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22 Dicembre 2011 | Racconti d'autore

Se son rose

di Massimo Vitali, Fernandel, 2011. Seconda puntata

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri

22 dicembre 2011

Prendete la pancia di un uomo, Roversi. Aggiungete una moglie, un lavoro e centodieci chili di abitudini. Ora siate rudi: togliete la moglie, il lavoro e le abitudini. I centodieci chili, invece, chiudeteli a chiave nel bagno delle donne del cinema Corallo. Deciso a non uscire più finché non avrà portato a termine quella pausa di riflessione che in tanti gli hanno consigliato di prendersi, sarà il resto del mondo a venirlo a cercare: preti, maniaci, fotografi, cani, travestiti, psicanalisti, fabbri, venditori porta a porta. E donne, naturalmente. Roversi darà udienza a tutti, ma non aprirà la porta a nessuno.

Di questo parla “Se son rose”, il secondo romanzo pubblicato per l’editore Fernandel dal bolognese Massimo Vitali, nato nel 1978. Prima della lettura, vi facciamo ascoltare l’intervista fatta all’autore da Linda Vukaj.

Pancaldi 

Se è vero che gli amici si vedono nel momento del bisogno, in quel momento avevo bisogno soprattutto di una spalla, e la spalla più larga che conoscevo era quella del mio amico Pancaldi.  Pancaldi lo conosco da quando aveva sei anni, e da allora è rimasto tale e quale. Il suo concetto di realtà è quello di un cielo coperto di nuvolette, che lui sposta con pennellate d’artista a seconda dell’ispirazione. Dato che il pittore Pancaldi è un artista con un’età mentale di sei anni, per me vederlo all’opera è da sempre fonte di grande consolazione. 
L’unico cambiamento avvenuto in Pancaldi in tutti questi anni è il volume di carico: ora è talmente ingombrante che dovunque passa è in grado di aprirsi un varco tra la folla, lasciando il vuoto dietro di sé. E anche se non lascia il vuoto, lascia comunque un’impronta del suo passaggio. 
Dopo aver lasciato Emilia a casa da sola coi suoi missili, sono andato a trovare Pancaldi nel suo bar omonimo, un corridoio senza finestra vicino alla stazione, con un’originale insegna luminosa – BAR PANCALDI – e l’ho sorpreso mentre stava lasciando le sue impronte sul cartellino di un panino al prosciutto e formaggio. 
Il prezzo sul cartellino era fresco fresco, il panino invece era quello del giorno prima, il prosciutto del giorno prima ancora e il formaggio non c’era più. Il bar era vuoto non a caso. 
«Poi ti lamenti che viene poca gente». L’ho ammonito cogliendolo con le mani nel sacco. 
«Ho abbassato il prezzo, altrimenti non lo vendo». 
«Perché non te lo mangi tu?» Ho domandato. «Appetito non ti manca». 

Se è vero che Pancaldi appartiene alla categoria delle taglie morbide, è anche vero che il sottoscritto non è da meno. Io sodella sua morbidezza, lui sa della mia, e dato che siamo amici, ci sosteniamo a vicenda. «Lo vuoi tu?» Mi ha chiesto.
Pancaldi mi conosce meglio di chiunque altro. Ho preso il mattone, l’ho addentato come fosse un panino, e gli ho esposto i fatti così come erano andati. «Pancaldi, siamo in guerra». 
Pancaldi non legge i giornali, ma conosce le cose del mondo attraverso i reportage degli avventori del bar: pensionati col bicchierino facile, sgabelli umani con occhi da slot machine, ferrovieri senza treno, gente comunque abituata a far colazione in un altro bar. «Nessuno me ne ha ancora parlato». 
«Non siamo in guerra tutti». Mi sono corretto. «Sono in guerra solo io». 
«Capisco». 
«Il mio capo mi ha detto che devo prendermi una pausa di riflessione». 
«Capisco».  
«Non so cosa fare». 
«Capisco». 
«Sai dire solo “capisco”?» 
«Ne hai parlato con Emilia?»  
Con tutte le cose che poteva dire, Pancaldi riusciva sempre a trovare le meno adatte. Sembrava leggere la mente del prossimo, solo che la leggeva al contrario. 
«Emilia è d’accordo». Ho spiegato. «Anche lei dice che devo prendermi una pausa di riflessione». 
«Capisco». 

