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9 Aprile 2009 | Racconti d'autore

Il silenzio dei musei

di Carlo Lucarelli. Da “Ma questa è un’altra storia. Voci, vicende e territori della cultura in Emilia-Romagna (1978-2008)”, Bononia University Press, IBC 2008.

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

9 aprile 2009

La rivista dell’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna (IBC) racconta, da trent’anni, un’esperienza unica in Italia. Un caso editoriale e una continuità di presenza che hanno influenzato il modo di affrontare e di raccontare la conoscenza del patrimonio storico, la salvaguardia del paesaggio, la promozione della lettura, la stessa attività di ricerca di chi opera ogni giorno sul territorio. Il volume che nel 2008, a cura di Valeria Cicala e Vittorio Ferorelli, ha raccolto una selezione di testi tratti dall’archivio di IBC, offre l’occasione di ricomporre, attraverso i frammenti delle singole voci recuperate, la storia culturale di una regione, dagli anni Settanta a oggi.
Aprendo il baule del passato ci si ritrova di fronte a parole non ancora ingiallite, a istantanee che ripropongono, in modo nitido, i fotogrammi di un’altra storia. Più sommessa, meno eclatante, in molti casi diversa da quella attuale. In certe costanti, invece, paradossalmente analoga. Nei contributi degli autori, degli studiosi e degli amministratori che hanno collaborato alla testata, si possono comprendere meglio le azioni più lungimiranti ma anche le occasioni perdute, distillando così, dagli alambicchi di ogni annata, una sorta di breviario. Un compendio che testimonia, oggi più che mai, la capacità di una istituzione pubblica nell’attrarre a sé, e nell’amalgamare, le voci più impegnate nella difesa di un patrimonio comune.Questo testo dello scrittore Carlo Lucarelli è stato pubblicato per la prima volta nel n. 4-5/1995 della rivista “IBC”.

