era mai capitato. D’altronde i capi non sono mica attori. I capi se sono diventati capi è perché a loro volta hanno fatto fessi altri capi. E sotto questo punto di vista il mio capo era l’ultimo dei fessi. Io il primo: questa sua decisione così inaspettata mi piombava addosso come una pioggia di patate.

Ero talmente sconcertato che non ho fatto obiezioni. Non ho fatto obiezioni perché quando la tua unica preoccupazione è quella di schivare patate che piovono dal cielo, firmare un foglio di licenziamento e uscire dall’ufficio con la penna del capo ancora tremolante in tasca è roba da ridere. Anche se poi, cosa ci sarà mai da ridere?

 

Missili

Noi uomini duri siamo gente addestrata a piangere. Solo che lo facciamo da soli, quando non ci vede nessuno, ad esempio mentre torniamo a casa in macchina dopo che ci hanno licenziato dal lavoro. Quando rientriamo e spieghiamo tutto a nostra moglie, l’importante è riuscire a mantenere la stessa aria sicura e distaccata tipica degli attori quando nei film vengono licenziati dal lavoro. Con l’atteggiamento da famosa star del cinema disoccupata, ho parcheggiato la macchina studiando diverse espressioni allo specchietto, poi sono salito in ascensore continuando ad esercitarmi davanti allo specchio, e una volta di fronte alla porta di casa ero pronto. Ho girato la chiave e sono entrato con aria da gran divo: non c’era nessuno. Ho aspettato mia moglie continuando a provare le varie espressioni davanti allo specchio del bagno, mentre in cucina ho preparato quattro orate al forno, tre per me e una per lei, e ho acceso un paio di candele.
Quando Emilia è arrivata, l’ho fatta accomodare a tavola e finalmente le ho parlato con orgoglio del mio licenziamento, come se l’avessi comprato in offerta al supermercato.
«Mi passeresti il sale?» Ho chiesto per entrare in argomento.
«Ce l’hai davanti».
«Buona questa orata». Ho osservato masticando anche le spine.
Emilia ha scosso la testa. «Roversi, io non ce la faccio più».
«Manca il sale, vero?»
Emilia mi ha squadrato come se di fronte a lei ci fosse un’orata. «Ti sento come un inquilino».
«Scusa?»
«Un inquilino». Ha confermato Emilia guardando nel vuoto: il vuoto ero io. «Non mi sembri più mio marito, mi sembri uno con cui condivido la casa».
Ho sentito una fitta in gola che ho ignorato pensando si trattasse di una spina, e ho continuato a salare il pesce facendo finta di niente.
«Sai, al lavoro mi hanno chiesto di prendermi una pausa di riflessione».
«Che buffo».
«Non vedo cosa ci sia di buffo».
«È buffo perché era proprio quello che stavo pensando anch’io».
Ho considerato la situazione fissando la parete vicino al tavolo, solitamente adibita a quello scopo. Non era una fitta alla gola quella che sentivo, era proprio Emilia sul piede di guerra.
«Sul serio?» Ho chiesto. «Ti licenzi?»
Emilia si stava preparando a lanciare i suoi missili. «Credo anch’io che tu debba prenderti una pausa di riflessione». Via con il primo missile.
«Ma io il mio lavoro lo conosco bene! Su cosa dovrei riflettere?»
«Ad esempio sul nostro matrimonio». Ha risposto Emilia togliendomi il pesce da sotto il naso e mettendosi davanti al muro perché la guardassi negli occhi. «Da quanti anni siamo sposati?»
Mi sembrava di aver già sentito una domanda del genere: «Ho perso il conto».
«Allora te lo faccio io: dieci anni. Siamo sposati da dieci anni e ci conosciamo da più del doppio». Ha calcolato Emilia. «Credo che sia venuto il momento che tu capisca veramente cosa vuoi da me». Via con il secondo missile.
«Ma io lo so cosa voglio da te». Ho detto continuando a fissare il muro, però indicando il piatto che mi era stato tolto.
«Invece ho il sospetto che tu non lo sappia più». Via con il terzo missile.

Con le donne non si capisce mai quando scherzano o quando sparano. In questi casi però di solito non scherzano mai. Comunque un tentativo volevo farlo lo stesso: «Seriamente?»
«Roversi, guardami bene, ho la faccia di una che scherza?»
Ho distolto lo sguardo dal muro e ho guardato bene mia moglie. Una bionda minuta con grandi occhi, lunghe sopracciglia e un debole per le espressioni cattive. Conoscevo quell’espressione. Non era la smorfia di una donna davanti a un muro, era il muso di un missile in caduta libera nell’orbita dei miei occhi disarmati: non scherzava.
Ho cercato di difendermi come potevo: «E il nostro bambino?»
«Ci mancherebbe pure che avesse un padre come te». Via con il quarto missile.

Ora togliamo il tetto.

Brano corrente

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