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30 Aprile 2009 | Racconti d'autore

La storia attraverso il cinema

di Renzo Renzi. Da “Ma questa è un’altra storia. Voci, vicende e territori della cultura in Emilia-Romagna (1978-2008)”, Bononia University Press, IBC 2008.

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

30 aprile 2009


La rivista dell’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna (IBC) racconta da trent’anni un’esperienza unica in Italia. Un caso editoriale e una continuità di presenza che hanno influenzato il modo di affrontare la conoscenza del patrimonio storico, la salvaguardia del paesaggio, la promozione della lettura, la stessa attività di ricerca di chi opera ogni giorno sul territorio. Il volume che nel 2008, a cura di Valeria Cicala e Vittorio Ferorelli, ha raccolto una selezione di testi tratti dall’archivio di IBC, offre l’occasione di ricomporre, attraverso i frammenti delle singole voci recuperate, la storia culturale di una regione, dagli anni Settanta a oggi.
Aprendo il baule del passato ci si ritrova di fronte a parole non ancora ingiallite, a istantanee che ripropongono, in modo nitido, i fotogrammi di un’altra storia. Più sommessa, meno eclatante, in molti casi diversa da quella attuale. In certe costanti, invece, paradossalmente analoga. Nei contributi degli autori, degli studiosi e degli amministratori che hanno collaborato alla testata, si possono comprendere meglio le azioni più lungimiranti ma anche le occasioni perdute, distillando così, dagli alambicchi di ogni annata, una sorta di breviario. Un compendio che testimonia la capacità di un’istituzione pubblica nell’attrarre a sé  e nell’amalgamare le voci più impegnate nella difesa di un patrimonio comune. Questo testo di Renzo Renzi, scrittore, regista e critico cinematografico, è stato pubblicato nel n. 3-4/1987 della rivista “IBC Informazioni”.


La storia attraverso il cinema

di Renzo Renzi

Siccome oggi viviamo nel regno dell’ovvio e della ripetizione, per ottenere un po’ di successo cercherò di essere più ovvio e ripetitivo che mi sia possibile.
Parlerò di Fellini a Rimini.
Al termine vi dirò perché sono certo che Fellini non sa nuotare e perché il fatto può costituire un elemento, sia pure parziale, di prova della tesi che sto per sostenere.

Seguendo il metodo di uno storico come Marc Ferro e delle francesi “Annales” si può ripensare l’intera opera cinematografica di Federico Fellini come un grande ausilio alla definizione della specificità di Rimini, suo notorio luogo di origine e di formazione. L’opera di Fellini, infatti, a mio parere è in grado di rappresentare una sorta di grande avvicinamento al genius loci nei suoi svolgimenti penultimi, dagli anni Trenta ai primi anni Cinquanta. È una memoria del tutto attendibile sia per la qualità del risultato artistico, sia per il carattere parziale, involontario della sua proposta. (S’è detto altra volta che il “grande bugiardo” è sincerissimo quando si appresta a rappresentare le sue favole).
Come appare, dunque, Rimini nei film di Fellini, considerati nel loro complesso e tenendo conto che, anche quando l’autore sta parlando di altri luoghi, non c’è quasi un suo film in cui non sia presente il mare?

Il primo discorso esplicito fu quello de I vitelloni, nel quale emergono subito alcuni dati: la provincia, l’inverno, il mare vuoto e le frustrazioni di un gruppo di giovani, indotti a cercare, in modi diversi, l’evasione se non la fuga.
Era facile comprendere fin d’allora la condizione di una città che si chiude nel suo centro storico, identificato con il luogo dell’esistenza provinciale per nove mesi dell’anno, diventando una grande metropoli balneare estranea (ciò che Fellini rappresenterà poi nelle forme che vedremo) per i rimanenti tre mesi.
La specificità riminese, per questi anni, va quindi ritrovata nella divaricazione tra la città storica (o città dell’inverno) e la città balneare (o città dell’estate).
È una condizione – sia detto tra parentesi – diffusa nelle città di mare che non siano fornite di un grande porto, ma fondate sull’industria balneare. Dato il carattere macroscopico di quest’ultima condizione, Rimini, ingigantendo tutti i caratteri, diventa, in ogni caso, una città esemplare.

