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24 Aprile 2014 | Racconti d'autore

Il viaggio in Oriente

Testo di Attilio Brilli tratto dall’introduzione al volume omonimo (Bologna, il Mulino, 2009).

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

L’harem, il bagno turco, la sabbia del deserto: tra la fine del Settecento e l’inizio del secolo scorso il viaggio in Oriente aveva ancora il fascino dell’ignoto e del proibito. Lo storico della letteratura Attilio Brilli ne ha ricostruito le tappe e i protagonisti.

Riferita al mondo orientale, la parola viaggio si screzia in una pluralità di significati poiché, nell’arco di tempo che va dalla metà del Settecento alla conclusione dell’Ottocento, essa può indicare iniziative assai diverse fra loro per fini perseguiti e modi di svolgimento: l’esplorazione effettuata in terre incognite per motivi politici, economici, scientifici o per spirito d’avventura; la spedizione in siti di grande promessa archeologica, quella tassonomica condotta nei regni della natura, o quella antropologica sui costumi delle popolazioni stanziali e delle tribù nomadi; e altresì la sfida temeraria dell’ignoto o dell’interdetto, e infine la traslazione turistica più o meno codificata.
Il viaggio può per altro tradursi nello stimolo dei sensi e dell’immaginazione del viaggiatore, nella rigenerazione del corpo e dello spirito. Rigenerazione che spesso si consegue viaggiando verso orizzonti diversi da quelli consuetudinari, ma che in Oriente scaturisce da un’esigenza profonda che sfocia in un turbamento più protratto e intenso. Una volta a contatto con culture antiche, profondamente radicate e assolutamente aliene nei costumi e nel linguaggio, la stessa identità del viaggiatore occidentale può sperimentare un subdolo vacillamento, un momentaneo annebbiarsi dei suoi parametri razionali di riferimento, che si fanno tanto più incerti, quanto più si protrae l’immersione in quell’alterità ambientale e umana.

Oltre che in relazione agli scopi e all’epoca in cui viene effettuato, il senso e le caratteristiche del viaggio mutano a seconda della meta che il viaggiatore si propone, e naturalmente della sua cultura e della nazionalità. La diffusione sempre più estesa del viaggio in Oriente è comunque fuori discussione, se nel 1835 Alexander William Kinglake, ironico viaggiatore à la Sterne, lascia intendere che le mete levantine vanno già sostituendo, o quanto meno integrando con sempre maggiore frequenza, «i giri per l’Europa».
Per alcuni l’idea di fare del viaggio in Levante una vera e propria estensione del Grand Tour risalirebbe al viaggio orientale di John Montagu, quarto conte di Sandwich, del 1738-1739, anche se è più plausibile scorgere un concreto trampolino di lancio verso l’Oriente nella campagna napoleonica d’Egitto e nella relazione di viaggio del barone Dominique Vivant Denon apparsa nel 1802 e, almeno per i viaggiatori inglesi, nell’occupazione britannica di Malta nel 1815. D’altronde la disseminazione di rovine classiche ed ellenistiche nei paesi mediorientali stabilisce un nesso di continuità con questa consolidata pratica itineraria, schiudendo in pari tempo al viaggiatore nuovi orizzonti e civiltà sconosciute, almeno sino a quando il viaggio in Oriente si rivela come un’esperienza a sé stante e addirittura alternativa a quella del «giro» europeo.
Un dato è comunque certo: fin quasi alle soglie della moderna impresa turistica, il viaggio in Oriente viene percepito dagli occidentali come la scoperta di un universo sconosciuto e denso di mistero che, da un lato, si presenta sensuale, eccitante, foriero di lusinghe e di gratificazioni, ma dall’altro infido, ostile, efferato, crudele.

