Salta al contenuto principale
2 Novembre 2011 | Archivio / Lo sguardo altrove, storie di emigrazione

Dawson, la tragedia della miniera

Vittime modenesi in un’esplosione di quasi cent’anni fa.

A cura di Walter Bellisi e Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

1 novembre 2011

Dawson, nello Stato americano del New Mexico, detiene il triste primato del numero più alto di lavoratori morti in disgrazie minerarie in tutta la storia dell’emigrazione italiana. Il 22 ottobre 1913, il gas esplose allo Stag Canyon numero 2. Fra le 263 vittime, 140 erano italiane e, di queste, 38 avevano lasciato l’Appennino modenese per cercare un poco di fortuna in quel lontano Stato: 17 erano di Fiumalbo, 15 di Monfestino di Serramazzoni, tre di Pievepelago, due di Riolunato e una di Fanano.
Dieci anni dopo, l’8 febbraio 1923, nel campo numero 1 si consumò un’altra tragedia: i morti furono 123, una ventina gli italiani. Fra questi, i modenesi Pacifico Santi di Fiumalbo, 31 anni, già scampato alla disgrazia del 1913, e Luigi Cassai nato a Pievepelago nel 1896.
Ma fin dal 1902, in quelle profonde gallerie, ogni anno si contavano i morti. Tra le cause, il soffocamento per il fumo procurato dal fuoco e il distacco di blocchi di roccia o di carbone.
Quella di Dawson è una dolorosa pagina di storia della nostra emigrazione ancora quasi sconosciuta in Italia. 

La disgrazia del 1913
La disgrazia più grave si consumò il 22 ottobre 1913, alle 3 del pomeriggio, quando allo Stag Canyon numero 2 esplose il gas nelle gallerie. La terra tremò violentemente. All’esterno si udì un sordo boato, mentre dalla bocca del pozzo si sprigionarono lingue di fuoco altissime. Scattarono i soccorsi. Gli aiuti giunsero anche da località lontane, ma la morte aveva ormai avuto partita vinta.
«In quel momento – disse qualcuno – non c’era necessità di molte cose se non di casse da morto».
Le inchieste avviate dal Ministero degli esteri italiano e dall’Ispettorato statale americano accertarono che un minatore rimasto sconosciuto aveva, contro i regolamenti della compagnia, fatto brillare una mina durante l’orario di lavoro, mentre era prescritto che tali esplosioni dovessero avvenire ogni sera dopo l’uscita di tutti gli operai dalla miniera.
Il rappresentante del Ministero degli esteri italiano a Denver raggiunse subito il luogo della disgrazia. Lo accompagnavano il suo vice e i direttore dell’ufficio legale del Consolato.
La notizia della tragedia di Dawson arrivò celermente sull’Appennino modenese. Alle ore 9,20 del 29 ottobre, da Fiumalbo partì un telegramma diretto al ministero degli Affari esteri: «Notizie indirette giunte disastro minerario Dawson portano morti diciassette operai questo comune. Famiglie angosciate chiedono mio mezzo conoscere nomi periti».
Il 31 ottobre il Commissariato generale emigrazione rispose: «Confermo mio telegramma ieri circa undici vittime disastro Dawson appartenenti a codesto comune. Console Denver posteriormente telegrafato altri nomi ma nessuno di Fiumalbo». I morti originari di Fiumalbo risultarono poi essere effettivamente 17.
Anche sull’Appennino in tanti si adoperarono per aiutare le famiglie delle vittime. Fra queste la Congregazione di Carità di Fiumalbo, presieduta dal parroco don Luigi Santi. Il periodico del luogo, Eco del Panaro, si assunse l’impegno di ricevere le offerte.
Le vittime furono ricordate pubblicamente in tutti i comuni di provenienza. Il 30 novembre il Consiglio provinciale rese, non senza retorica, il “dovuto omaggio di ammirazione e di rimpianto ai valorosi operai che sono caduti da forti mentre lavoravano impavidi, per la famiglia e la Patria, nelle miniere della lontana America […]. I loro nomi rifulgeranno nella storia del nostro risorgimento economico quali pietre miliari, ammonitrici del compito che incombe alla nuova Italia, di sconsigliare al proletariato l’emigrazione transoceanica, che asconde, sotto il miraggio della fortuna, pericoli, insidie e patimenti, assicurando ad esso, all’ombra del vessillo Nazionale e sotto l’egida della libertà, lavoro protetto e remuneratore”. 