Fellini, in sostanza, ci parla specialmente del centro storico, provinciale e invernale, come di una dimensione, sia pure integrata, ma “sua” (vedi anche Amarcord), lasciandoci immaginare ciò che pensa della città del mare, così lontana, favolosa, paurosa. Del resto, se l’estate di Rimini è più estate che altrove, anche l’inverno è più inverno che altrove.
Questa maggiorazione è tale da mutare il segno di alcune cose. Qui infatti, l’estate è, per molti, il tempo del lavoro, mentre l’inverno, per gli stessi, è il tempo delle vacanze.

Ma se la fine dell’estate getta nel vuoto urbano molti centri balneari, qui essa lascia un residuo forte, poiché ripropone in maniera visibile la città antica, con una grande storia e una sua vita autonoma.
Esiste, comunque, una dicotomia palese fra la città antica e la nuova città balneare.
Entro questa dicotomia si muove la memoria di Fellini, che inventa una struggente commedia dei caratteri e delle figurine di terracotta nella città antica dell’inverno – e vagheggia una favola delle ombre nella città balneare, nel cosmopolitismo dell’estate, mai goduto, siccome Fellini non ha mai goduto il mare.

Il cosmopolitismo intravisto nell’estate genera, infatti, una buona parte dei fantasmi di Fellini, animali esotici visti tra l’ironia e l’incanto.
Sono i forestieri, i turisti in vacanza, presenza curiosa, anche ridicola come tutto ciò che travalica il nostro sguardo quotidiano; eppure misteriosa, capace di produrre un clima di estraneità meravigliosa, paragonabile a quella del circo, così come lo si frequentava negli anni infantili.

Il circo, del resto, in Italia, è uno spettacolo di tradizione padana, essendo le nostre grandi famiglie circensi tutta gente di queste parti: gli Orfei sono di origine ferrarese-bolognese; i Togni sono di origine mantovana-reggiana; lo stesso presidente dell’Unione italiana circhi è Palmiri, un riminese.
È perciò col circo che Fellini ritorna a colorare le sue figure: i clown del paese invernale, gli animali esotici della fauna cosmopolita (dovunque si trovi), il vago terrore di un minaccioso “altrove” (le bestie feroci) che infine tocca ogni cosa.
A questo punto bisogna dire che, oltre il circo, nell’opera di Fellini sta, infine (o in principio), il mare, come luogo che raduna in sé l’avventura temuta, il sogno impossibile, la minaccia estrema, la placenta materna, l’ultimo mistero.

Questo dato del mare e del suo senso – facilmente dimostrabile solo che si pensi al “mostro – giudizio di Dio” nel finale di La dolce vita; alla dissonante scoperta del sesso, tramite la Saraghina, sulla spiaggia di Otto e mezzo; agli “invasori” provenienti dal mare in Giulietta degli spiriti; al passaggio del “Rex” in Amarcord; al funerale sul mare di Erimo e all’estremo naufragio di E la nave va, eccetera – questo dato del mare, ripeto, è forse il più illuminante di tutti perché ci dice implicitamente che, se Fellini si avvicina con la sua opera al genius loci, ebbene questo carattere di fondo riminese non è marinaro, ma contadino.

È, infatti, il contadino dell’entroterra che vede il mare come il paesaggio impraticabile dal quale giungevano, fino all’Ottocento, le scorrerie dei pirati turcheschi, così suggerendo appunto le immagini di una dimensione del mistero e della minaccia.
Ma poi si pensò di tentare un approccio, sia pure restando bene ancorati alla terra.
Si avviarono attività, che potevano essere redditizie anche per i contadini poveri, in concomitanza con la scoperta ottocentesca della salubrità del mare e la nascita dei primi “stabilimenti”.

Per via di questa constatazione si giunge, così, alla conclusione che la grande industria balneare oggi esistente è stata messa in piedi, più che dai marinai, dai laboriosi contadini dell’entroterra, i quali hanno segnato con i loro caratteri un fenomeno che non ha l’eguale in Europa. Infatti, nessuna catena Hilton sta alla base di questa industria.
È piuttosto una miriade di operatori che ha costruito man mano i suoi edifici, ha ordinato i suoi tratti di spiaggia, si è associata per i servizi e le azioni promozionali comuni, con qualche guerra tra clan cittadini.