Questo genere di viaggio incorpora in sé anche l’anelito dell’uomo moderno verso le proprie origini, la ricerca della fase aurorale delle civiltà, la matrice genetica delle lingue, la culla delle religioni monoteiste. In tutti questi sensi, il viaggio in Oriente implica la violazione di un mondo chiuso, severamente proibito, interdetto agli occidentali dalle barriere culturali, religiose, linguistiche e dalla natura stessa dei luoghi, sia che ci si riferisca in grande scala ai deserti del Sinai e dell’Arabia – le chiazze bianche delle carte geografiche dell’epoca – e alle inviolabili città sante della religione musulmana; sia che, per converso, si pensi all’intrusione voyeuristica nel Serraglio di corte, o nell’harem della comune intimità domestica. La stessa ricognizione archeologica si traduce nella penetrazione di un mondo sepolto e nell’appropriazione di testimonianze grandiose che, nel loro caldo abbraccio, le sabbie del tempo sembravano aver consegnato per sempre all’oblio.
In un caso o nell’altro, si tratta di un genere di viaggio periglioso del quale è componente essenziale l’avventura, avventura individuale più che di gruppo. Sfidare l’alea del destino, nonché i divieti più rigorosi imposti dagli uomini, o i più ferrei tabù delle loro culture, e poi travestirsi, parlare lingue diverse da quella materna, dissimulare la propria identità, calarsi nei panni dei nativi, diventare per un certo periodo di tempo un’altra persona, e immedesimarsi in questa consustanziale alterità, tutto questo conferisce alla narrazione del viaggio in Oriente una straordinaria tensione immaginativa e al viaggiatore lo statuto dell’ultimo dei paladini erranti – dei crociati, avrebbero detto François-René de Chateaubriand e Benjamin Disraeli – o dei naufraghi della moderna civiltà occidentale fortunosamente approdati alle sponde del sogno.

Sogno di un mondo arcaico, regressivo, enigmatico, e proprio per questo più infido e pericoloso di ogni altro, eppure e in pari tempo più libero ed esaltante. Nel mare del deserto, John Lewis Burckhardt si sente come un novello Robinson Crusoe che, per sopravvivere in quell’insidiosa, abbacinante immensità, in quel continuo sommovimento delle dune, può contare solo sulla propria tenacia e sulle proprie risorse, e si identifica a tal punto con questo eroe romanzesco, da tradurne la storia in arabo per proporla a quel popolo amante più di ogni altro delle narrazioni, di storie d’amore, di nomadismo e d’avventura.
Anche per questo il grande esploratore e avventuriero Richard Francis Burton definisce il viaggio in Oriente il miglior modo per temprare il metallo della propria natura, e alla fine della narrazione del proprio pellegrinaggio a Medina e alla Mecca fa proprio l’epitaffio di un antico, ma non dimenticato «fratello viaggiatore», Fa-hian: «Mi sono esposto a pericoli d’ogni genere e ne sono scampato; ho attraversato i mari e non ho ceduto alle più tremende fatiche; e ho il cuore gonfio di emozioni e di gratitudine perché mi è stato concesso di raggiungere gli obiettivi che mi ero proposto». Ma Burton era uomo dell’Impero britannico, si dirà, un esploratore instancabile e un individuo colto e poliglotta che credeva ciecamente nella missione coloniale.

Altri percorrono l’Oriente con forse minore inquietudine e maggior agio e non di rado da comuni turisti, salvo poi lamentarsi e piangere e rimpiangere un Oriente perduto. Per questi ultimi, che sono spesso grandi scrittori e ottimi artisti francesi, l’Oriente è sinonimo di eccitazione sensuale, di seduzione e di stimolo dell’immaginazione. Costoro assaporano con avidità, annusano, toccano, palpano l’Oriente come se fosse un corpo caldo, pulsante, con il segreto sospetto, se non la consapevolezza, che sia ormai un corpo mercenario, e talora persino tarato dalla cancrena materiale e morale. D’altronde l’artista che trae stimolo dall’Oriente al rinnovamento di sé e della propria poetica, si chiami Gérard de Nerval o Gustave Flaubert, si muove nell’ambito di un sogno oltre che di un paese reale, cerca una fonte di ispirazione, un seducente repertorio di immagini, oltre che una frontiera da varcare o da violare, un platonico gineceo e un bordello coloniale.
Prendendo in considerazione molti di questi casi che sono in flagrante contraddizione fra loro, questo libro vuole dimostrare che il viaggio in Oriente ha sempre fatto leva sul sogno, un sogno che ha incantato per lungo tempo il mondo occidentale senza esclusione di paesi, di culture e di classi. E mentre, come è nella sua natura, il sogno ha a che fare con cascami e frammenti delle rimozioni diurne, il viaggio si qualifica come sottrazione ed esonero dalla quotidianità, come trasgressione delle barriere e dei tabù sessuali e come affermazione del senso di onnipotenza.
Il viaggio in Oriente si presenta quindi come un viaggio nel sogno? L’Oriente è in parte una proiezione onirica dell’Occidente e, come avviene nei sogni, questa creazione elabora in assoluta, disinibita libertà materiali concretamente reali ed esperienze effettivamente vissute. A guardar bene, non è forse questo lo statuto della letteratura di viaggio? Non è questo il privilegio di un genere ibrido, in grado di fornire osservazioni dirette e di prima mano, insieme alla proiezione delle proprie paure e dei propri fantasmi sugli altri e sui paesi degli altri?