D’altronde cos’altro poteva dire Pancaldi? Abituato a subire gli sfoghi di tutti i suoi clienti, col tempo quell’uomo di sei anni aveva dimenticato di avere una lingua sua, e ne aveva affinata un’altra, composta da semplici “capisco” inseriti con cura tra le pause dei suoi interlocutori. 
«Tu da che parte stai?» Ho chiesto cercando una reazione. 
«Io dalla mia». Ha risposto Pancaldi sincero come un muro appena imbiancato. 
«Amico mio, sono sull’orlo di un abisso. Tutta questa situazione non mi sembra vera. Mi sembra di vivere in un incubo, però di quelli in cui dopo non ci si sveglia». 
«Capisco». 
«La vuoi smettere di dire “capisco”?» 
«Vuoi un altro panino?» 
«Pancaldi, capisci quello che ti sto dicendo?» 
Pancaldi ha annuito senza convinzione: «Ti hanno licenziato dal lavoro e Emilia ti ha mollato».

La brutalità del mio amico a volte è imbarazzante, ma con lui non si può fingere. E neanche rispondere. Il panino mi era andato di traverso: ho tossito sputando anche qualche spina di pesce. Pancaldi è rimasto chiuso per un po’ nei suoi pensieri fatti di nuvole che si muovono alla velocità del vento, ha dato qualche pennellata qua e là, ha corrugato la fronte osservando il risultato, e quando si è sentito soddisfatto ha appoggiato il pennello sul bancone e ha emesso la sua sentenza. «Penso che abbiano ragione loro». Ha detto guardandomi negli occhi. «Dovresti prenderti una pausa di riflessione. Magari ti fa bene. Guarda che faccia che hai. Hai pianto?»
«Pancaldi, va’ a quel paese». Non avevo più voglia di discutere. Se non potevo nemmeno fare affidamento sull’onestà intellettuale di un artista bambino, tanto valeva cambiare aria e non pensarci più. 
Ho lasciato il mattone a forma di panino sul banco, ho salutato Pancaldi con un cenno svogliato della mano, e ho preso la via contraria a quella di casa, perché casa mia era l’unico posto in cui non volevo tornare.

Riflessioni

Nella vita bisogna sempre fare dei paragoni, specialmente con chi sta peggio di te. Uscito dal bar Pancaldi, fermo in macchina a digerire davanti a un semaforo rosso, mi sono paragonato al mio collega Santino Zanetti che giorni fa, lavorando su una patata, si è tagliato per la sesta volta consecutiva il dito indice nello stesso punto: non si può dire che quell’uomo stia meglio di me. Poi per non pensare al lavoro mi sono paragonato a quegli orsi bruni che per tutta l’estate vanno in giro cercando di riempirsi la pancia, e quando arriva l’inverno si accartocciano dentro un buco nero senza neanche un cuscino: io questa non la chiamerei vita.  
Eppure gli orsi dormono beati con la pancia piena, e Santino Zanetti vive più o meno felicemente da quarantanove anni, la metà dei quali passati nella stessa azienda a pelare patate: qualcosa vorrà dire. 
Forse significava che avrei dovuto cominciare a sbucciarmi le dita anch’io. Oppure che d’estate avrei dovuto mangiare di più. O che avrei dovuto cercare un rifugio solo mio. Mio, e di chi decidevo di farci entrare io. Mia moglie Emilia, per esempio. Ma si sa che anche gli esempi possono essere un cattivo esempio. Dunque non sapevo proprio cosa pensare. 
Ammetto che la mia vita fino ad allora non era stata molto brillante, però diciamo che nel tempo mi ero creato il mio piccolo acquario con i pesci – io e Emilia – un po’ di vegetazione intorno – la giungla di Pancaldi – ogni tanto qualcuno che faceva piovere mangime dall’alto – la mia ditta. Ma ora dall’alto piovevano soltanto missili e patate – mia moglie, la mia ditta, spero non arrivi anche Pancaldi. 
Devo dire che c’era molto materiale su cui fermarsi a riflettere. Tra l’altro tutte quelle riflessioni davanti a un semaforo rosso mi aiutavano a passare il tempo. Cosa avrei fatto da quel momento in poi? Avrei cercato di ricostruire l’acquario riconquistando il mio posto di lavoro, o avrei dovuto prima riconquistare mia moglie? Si può amare da disoccupati? E lavorare senza amore? Ma poi io amavo Emilia? E il mio lavoro mi piaceva per davvero? 

Quante domande tutte in una volta in un giorno solo. Ero stufo. Forse avevo bisogno di un po’ di distrazione. Forse la soluzione migliore era proprio quella di non pensare a niente, almeno per qualche ora, magari andando al cinema a vedere un film, magari a vederne due, facciamo pure quattro se le proiezioni in una sera arrivassero fino a quattro: l’importante era spostarsi al più presto da quel semaforo. 
Pare che le code automobilistiche che si formano senza una causa apparente siano il frutto di comportamenti individuali che influenzano quelli degli altri. In effetti, se ai semafori tutti gli automobilisti iniziassero a riflettere sulle proprie disgrazie invece di suonare il clacson, per le strade si formerebbero file più consapevoli, e si ridurrebbe l’inquinamento acustico. 

Brano corrente

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