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29 Gennaio 2013 | Archivio / Lo sguardo altrove, storie di emigrazione

Il Tibet di Agostino Giorgi

Il monaco romagnolo ha scritto il libro più importante del Settecento sul misterioso Paese delle Nevi

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri

29 gennaio 2013

Che cosa spinse un frate romagnolo del Settecento a scrivere un trattato sul Tibet senza esserci mai stato? E’ una vicenda che avrebbe potuto romanzare Dan Brown, l’autore de Il codice da Vinci, quella di Padre Agostino Antonio Giorgi, un intellettuale del secolo dei Lumi protettore di Giacomo Casanova e citato da Immanuel Kant.

Nato nel 1711 da una famiglia abbastanza agiata di San Mauro, il paese che avrebbe dato i natali a Giovanni Pascoli, Francesco Maria Giorgi, rimasto orfano di padre, entrò a quindici anni nell’ordine degli agostiniani prendendo il nome di Agostino Antonio. Vestì l’abito monacale a Bologna nella chiesa di San Giacomo Maggiore nel 1727 e fu consacrato sacerdote dall’arcivescovo di Bologna, il cardinale Prospero Lambertini, che ne aveva compreso le capacità intellettuali. Giorgi brillava, infatti, negli studi di teologia e lingue antiche, conclusi a Roma nel 1738.

Divenuto papa nel 1740 con il nome di Benedetto XIV, Lambertini volle accanto a sé il giovane monaco romagnolo, cui affidò come primo incarico quello di scrivere una difesa dell’opera del cardinale Enrico Noris sul concetto di grazia in Sant’Agostino, messa all’Indice dall’Inquisizione spagnola. Nel 1746 il pontefice affidò a Giorgi la cattedra di sacre scritture alla Sapienza di Roma e nel 1752 lo nominò direttore della Biblioteca Angelica, la prima biblioteca europea aperta al pubblico, in cui erano custoditi anche i testi proibiti.  
Con il trasferimento definitivo a Roma, padre Giorgi aveva acquisito fama come consultore del Sant’Uffizio, studioso di lingue orientali (pare ne conoscesse undici) e avversario dei gesuiti. Il dotto frate era “una sorta di bonario Machiavelli in abiti monastici”: così lo descrive Chiara Bellini nel suo “Svelare il Paese delle Nevi commentando L’Alphabetum Tibetanum di Agostino Antonio Giorgi” (Pazzini, 2011), e tale dovette apparire a Giacomo Casanova, che nella Storia della mia vita racconta di averlo conosciuto nel 1743. Il veneziano trascorse con Giorgi quasi ogni serata del suo primo soggiorno romano: aveva solo diciotto anni e già fama di libertino. Dall’“esimio consigliere” romagnolo ricevette consigli, protezione e affetto. “In casa sua – annotò Casanova – si criticava, ma senza maldicenza, e si discorreva di politica e di letteratura, e io mi istruivo”.    

L’anno di nascita di Giorgi, il 1711, coincise con l’ultimo fallito tentativo di stabilire una missione cattolica in Tibet. Da sempre il Tetto del Mondo attirava mercanti e missionari. Il primo ad avventurarsi in Asia lungo le steppe mongole fu un missionario francescano, Giovanni da Pian del Carpine, che partì da Lione nel 1245 per incontrare su ordine del papa il Khan mongolo, nipote di Gengis. Fu lui ad aprire la strada a Marco Polo e a tutte le successive spedizioni di mercanti e missionari, animati – questi ultimi – dalla volontà di convertire al cristianesimo le popolazioni orientali. Ma la strada per Lhasa, la misteriosa capitale del Tibet, era molto impervia, nonostante il Paese delle Nevi nel Settecento fosse già meta di mercanti indiani, kashmiri e, soprattutto, armeni. Furono proprio i mercanti armeni a fare da interpreti e a organizzare dietro lauto compenso il viaggio fallito dei primi cappuccini a Lhasa, sostenuto da Propaganda Fide, il dicastero vaticano per l’evangelizzazione dei popoli. Propaganda Fide era convinta – o almeno così le facevano credere gli armeni, ferventi cristiani – che sulla vetta del mondo, nascoste da qualche parte, si trovassero le antiche comunità cristiane nestoriane (la religione praticata nella mitica Shangri-La dello scrittore James Hilton) che Marco Polo aveva incontrato in Cina. 