[…]

Sovente la scrittura stessa si veste del rischio che avvolge il viaggio, ed è forse questo uno degli aspetti più affascinanti della narrazione. Coloro che, sotto mentite spoglie, si avventurano nelle sabbie dell’Arabia Deserta al seguito dei pellegrinaggi rituali sentono la necessità di annotare di momento in momento quello che stanno osservando. Sanno che le loro esperienze sono uniche e irripetibili, ma sanno altrettanto bene che farsi scoprire nell’atto di scrivere significa andare incontro a morte certa.
Burckhardt, Burton, Palgrave, Doughty e altri ancora hanno lasciato pagine memorabili sull’atto dello scrivere eludendo la vigilanza dei compagni di viaggio: ora in groppa al cammello tirandosi il cappuccio sulla testa come per proteggersi dal sole, ora fingendo di dormire per terra rannicchiati sotto la coperta, ora infine accovacciandosi alla maniera araba per un bisogno corporale e nascondendo foglio e penna sotto il mantello. Il viaggio in Oriente è anche, in molti sensi, un’avventura nella quale la pratica della scrittura sfodera tutte le sue più astute strategie. Ed è anche la dimostrazione palese che il viaggio è di per sé scrittura.
Fa parte del sogno anche il fatto che il viaggio in Oriente abbia sempre e comunque a che fare con un avvincente pretesto: letteralmente con il colloquio con uno o più testi che sono a vario titolo, e secondo una scala diversificata di valori, i testi sacri e profani di una consistente parte del sapere occidentale.  Come insegna Chateaubriand, viaggiare nella scarnificata Grecia ottomana portandosi in tasca Erodoto e Strabone significa riscattare la grama abulìa del presente sulla trama di un’identità culturale perduta. Ogni viaggio narrato diventa la bussola di un nuovo viaggiatore, come è il caso, per fare solo qualche esempio, di Lamartine che dota il proprio brigantino di una fornitissima biblioteca; dell’americano John Lloyd Stephens che approda ad Alessandria nel 1836 con una piccola raccolta di libri comprendente i testi di Volney, Byron, Chateaubriand, Belzoni, Pococke e Diodoro Siculo; o come Gérard de Nerval che qualche anno dopo integra le relazioni dei viaggiatori con le descrizioni storiche, politiche e sociologiche dei luoghi visitati.
Per tutto l’Ottocento, e con particolare enfasi in coincidenza del revival spiritualistico della seconda metà del secolo, la Bibbia viene assunta come guida della Palestina e come vademecum del lungo, arduo viaggio attraverso il Sinai inaugurato dal popolo d’Israele alla ricerca della terra promessa. Né d’altronde potrebbe esistere la più vaga idea dell’Oriente arabo, né stimolo alla sua esplorazione, senza gli scenari delle Mille e una notte e del loro fantasmagorico mondo. Stupisce soltanto gli ingenui che, per illustrare i costumi amatori degli orientali, viaggiatori che hanno soggiornato a lungo in Oriente convivendo con i nativi e facendo propri i loro costumi, come Richard Francis Burton o Edward William Lane, siano ricorsi ai racconti di Sheherazade, alla letteratura prima ancora che alla realtà vissuta. Ma non accade sempre così?
Il viaggio in Oriente, il metaviaggio che comprende i più ardimentosi viaggi settecenteschi e ottocenteschi, fa parte di quel grande oceano che si chiama letteratura di viaggio, un genere narrativo che impone a chi lo pratica il sapersi orientare sugli appigli che altri hanno fissato per lui e il saper raccogliere il filo che altri hanno lasciato cadere per l’ignoto viandante. Una pratica che diventa una necessità effettiva quando ci si avventura negli ultimi reami dell’ignoto, nelle zone vuote delle mappe, lungo i fiumi senza sorgente, nei mari senza portolani e nelle terre vergini dell’immaginazione.

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