Questa miriade di operatori ha seguito modi e partizioni stagionali, appunto, contadine: la conduzione familiare; un certo primato delle donne arzdore (reggitrici della casa contadina); la gastronomia fondata sulla grande tradizione agricola, alla quale si sono aggiunte le risorse del mare assicurate dai pescatori; la stessa impostazione del lavoro scandita dalle stagioni (l’estate è il tempo del raccolto; l’autunno e l’inverno servono a seminare per la nuova estate e, nel caso, a inseminare la moglie, anche per aumentare il numero delle braccia: una crescita considerevole delle nascite è, infatti, in maggio-giugno); la cordialità e il gusto dei rapporti personali, da coltivare con affettuosa partecipazione d’interessi, eccetera. L’opera di Fellini, oggi, è la testimonianza, ben s’intende da questo solo punto di vista documentario e parziale, di un tempo nel quale la città antica, provinciale e dell’inverno, non si sente ancora protagonista del montante processo di singolare industrializzazione balneare.

Quindi le distanze, laceranti, tra la città antica e la nuova città del mare sono ancora considerevoli e comunque atte a sollecitare resistenze ataviche, giacché in quest’ultima città domina ancora un inaccessibile Grand Hotel, fatto per la borghesia ricca forestiera.
Il fenomeno balneare, infatti, non ha ancora raggiunto le proporzioni di massa dei tempi più recenti.
Ma una grande modificazione è in atto. Il processo di industrializzazione balneare oggi è compiuto, proponendo specialmente i problemi della sua durata.
In queste circostanze nasce anche il bisogno di saldare più fortemente la città antica alla città balneare, quasi che la prima sia in grado di garantire una forza istituzionale “storica” agli eventi di una stagione estiva che ha i caratteri dell’effimero.

È ovvio, quindi, che i problemi della città antica, un poco trascurati negli anni del grande sviluppo balneare, tornino a imporre la loro necessaria, ineludibile presenza. Non è un caso che essi si ripropongano anche attraverso la ricostruzione di un grande luogo di spettacolo, e la rivalutazione di una altrettanto grande zona archeologica, nel mezzo della città.

Il concorso di idee per il Teatro Galli e Piazza Malatesta si muove, dunque, nell’ambito di un ritorno alla città antica, oggi ormai imposto dalla consolidata e fruttuosa presenza della città balneare.
In tal modo si sta cercando di eliminare la drammatica antinomia che l’intera opera di Fellini aveva, fin qui, tanto straordinariamente espresso e denunciato, illustrando le condizioni di una città storica vissuta implicitamente da lui come un “luogo dell’esclusione”.

Fin qui giungeva il mio scritto: dal quale si poteva desumere che, se la testimonianza di Fellini ha origini contadine e se il nostro Federico ha sempre visto il mare in quel modo che sappiamo – luogo della minaccia e del mistero – si poteva bene desumere che egli non sapesse nuotare.

Ma occorreva una verifica: perché, se era vero che Fellini non sapeva nuotare, poteva essere attendibile anche l’ipotesi “contadina”.
Che fare, dunque? Chiederlo a Federico? Non c’era proprio da fidarsi, visto che non mi avrebbe risposto attraverso un film.
Così l’ho chiesto alla sorella, di cui ci si poteva fidare. E la sorella, molto divertita, ha confermato: né Federico né lei sanno nuotare.
Ma Tonino Guerra, che è tanta parte delle opere di Fellini, Tonino Guerra sa nuotare?

Prima che sia lui, se vuole, a rispondere, io ricorderò, come un sintomo, questi suoi bellissimi versi, che citerò – un poco rovinandoli – nella versione italiana, per non sbagliare la pronuncia del dialetto di Santarcangelo nel quale furono scritti.
Sono versi famosi e dicono:
Questo è un autunno
con le file dei pretini lungo la spiaggia
e il mare adesso è rimasto in fondo al viale
per quelli che stanno in città.

Brano corrente

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