Il silenzio dei musei
di Carlo Lucarelli

Avete mai sentito il silenzio di un museo? Non quello dei cartelli appesi al muro, rotto dallo scalpiccìo, dai sussurri, dai colpi di tosse, dal ronzare delle macchine fotografiche che si ricaricano di nascosto, ma quello vero, quello dell’orario di chiusura. Dalle nove alle cinque non è silenzio, è rumore sommesso, represso, chiasso ipocrita, ma dopo, dopo che sono passate anche le donne delle pulizie, dopo che le porte si sono chiuse e anche i cancelli, allora è il silenzio dei musei. Che non è un silenzio vuoto, di cose che dormono, ma un silenzio vivo, di cose che si svegliano.
Avete mai sentito quanti rumori ci sono in un museo chiuso? Sono tanti, tutti diversi e ognuno potrebbe essere scritto con una lettera, racchiuso in un simbolo e disegnato, come un ideogramma. Io lo so, sto lì da tanti anni, dietro al tavolo del custode e non ho niente altro da fare che ascoltare, fissare il buio e ascoltare, dalle sei di sera alle otto di mattina.
Ci sono le cornici dei quadri, per esempio, o anche gli infissi delle bacheche o delle finestre, che con la variazione di temperatura tirano e scricchiolano, con la erre, scrrricchiolano. Poi ci sono le tele, le tende e tutte le stoffe dei vestiti nelle teche e quelle che ricoprono i mobili antichi, soprattutto i letti… quelle frusciano, con la effe, fffrusciano. E le molle, quelle dei divani, si tennndono, enne. E l’impianto di sicurezza, quando si accende periodicamente, esse: sssibila.
Io li sento tutti i rumori, non ho nient’altro da fare… e li riconosco, sempre. Per questo quella ci, così netta, così tronca, clic, la notai subito e mi fece alzare la testa, a girare gli occhi nel buio. Sembrava un taglio, un taglio di forbici e infatti la seconda volta lo sentii bene che non era proprio un clic, no, ma un tric, schiacciato, come di metallo su gomma che si allunga e forza finché non incontra la resistenza del rame. Tric. E subito, il sibilo dell’impianto di sicurezza cessò di colpo.
Una luce improvvisa, nel buio, è come se facesse rumore, anche se è la luce sottile e diretta di una torcia elettrica. Quella luce aveva rumore di passi di gomma, cauti, lenti, come quelli di un gatto e un soffio di voce, dietro: “Fa piano, cazzo”. Scorreva veloce sul vetro delle bacheche, sulle pareti biancastre, sulla patina lucida delle tele dipinte e quando scivolava via sembrava che il buio fosse ancora più buio. Ma passò accanto, senza toccarmi e io attesi. Se non mi avevano visto non si erano accorti di me.
Erano due, pensai all’inizio, poi entrò anche il terzo, fermo sull’atrio, illuminato a metà dalla luce esterna del cortile e fu con quella che vidi la pistola. Gli altri, nel salone, erano solo due sagome grigie che si muovevano curve sul nero, finché una non si fermò a reggere la torcia e l’altra entrò nel cono di luce e fu con quella che vidi il coltello. La tela che cede sotto la lama di un cutter fa un rumore straziante per chi sa sentirlo. È come se ogni filo della fibra lanciasse un gemito breve, da gola tagliata, più sottile quando il rasoio segue la verticale del quadro, più grosso in orizzontale e duro, agghiacciante come un osso rotto quando tocca la cornice. Tagliavano la Vergine Inviolata e solo dal nome già sembrava un atto blasfemo. Mi mossi, silenzioso, nel buio.
“C’è qualcuno… ho sentito un rumore”.
L’occhio luminoso della torcia tagliò il buio fino alla scrivania, alla targhetta custode e si fermò rotondo sullo schienale della sedia vuota.
“Che c’è?” chiese quello con la pistola.
La torcia si mosse, a passi attenti, di suola di gomma. Veniva verso la sala piccola, lasciando che il buio risucchiasse il salone, con quello col coltello e la Vergine Inviolata ripiegata su sé stessa, arrotolata su un angolo ancora attaccato alla cornice. La luce varcò la soglia, tra il portacenere a colonna e la colonna con l’urna di cenere etrusca ed entrò nella stanza, a frugare sulle pareti. Poi la torcia mi vide e senza un gemito, neppure un soffio, si schiacciò per terra con un ciack spesso, di vetro grosso.
Buio.
“Cazzo fai?”.
La voce era una voce e non più un sussurro e vibrava nella gola, di paura. Un attimo e mi mossi ancora, oltre la soglia, di nuovo nel salone, dietro alla corda di canapa gialla che chiudeva il divano sul ballatoio. Nessun fruscìo sulla striscia rossa del tappeto. La pedana di legno che alzava il divano non scricchiolò.
“Guarda che se è uno scherzo… oh, giuro, se è uno scherzo, io…”.
Camminava lungo la corda, per indovinare la direzione. La sentivo vibrare sotto le sue dita e forse, non so, ma forse tremava. Volevo un urlo, così lasciai che la mano si avvicinasse, scorrendo sulla canapa e quando la sentii vicina, sempre più vicina, non mi allontanai.
Urlò, forte.
Quello con la pistola si piegò sulle ginocchia, stendendo le braccia nel buio. La paura gli ghiacciò le gambe e la gola e il dito sul grilletto. Non sparò perché non c’era niente a cui sparare se non la sagoma sottile di una corda di canapa che ondeggiava nel buio. Quando riuscì a muovere la lingua fece uno schiocco contro il palato e un gorgoglìo di gola mentre si alzava strappando sulle ginocchia. Si voltò per scappare e quando si voltò incontrò me.
“Ci hanno provato anche stavolta… guarda qua, ci sono i fili dell’allarme tagliati”.
“Glielo dico sempre, io, alla sovrintendenza… qua ci vuole un guardiano notturno, altro che storie. Fortuna che non portano via mai niente”.
Sono le nove e il museo ha perso di nuovo il suo silenzio. Tra i tanti rumori che mi circondano quello che mi infastidisce di più è lo scatto isterico delle macchine fotografiche che mi inquadrano di nascosto. Sono uno dei quadri più fotografati, Il Boia, alto e imponente, con le mani strette sulla spada insanguinata.
Quello che mi stupisce è che con tanti turisti che mi fotografano, nessuno si sia ancora accorto del mucchio di teste nella cesta alle mie spalle. Che si alza, ogni volta, un pochino di più.

Brano corrente

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