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28 Gennaio 2014 | Archivio / Lo sguardo altrove, storie di emigrazione

I geni dell’antifascismo

Due associazioni parigine e una belga hanno organizzato a Reggio Emilia una mostra con il sostegno della Consulta

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

28 gennaio 2014

Cari ascoltatori, molto è già stato fatto in termini di ricerca storica sulla Resistenza nei paesi di emigrazione, ma è ancora sottovalutato il ruolo che hanno avuto i migranti nel periodo tra le due guerre mondiali, fondamentale per la democrazia moderna. E’ questa lacuna che il progetto “Partigiani e Resistenti: i geni dell’antifascismo” intende colmare. Si tratta di un progetto finanziato dalla Consulta degli emiliano-romagnoli nel mondo, che ha coinvolto le associazioni Fratellanza Reggiana di Parigi, Emilia-Romagna di Parigi e Emilia-Romagna di Liegi, nonché il Laboratorio di storia delle migrazioni dell’Università di Modena e Reggio Emilia, l’ANPI di Parigi e le associazioni Jardins Numériques di Parigi e Leonardo Da Vinci di Liegi. Il progetto è sfociato in una mostra inaugurata il 25 gennaio scorso all’Atelier di Bligny di Reggio Emilia, e che poi sarà ospitata in Francia, ad Argenteuil e a Parigi in febbraio-marzo, e quindi in Belgio, a Liegi, in aprile.

L’esposizione raccoglie testimonianze audio, video e fotografiche di partigiani e resistenti che hanno ruotato intorno all’associazione Fratellanza Reggiana di Argenteuil in Francia e nella zona di Liegi/Genk in Belgio.

“La ricerca – spiega Patrizia Molteni, presidente dell’associazione Emilia-Romagna di Parigi – si è concentrata su persone che hanno vissuto in prima linea o in retroguardia la Resistenza all’estero e sui discendenti, figli e nipoti, per capire quale eredità intellettuale ed etica è stata lasciata alle generazioni seguenti. Oltre ad essere italiano di seconda o terza generazione, il fatto di aver avuto un genitore, un nonno, una nonna antifascisti ha lasciato tracce nel nostro modo di concepire la società? Se in Francia tale eredità è prevalentemente etica e politica (la trasmissione della lingua e delle tradizioni italiane per molti discendenti sono una “ricostruzione” successiva), in Belgio è piuttosto il contrario, una sorta di tacita trasmissione di valori che è stata veicolata dall’italianità: figli e nipoti parlano perfettamente italiano e partecipano alla vita della comunità, pur sapendo molto poco di un periodo che i protagonisti hanno voluto dimenticare”.

In tutto sono state intervistate 20 persone, equamente divise tra la Francia e il Belgio, decine di ore di registrazione riunite in una ventina di “ritratti”, anche incrociati, dalla regista Chiara Zappalà e qualche centinaio di fotografie di Veronica Mecchia, di cui una quarantina solo stampate per questa prima mostra. Le interviste, concordate con il comitato scientifico diretto da Antonio Canovi, sono state condotte in loco dalle presidenti delle associazioni emiliano-romagnole (Simone Iemmi Cheneau, di Fratellanza Reggiana, che fa parte anche dei testimoni, e Patrizia Molteni, del’Associazione Emilia-Romagna) e da  un giovane storico, Valerio Timperi, vice-presidente dell’ANPI di Parigi.

“Da subito – chiarisce Patrizia Molteni – si è sentita l’esigenza di privilegiare i racconti legandoli alle immagini. In questo sia Veronica Mecchia sia Chiara Zappalà si sono rivelate attente alla persona che avevano di fronte. Le foto, fatte in analogico (e non in digitale) non sono mai primissimi piani e sono stampate in formato volutamente ridotto perché lo spettatore si avvicini alla foto e quindi alla persona e alla storia che ha in sé. Veronica coglie i personaggi mentre parlano, mentre mostrano delle foto, mentre guardano o indicano un luogo, in altre parole fissa in un’immagine, ferma il racconto, i gesti e le espressioni di quel racconto. Chi conosce i testimoni, vede che le foto sono autentiche e sincere. Lo stesso si può dire di Chiara Zappalà, che ha filmato spesso a camera fissa ma tenendo conto dei cambiamenti della luce (bellissima in questo senso l’intervista a Gaby Crouin Simonazzi), dei momenti di tristezza, a volte di pianto, e di quelli di orgoglio. Immagini chiare e nette che al montaggio la regista fa dialogare tra di loro (Ines e Gaby unite da Rino della Negra, uno dei 23 fucilati della tristemente nota Affiche Rouge; Mirella Ugolini e Giuliana Castellani intorno a Gina Pifferi, grande resistente reggiana, e alla Fratellanza di Argenteuil).

La lettura storica, che incrocerà i racconti con gli eventi, è ancora da fare proprio perché quello che interessava maggiormente è il divenire del racconto e della memoria, poco importa se luoghi e date o pezzi interi della storia sono riveduti e corretti a posteriori, quello che conta è il racconto, il suo valore “parabolico”, di messaggio etico e morale.

Anche i luoghi sono stati accuratamente scelti per restituire quello sguardo spaziale (oltre che temporale) della memoria partigiana migrante: gli interni ed esterni delle case, alcuni dei quali identici a quelli che si erano lasciati alle spalle in Italia, come l’atelier del padre di Simone Iemmi. E  anche i luoghi di ritrovo come la sede dei garibaldini a Parigi, a pochi metri da dove abitava Gina Pifferi, i quartieri come Mazagran a Argenteuil o luoghi simbolici: i “terril” in Belgio, delle specie di montagne create dalle miniere in cui lavoravano gli italiani, visibili nelle panoramiche filmate da Chiara Zappalà, la stazione di transito di Drancy, da cui partivano i deportati verso la Germania.

Una mostra da non perdere, da vedere all’Atelier Bligny di Reggio Emilia, in via Bligny 52, nell’area delle vecchie Officine Reggiane.

Brano corrente

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