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2 Novembre 2010 | Archivio / Lo sguardo altrove, storie di emigrazione

Terra di libertà

Breve storia degli anarchici della nostra regione (terza puntata)

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

2 novembre 2010

Storie d’anarchia. Vi stiamo raccontando da due puntate – e questa è la terza, cari ascoltatori – le imprese di uomini coraggiosi, animati da forti ideali ai quali hanno sacrificato l’intera esistenza, trascorsa spesso all’estero nell’esilio e nella povertà, nella solitudine e nella sofferenza.
Reggiano ed emigrato era anche Felice Vezzani (1855-1930), di professione pittore. Passato dal socialismo all’anarchia, approda in Brasile nel 1893, dove è arrestato e incarcerato più volte, e quindi espulso in Argentina nel ’95. Tornato in Italia, a Bologna riprende a fare L’Agitatore, titolo anche del giornale cui collabora in Svizzera, dove ripara prima di raggiungere Parigi, alla fine del 1899. Nella Ville Lumière diventa il capo degli anarchici emigrati. Tra il 1918 e il ’22 si sposta in continuazione tra Parigi, Bologna e Novellara (Reggio Emilia) dove c’è la casa di famiglia. Rientra infine a Parigi per essere di nuovo, nonostante l’età, il punto di riferimento degli esuli italiani.

Alla generazione di Vezzani appartiene una delle poche donne del movimento libertario, la ravennate Luigia Minguzzi (1852-1911), moglie dell’anarchico Francesco Pezzi. Esiliati in Svizzera dopo i tumulti del 1874, i due frequentarono a Lugano i padri dell’anarchia, Bakunin, Cafiero, Malatesta, Andrea Costa e Anna Kuliscioff (che si conobbero in casa loro) e Pietro Gori, l’autore della celebre canzone Addio Lugano bella. Con il marito, la Gigia – così era chiamata – seguì Errico Malatesta nell’esilio argentino, partecipando alla nascita del giornale libertario La Questione Sociale e dedicandosi all’organizzazione del movimento anarchico in America Latina.

Un discorso a parte meriterebbe Leda Rafanelli (1880-1971), che della Gigia fu amica. La Rafanelli era toscana ma due motivi la legano alla nostra regione: l’ampia documentazione della sua vita conservata presso l’Archivio Berneri – Chessa della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, e il corteggiamento ricevuto dal socialista (quando era tale) romagnolo Benito Mussolini. Figura molto particolare di scrittrice e anarchica un po’ snob, Leda Rafanelli è considerata una “futurista di sinistra”, non solo per la relazione che ebbe col pittore Carlo Carrà. Un viaggio in Egitto le fece conoscere l’islam nella versione sufi, che cercò di conciliare con l’anarchia. Femminista ante litteram, le piaceva esibire un look zingaro fatto di collane, anelloni, braccialetti. Scrisse moltissimo, utilizzando l’esotismo in funzione anticolonialista. Quando era in difficoltà economiche, sopravviveva facendo la cartomante e insegnando l’arabo.  

Queste e altre storie stanno nel variegato catalogo dell’anarchia emiliano-romagnola. Dove si trovano personaggi come Achille Pini (1860-1903), l’ennesimo reggiano “testa quadra” che – al pari di Orsini Bertani – teorizzava l’esproprio come pratica rivoluzionaria, e quindi condusse una vita da rapinatore leggendario, soprattutto in Francia, che si concluse con la deportazione e la morte alla Cajenna. Pini fu studiato da Cesare Lombroso che lo classificò come tipico esemplare di criminale nato. Con il ricavato delle rapine finanziava pubblicazioni che incitavano alla rivolta violenta.

All’opposto di Pini, c’era l’idealismo del veterinario pisano Giovanni Rossi, che nel 1890 partì per il Brasile per fondare una comunità basata sui principi anarchici. L’esperimento della Colonia Cecilia ebbe luogo nei pressi della piccola città di Palmeiras, nel Paraná. Qui Rossi, accompagnato da altri otto visionari, che nel periodo di maggior espansione della colonia arrivarono a 150, cercò di realizzare la sua utopia, il sogno di una comunità libera. Tra questi, anche i nonni materni di Zélia Gattai, la compagna dello scrittore brasiliano Jorge Amado. I pionieri italiani lavoravano la terra, costruivano pozzi e aprivano strade. Ma la vita comunitaria presentò presto problemi insormontabili, come la condivisione delle donne e la gelosia dei mariti. Tra le fonti di litigio continuo – racconta Rossi – c’era la presenza, nel gruppo di coloni provenienti da Parma, di “una ragazzina precoce che si era messa a fare la civetta con tutti gli uomini”. I celibi non potevano resistere, avendo vissuto alcuni anni senza toccare le donne, perché le poche presenti preferivano stare con i mariti. Sul libero amore (ma non solo) naufragò nel 1894 l’esperimento della prima comune anarchica nel mondo.

Gli anarchici hanno avuto vite avventurose e dolorose, percorse da un’illusione necessaria, da un’idea esagerata di libertà. “Gli anarchici sono come i nomadi, non seguono una strada ma la loro strada”, scriveva Leda Rafanelli. E oggi cosa resta? Forse, la leopardiana siepe di ginestre da opporre alla “ondata nera e puzzolente che ci porta il riflusso di Hiroshima”. Nelle poesie raccolte in Propinqua Libertas, Luce Fabbri si rivede nella fragilità del coleottero, rovesciato su una foglia gialla mentre aspetta la scarpa che lo schiaccia. Ma nel buio del pessimismo cosmico, nel nulla riempito di satelliti in cui vaga il pastore errante dell’Asia, gli anarchici vedono una luce. La luce della lanterna che “servirà / per rischiarare la notte a qualche pellegrino / che, ritardatario, bussa alla tua porta”.

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