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17 Novembre 2016 | Racconti d'autore

Siparietti radiofonici

Testo di Antonio Baldini tratto dal volume omonimo (Pesaro, Metauro Edizioni, 2014)

A cura di Vittorio Ferorelli, con la collaborazione di Pier Angelo Fontana

Giornalista e scrittore, Antonio Baldini aveva un senso delicato della misura e dell’ironia. Come traspare nella rubrica radiofonica notturna dei “Siparietti”, a cui collaborò tra il 1952 e il ’53 per il Secondo Programma della RAI. La Biblioteca comunale di Santarcangelo, dove ha origine la sua famiglia, è stata intitolata a lui e ne conserva le carte e i libri. Apriamo una di queste pagine lievi e leggiamo…

Ecco una notizia che a me pare data proprio su misura di Siparietto:

Lo scorso anno, in una casa colonica del comune di Marcianise, in provincia di Catanzaro, all’età di 81 anni moriva uno strano mendicante, a nome Giuseppe Capano, che viveva solo e lontano dal paese di nascita. Dopo la morte del Capano l’unica parente di lui, la nipote Giuseppina, prendeva possesso della casupola e delle poche masserizie che vi si trovavano.
L’altra mattina nel togliere alcune fascine di legna dal solaio, la Giuseppina rinveniva una cassettina di legno con entro la somma di lire 721.000 di cui 326.000 in biglietti di banca da mille e da cento fuori corso.
Nel fondo della cassettina la Capano rinveniva una catenina d’oro e un vecchio orologio d’argento, e una busta aperta, con dentro un foglio nel quale era scritto: “Lascio questi soldi a mia nipote Giuseppina perché è stata sempre buona come me e perché poi, il 24 ottobre 1943, mi portò in dono un fiasco di vino, proprio in quel periodo in cui non se ne poteva trovare”.

Capisco così bene il sentimento dello strano mendicante che quasi viene anche a me la voglia di ringraziarlo…
Tante volte che noi ci rifacciamo indietro sulla strada dei ricordi e alle relazioni intercorse fra noi e il nostro prossimo, e alle cose che più nel tempo ci hanno procurato un piacere o un dispiacere, spesso i ricordi che repentinamente tornano a sfavillare sono della natura e della forza di un fiasco di vino portatoci nel momento che più ne sentivamo bisogno. Il fatterello di Marcianise acquista così il valore quasi di una parabola.
Ecco che mi viene fatto di chiudere gli occhi frugando nella memoria per sapere a chi dovrei anch’io lasciare in eredità la mia cassetta con la sua catenina d’oro e il vecchio orologio d’argento.
Chi può essere mai stato – nel caso mio – quel tale che al momento giusto è venuto a trovarmi col fiasco che faceva effettivamente alla mia sete?
Letterato per vocazione e professione, c’è stato dunque un giorno della mia vita che qualcuno mi venne incontro, con la coscienza o meno di quello che faceva, a chiarire inaspettatamente a me stesso, con un gesto, con una parola, quelle che sarebbero state le ragioni della mia vita e gli indirizzi del mio lavoro?

Mi raccolgo un momento e guarda un po’ chi è che mi viene incontro! Guarda un po’ a chi mi toccherebbe lasciare monete fuori corso; orologio e catenina! Ironia del caso, mi toccherebbe lasciare il tutto a un pezzo grosso del mondo bancario, del quale precisamente non so più niente da tanti anni, ma di come era partito, cogli appoggi che aveva in banca e per la scrupolosa serietà che fin da ragazzo metteva in tutto quello che faceva, sarà certo arrivato a essere per lo meno direttore di banca, forse oggi prossimo ad andare in pensione. Ma non c’è dubbio che il mio orologio d’argento e la mia catenina d’oro e le mie cartacce fuori corso debbano essere rimesse integralmente nelle sue mani.
Si chiamava Attilio, era il mio compagno di scuola – ultima classe di ginnasio o prima di liceo – nell’età tra i calzoni corti e i calzoni lunghi: e tornando da scuola, eravamo soliti far la strada insieme, un giorno che passavamo – anche questo oggi mi piace ricordare – per via dell’Umiltà – rivedo ancora il punto – potrei segnarci una croce col gesso – Attilio prese a recitarmi una poesia di un poeta allora vivente che non era nel libro di scuola e che a lui era così piaciuta da mandarla a memoria; e ad un certo punto le parole di quella poesia pronunciate dal mio compagno con uno strano entusiasmo ebbero per me come un bagliore che illuminò una visione di piazza italiana del bellissimo tempo antico, lucente di marmi e di sole sotto un cielo beato d’azzurro.
Non avrei mai supposto che la piega e l’onda musicale di nove o dieci parole potesse creare un miracolo simile. Chiesi ad Attilio di ripetermele e il miracolo si ripeteva. Me le feci trascrivere sull’ultima pagina bianca del quaderno, e il miracolo si ripeteva ogni volta che le leggevo.

Il poeta che aveva saputo mettere in fila quelle parole fece di me – di colpo – una cosa tutta sua; e per molti anni ogni cosa bella di cui dovevo godere, ogni sentimento nuovo che mi arricchiva il cuore, mi parevano bellezze e ricchezze create da lui. Avevo trovato più che un maestro, più che un direttore spirituale, più che un padre, avevo trovato chi mi aveva dato una nuova vista degli occhi, una nuova vita dello spirito. Il nome del poeta che operò in me quel miracolo non ve lo dirò perché qualcuno di voi potrebbe pensare che sarei potuto cascare un po’ meglio e questo mortificherebbe in me la passione che ancora gli porto, da quel giorno tanto lontano che oggi saprei ricostruire se avessi ancora i pantaloni corti e di già quelli lunghi…
Attilio, mio buon Attilio, mio caro compagno divenuto almeno direttore di banca, e forse già in pensione, che non hai certo mai potuto supporre la trasformazione che operasti in me quella mattina per via dell’Umiltà, a te dunque spetta di diritto e la catenina d’oro dei miei giorni migliori e l’orologio d’argento, sia pure ammaccato, col vetro incrinato, e la molla allentata di tutto quel poco o niente di buono che letterariamente mi è avvenuto di pasticciare nel corso di questo quasi mezzo secolo.

Altri maestri io avevo avuto prima ed altri maestri ebbi più tardi, alcuni eccellenti e pieni di dottrina e di sacro entusiasmo, ma chi mi dice che se tu non mi fossi venuto incontro col tuo fiasco, proprio in quel momento, in via dell’Umiltà, né un’ora prima né un’ora dopo, in quel preciso momento che il mio spirito assetato era disposto a tutto aprirsi alla rivelazione di quel grande fatto che è la poesia, e per virtù – quel che più conta – di un poeta che in sé aveva accolto l’integra tradizione della più schietta e gloriosa italianità, chi mi dice che passato quel momento, io non avrei perduto per sempre l’occasione di chiarire a me stesso la mia vocazione? la ragione più profonda della mia esistenza?
Attilio, mio buon Attilio, dovunque tu sia – perché voglio credere che tu sia – ti giunga, così inatteso che certo ti farà corrugare le sopracciglie, il saluto affettuoso e riconoscente del tuo vecchio compagno di scuola.

 

[Il testo, conservato nell’Archivio “Antonio Baldini” di Santarcangelo di Romagna, è contenuto in 3 fogli dattiloscritti da 9 foglietti manoscritti su carta riciclata; è andato in onda sabato 19 luglio 1952 alle ore 23 sul Secondo Programma radiofonico della RAI]

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