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30 Maggio 2013 | Racconti d'autore

Teatro in viaggio. Lungo la rotta dei migranti

Racconto di Pietro Floridia, tratto dal libro omonimo (Bologna, Edizioni Nuova S1, 2011) – terza puntata

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

30 maggio 2013

Due mesi in fuoristrada, da Bologna al Senegal, attraversando Marocco, Mauritania e Sahara Occidentale, lungo le piste percorse da chi attraversa l’Africa per venire in Europa. Protagonisti: Pietro Floridia, regista e drammaturgo, e Gabriele Silva, scenografo e pilota factotum.

Floridia, cofondatore e codirettore artistico del Teatro dell’Argine di San Lazzaro di Sàvena, è l’autore del progetto teatrale “La Scena dell’Incontro”, che ogni anno porta sul palco decine di migranti e rifugiati politici.
Il libro da cui è tratto il racconto fa parte della collana “Il Girovago”, che quest’anno ha ricevuto il premio europeo “AMITIE” nell’ambito del Festival Human Rights Nights di Bologna.

Casablanca, 3 gennaio 2011

L’amore di nascosto

Said continua a raccontarmi. Mi dice: ho fatto tutti i lavori.
Il primo a dodici anni era dentro un hamam.
Sai cosa è un hamam? No, non lo so. Vuoi vederlo? Andiamo.
Ci spogliamo ed entriamo: non si vede quasi niente.
Il pavimento bollente emana vapore.
Le luci gialle sono molto basse. Uomini nudi sono sdraiati a terra.
Mi dice: si versano secchi d’acqua sul suolo di pietra, poi ci si sdraia e ci si lava. Il caldo dei pavimenti e delle pareti è ottenuto facendo bruciare tonnellate di legna.
Io ho incominciato come aiutante al camino. È il lavoro che nessuno vuole fare, perché si passano anche quattordici ore di fronte alle fiamme, trasportando legna con ottanta gradi attorno.
Poi, quando sei promosso, incominci a lavare le persone e a massaggiarle.
I poveri si lavano da soli ma i ricchi invece si fanno lavare.
Per fare questo il padrone non ti paga, ti dà uno stanzino dentro cui dormire.
Se dopo che hai lavato una persona, questa ti vuole lasciare qualcosa, ecco il tuo guadagno.
Ma qui non ci si può lavorare per troppo tempo.
Perché questo caldo succhia il sangue. Dopo un po’ non hai più forza.
E senza la forza ti va via anche il coraggio.
Io ci ho lavorato per due anni. Poi ho cambiato. Poi per due anni ho fatto l’aiuto muratore.
Poi ho fatto l’aiuto fornaio. Poi verso i diciotto anni, quando ero più forte ho fatto il facchino. Sempre lavori molto pesanti. Di giorno ne facevo uno e di notte un altro.
Così per la fatica sono crollato e mi hanno dovuto portare all’ospedale.
È stato all’ospedale che ho incontrato lei.

Veniva con la famiglia a trovare un parente ricoverato nella mia stessa stanza.
Un giorno mi chiese: ma perché a te non ti viene mai a trovare nessuno?
Perché non ho nessuno. Sono da solo qui a Casablanca.
E i tuoi? I miei sono lontani. Abitano nel sud. Nel deserto.
Non saprebbero neanche arrivarci qui al nord, nella città.
Il giorno dopo, durante la visita al parente, sulla porta, non vista mi fece cenno di uscire dalla stanza. Uscii.
Corridoio dopo corridoio arrivammo dove non c’era nessuno.
Lei davanti, io dietro, ad un metro di distanza. Non ci conoscevamo.
La guardavo camminare in punta di piedi. Non capivo.
Poi si girò e dal niente mi trovai tra le mani qualche banana, delle arance, dei datteri.
Per te, mi disse e scappò via.