Nel 1716 il gesuita Ippolito Desideri portò a termine la prima missione in Tibet. Desideri fu anche il primo missionario a rivelare all’Occidente la vera anima tibetana, che si sforzò di comprendere studiando i testi sacri buddhisti con l’aiuto di alcuni lama. Era convinto che per evangelizzare i tibetani occorresse sfidare le loro autorità religiose sul piano dottrinale. La strategia dei gesuiti era però malvista dalla Chiesa di Roma, gelosa dei loro successi internazionali. Nel 1721 Desideri fu richiamato a Roma e la sua missione chiusa. Il Tibet fu consegnato ai cappuccini, arrivati nel Paese pochi mesi dopo il padre gesuita con la missione organizzata da Domenico da Fano e poi affidata al più giovane Orazio da Pennabilli, che nel 1715 aveva fondato una missione in Nepal. Per quanto preparato, Orazio ottenne poche conversioni, non essendo riuscito a diventare – a differenza del gesuita Desideri – un interlocutore credibile per i tibetani. Oppresso dalla solitudine, dalla miseria e dall’insuccesso, lasciò Lhasa nel 1732.
Un nuovo progetto missionario fu approntato nel 1738, sempre con a capo frate Orazio, che tornò in Tibet con otto confratelli, tra i quali Cassiano da Macerata, e due laici. Questa volta le conversioni furono una ventina, ma quando i convertiti rifiutarono di ricevere la benedizione annuale del Dalai Lama, il clero buddhista e lo stesso sovrano, fino a quel momento curiosi e tolleranti verso la piccola comunità cattolica, vietarono il proselitismo. Nel 1745 i cappuccini abbandonarono il Tibet. Nel Jokhan, il tempio principale di Lhasa, è custodita ancora oggi la campana della missione.

Alphabetum Tibetanum, l’opera più importante di Agostino Giorgi, pubblicata in due edizioni, nel 1759 e nel 1762, ha come fonti principali il Giornale di Cassiano da Macerata e le relazioni di Orazio da Pennabilli. Quando arrivò a Roma con l’incarico di formare i nuovi missionari, Cassiano collaborò direttamente con Giorgi alla stesura del libro. Veniamo ora alla domanda iniziale: perché tanto interesse per il Tibet da parte della gerarchia cattolica di cui Giorgi era parte? Apprezzato dai maggiori intellettuali dell’epoca, come l’archeologo tedesco Johann Winckelmann e il filosofo Immanuel Kant, che considerava Giorgi il maggior esperto di cultura tibetana, l’Alphabetum quale utilità pratica poteva avere, dal momento che missioni in Tibet non se ne facevano più, dopo il fallimento del 1745?

Pur prive di fondamento scientifico, anche se ricche di felici intuizioni, le teorie di Giorgi miravano a confutare l’idea, che si stava facendo strada in alcuni circoli intellettuali europei, che il cristianesimo fosse un plagio della più antica religione buddhista. I tibetani, osserva Giorgi, non si fanno convertire perché pensano: per quale motivo dovremmo credere alle opere di Cristo, quando molte di esse sono simili a quelle del nostro Buddha, vissuto secoli prima? Giorgi propone, allora, la teoria dei due Buddha: il Buddha “vecchio” e il Buddha “nuovo”, che i tibetani confondono in un’unica figura. Il Buddha più antico deriverebbe dal mito egizio di Osiride. Le superstizioni egizie sarebbero arrivate sino in India e in Tibet, e il Buddha partorito da una vergine, oltre che Osiride, sarebbe Bacco, il dio Sole indiano, insomma una divinità generata dalle favole pagane. Le azioni e i tempi del Buddha “nuovo” venerato dai tibetani – che per loro è sempre lo stesso perché credono nel principio della reincarnazione – coincidono con quelli di Cristo, il cui culto – afferma Giorgi – si diffuse in Tibet già al tempo dei primi apostoli. Ma l’immagine di Cristo fu poi distorta dai primi cristiani, gnostici e manichei. Il buddhismo sarebbe, allora, un manicheismo fuso con il paganesimo già nei primi secoli dell’era cristiana. I tibetani non avrebbero, dunque, abbracciato una religione originale, ma una fede cristiana corrotta dai manichei e basata sulla confusione dei due Buddha.
Trecento anni dopo Giorgi, l’orientalista tedesco Siegbert Hummel ritiene molto probabile che la cultura egizia sia arrivata in Tibet anche attraverso il manicheismo, e l’italiano Giuseppe Tucci, studioso del Tibet, ha trovato elementi iranici, zoroastriani e manichei nel buddhismo indo-tibetano.

Lasciamo la questione agli storici delle religioni. Alphabetum Tibetanum rimane un grande libro, nel quale è infusa tutta la conoscenza che si aveva nel Settecento del misterioso Paese delle Nevi. L’erudito Giorgi l’aveva abbellito con incisioni raffinate, come quelle della processione dei monaci, della mappa cosmogonica del mondo e della Ruota delle Esistenze, firmate anche dal pittore tibetano il cui dipinto su rotolo fu probabilmente portato in Italia dai missionari. Secondo alcune testimonianze avrebbe partecipato alla composizione del volume anche il più famoso tipografo, incisore e stampatore del tempo, Giambattista Bodoni.

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