Dieci anni dopo, altri 123 morti
L’altra disgrazia grave a Dawson si verificò l’8 dicembre 1923, alle 14,30 di quello che sembrava un normale giovedì di lavoro. Nel pozzo numero 1 si verificò all’improvviso un’esplosione, alla quale seguì un incendio: morirono 123 minatori; due uscirono miracolosamente vivi. I soccorsi arrivarono immediati; importante risultò l’opera della Croce Rossa e del  Welfare Department.
Ma il buio della notte calò in fretta. Mogli, figli, amici erano ancora davanti ai cancelli della miniera in attesa di avere notizie dei loro cari rimasti intrappolati nel sottosuolo. L’ora era tarda e furono invitati a tornare a casa. Le ricerche di eventuali superstiti continuarono nonostante le difficoltà di accedere alla miniera ostruita, in più punti, da massi che si erano staccati a seguito dell’esplosione. Quando arrivò la luce del giorno, i corpi senza vita recuperati erano sei.
Alle 9,30 del venerdì mattina, con passo lento, i volti stanchi e impauriti, due uomini uscirono dalla miniera soli, senza assistenza. Scamparono alla morte perché non colpiti direttamente dalla terrificante forza dell’esplosione. Quel mattino fu fatta la conta delle vittime. Al momento dell’esplosione, nella miniera lavoravano 140 minatori, 15 erano usciti durante la giornata e due si erano salvati: 123 fu il tragico risultato. Le salme furono recuperate nei giorni seguenti, ma non tutte identificate.

Era considerata una miniera modello
La miniera di Dawson, la più vasta del New Messico, era considerata un modello e molto sicura, perché dotata di attrezzature all’avanguardia. Il 40 per cento dei minatori che vi lavoravano proveniva dall’Italia, ma c’erano anche greci, slavi, francesi, gallesi, scozzesi, messicani, tedeschi, polacchi, svedesi, finlandesi, giapponesi, cinesi e statunitensi.
La miniera era sfruttata dalla Stag Canyon Fuel Company. Il prodotto estratto, molto volatile e bituminoso, aveva ottime proprietà sia per uso domestico sia nelle fonderie del rame e per la costruzione di binari delle ferrovie. Dal 1899, quando fu aperta, fino al 28 aprile 1950, quando uscì l’ultimo carico di carbone dal pozzo numero 6, l’unico dei cinque esistenti rimasto in attività a quella data, produsse 33 milioni di tonnellate di carbone vendibili.
Il 28 aprile 1950 vi lavoravano ancora 138 minatori: alcuni erano italiani. Il 6 giugno 1950, Phelps Dodge vendette quei terreni al National Iron & Metal Co. di Pheonix (Arizona) che a sua volta li alienò ad altri. Sul giornale Roton Range apparve il seguente annuncio firmato dalla National Iron and Metals Company: «Dawson è completamente smantellata. Non è rimasto nulla da vendere».  

Una “ghost town”
Oggi Dawson è una Ghost Town, una città fantasma. Si trova sulle montagne di Colfax. Il cimitero è la sola parte di quel paesone ancora aperta al pubblico. Si trova ai piedi di una collina. Una parte del verde prato è disseminato da 386 croci di metallo bianche definite da Thomas Gray «sentinelle silenziose che resteranno per sempre di guardia alla montagna del dolore». In alcune sono incisi i nomi dei defunti, altre sono anonime. Vi riposano i lavoratori morti nella miniera.
Questo spicchio di terra torna a vivere negli anni pari con il tradizionale picnic. Prima di entrare a far parte delle ghost towns degli States (numerose nel Nuovo Messico), Dawson era stata molto fiorente e attiva. Aveva scuole, un teatro per l’opera, un ospedale, un hotel, una palestra, un campo da bocce e, fino al 1917, una sola chiesa utilizzata per tutte le dottrine religiose. Quell’anno ne fu costruita una seconda, cattolica, dedicata a San Giovanni Battista. Nel febbraio del 1950 contava 1250 residenti.

La morte in miniera
Moltissime disgrazie minerarie si sono verificate negli Stati Uniti e in Europa nel secolo scorso, con molte vittime tra i nostri emigrati. Negli States, gli episodi più gravi sono accaduti nel 1900 a Scofield (Utah) con 200 morti, nel 1907 a Monongah (West Virginia) con 362 morti, nel 1909 a Cherry (Illinois) con 259 (44 gli emiliani), nel 1913 a Dawson (New Messico) con 263 vittime (140 quelle italiane) e ancora Dawson, nel 1923, con 123 morti. In Europa, la più grave è stata quella di Marcinelle (Belgio) avvenuta l’8 agosto 1956: 262 i morti, 136 gli italiani.

Brano corrente

Brano corrente

Playlist

Programmi