Da quel giorno, lei arrivava sempre venti minuti prima della visita che tutta la famiglia faceva al parente ricoverato.
Io mi facevo trovare fuori dalla stanza.
E di nascosto mi dava qualche cosa da mangiare oppure i vestiti che mi aveva lavato a casa sua, ancora di nascosto.
Finché un giorno mi nascose tra le labbra anche un piccolo minuscolo bacio.
Lo tengo ancora qui sotto la pelle quel primo timido bacio.
Si fece tutta rossa, si coprì col velo il viso e ancora fuggì via.
Da lì, da quel bacio nascosto, incominciò il nostro amore nascosto.

Lei veniva da una famiglia agiata che mai avrebbe permesso una relazione con uno del deserto, uno spiantato come me.
Era per questo che dovevo riuscire. Era per lei che dovevo guadagnare.
Fare i soldi necessari per poterci comprare una casa.
Per poterla chiedere in moglie.

Solo che… solo che era semplicemente impossibile per uno come me che veniva dal sud, da una terra di pastori, che non aveva niente e nessuno ad aiutarlo.
Fu lei ad aiutarmi. Mi diede il denaro per prendere la patente.
Poi mi comprò una moto per incominciare un’attività di trasporto.
Se avevo un colloquio di lavoro mi comprava i vestiti per fare bella figura.
Lei credeva in me. L’unica nella vita a farlo, e così divenne l’intera mia vita.
Divenne padre madre fratelli. Divenne l’unica a sapere quel che mi si nascondeva dentro.

Così per prima seppe che volevo andare via.

In Europa? E noi? E il nostro amore? Per quanti anni noi non ci vedremo?
Tornerai che sarò brutta. O sposata con un altro.
Per quanto ancora potrò rifiutare, così senza dare spiegazioni tutti i pretendenti che la famiglia mi propone?
Oppure sarai tu a trovare un’altra donna, in occidente è così facile perdere la testa.

No, amore mio. Tu sei tutto per me. Tu mi hai aiutato quando non ero niente.
Tu sei tutta la mia vita. Io andrò e farò i soldi per noi due,
per potere a testa alta chiederti in moglie alla tua famiglia,
per tornare e sposarti.
Hai sempre creduto in me, credici ancora adesso.

E lei credette in me. Mi aiutò ancora. Chiese in prestito il denaro per potere pagare il passatore, 1500 euro.
Per il passaporto falso altri 1500. Poi insieme andammo a Rabat con altri contanti nascosti nel vestito per pagare i timbri falsi, 150 euro a timbro, 8 timbri, così che sembrasse che avessi fatto tante volte avanti e indietro dalla Spagna.
Quindi arrivò il Natale.
(Bisogna partire durante le feste perché è normale che i marocchini che lavorano in Europa a Natale ritornino con la macchina)
e insieme andammo fino a Tangeri.

Addio amore mio, tornerò. Sì lo so, ne sono certa.

Me la ricordo al porto. Che mi salutava con la mano.
Mentre con la macchina, col passaporto falso, con il passatore accanto, scomparivo nel traghetto per sbarcare dall’altro lato, per entrare nell’Europa.
Di nascosto.

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Casablanca, 4 gennaio 2011

In viaggio verso l’Europa

Said continua a raccontarmi:
Il mediatore guidava la macchina.
Mi disse stai calmo e sorridi.
Io non ero calmo.
Avevo debiti per 5000 euro.
Non potevo essere calmo ma strinsi il passaporto.
E pensai ai miei otto timbri.
E pensai a lei che mi diceva ci faremo una casa.
Così sorrisi.
E andò tutto bene.
Ero in Spagna.

L’accordo era che mi dovesse portare fino a Parigi.
Là avevo uno zio, lo zio francese, quello della bicicletta.
Là avrei avuto chi poteva aiutarmi.
Invece appena giunti su una strada secondaria
fermò la macchina e mi disse: scendi, il resto lo fai a piedi.
Provai a dire ma non erano questi i patti.
Mi disse meglio per te se scendi.
Avevo paura che fosse armato. Così scesi.

Era notte. Ero in Spagna.
Senza un soldo nelle tasche.
Senza sapere una parola che non fosse in marocchino.
Guardai il cielo.
Cercai di capire come non tornare verso il mare.
Parigi era verso nord est.
Verso di là dovevo indirizzarmi.
Verso di là mi misi in cammino.

Molte ore dopo, vidi le luci di un piccolo paese.
Ci andai. E fui fortunato.
Lì trovai altri marocchini.
Potevo comunicare con qualcuno.
Gli dissi cosa mi era successo.
Fecero una colletta e mi diedero 120 euro.
Il prezzo del biglietto della corriera per Parigi.
Salii. Le prime ore, a parte la fame, tutto bene.
Ma alla frontiera tra la Spagna e la Francia
fecero un controllo e mi arrestarono.
Cioè, non ero proprio in prigione. C’erano delle brande.
Mi fecero le foto. Mi fecero le impronte.
Erano gentili. Mi diedero anche una sigaretta.
Io non fumavo ma dissi sì grazie.
Avevo visto che chi fumava doveva andare fuori.
Fuori c’era una rete ma non era tanto alta.
Così andai fuori a fumare la mia prima sigaretta.
Intanto mi guardavo attorno.
Quanto alta era la rete. Dove erano le montagne.
Dove iniziava il bosco. Dove passava la strada.
Tornai dentro. Dissi grazie. E mi sdraiai sulla branda.
Poi un’ora dopo chiesi un’altra sigaretta.
Me la diedero. Gentili. Andai fuori.
Diedi un paio di tiri.
E feci qualche passo come per andare a pisciare.
Lentamente. Verso la rete.
Aspettavo una voce alle mie spalle.
La voce non arrivò. Io invece arrivai alla rete.
E così saltai di là.
E corsi.
Verso gli alberi. Verso il bosco. Verso le montagne.
Ora lo so che si chiamano Pirenei.
Allora sapevo soltanto che se arrivavo agli alberi era fatta.

Said ferma il racconto. Gocce di sudore sulla fronte.
Mi dice a voce più bassa: quello è stato il momento in cui ho avuto più paura.
Era buio. Tutto nero. Anche gli alberi erano neri.
Ma quello di cui avevo più paura erano i leoni.
Pensavo che ci fossero i leoni.
Nel buio c’erano rumori di bestie da ogni parte.
Avevo paura che mi mangiassero i leoni,
di finire mangiato là in mezzo alle montagne
che non trovassero più niente neanche i vestiti
e così che da lei, di me non tornasse più niente.

Così correvo, per la paura, correvo anche in salita
e cadevo, sono caduto molte volte, ma per la paura
poi mi rialzavo. Per due giorni ho camminato così
finché, per fortuna, ho incrociato una strada.
L’ho seguita, a distanza. E sono arrivato ad un’area di servizio.
Così mi sono potuto lavare. Perché ero tutto sporco.
Mi sono lavato in modo che le persone non scappassero a vedermi avvicinare.

Nell’area di servizio ho avuto fortuna un’altra volta.
Nell’area di servizio è arrivata una corriera
di marocchini di Casablanca che tornavano in Italia
dopo aver passato le vacanze di Natale a casa loro.
Così mi sono avvicinato e gli ho chiesto se mi potevano aiutare.
Loro hanno parlato per un po’. Un bel po’.
Quindi mi hanno detto: non ti deve vedere l’autista.
Mi hanno coperto. Mi hanno messo sul fondo della corriera.
E non hanno detto una parola.
Tra la Francia e l’Italia non ci furono controlli.
E così anziché a Parigi mi ritrovai a Milano.
Due mesi dopo ero a Bologna. Era il 2002.
Sono ancora lì. In Italia. Paese incontrato per caso.

 

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