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22 Ottobre 2013 | Archivio / Lo sguardo altrove, storie di emigrazione

Il triste centenario di Dawson

22 ottobre 1913: 263 morti nella più grande miniera del New Mexico, tra cui 38 modenesi.

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

22 ottobre 2013

Oggi 22 ottobre ricorre il centenario della tragedia mineraria di Dawson, nello Stato americano del New Mexico, dove morirono 263 persone, di cui 140  italiane. Tra le vittime del nostro Paese, 38 erano minatori provenienti dall’Appenino modenese: diciassette dal comune di Fiumalbo, quindici da Monfestino (ora Serramazzoni), tre da Pievepelago, due da Riolunato e una da Fanano. Cerimonie commemorative nei comuni di Serramazzoni e di Fiumalbo, i più colpiti, riporteranno per un giorno l’attenzione sui problemi del lavoro e le vicende dell’emigrazione.

Dawson detiene il triste primato del numero più alto di lavoratori morti in disgrazie minerarie in tutta la storia dell’emigrazione italiana. Il 22 ottobre 1913, il gas esplose allo Stag Canyon numero 2. Dieci anni dopo, l’8 febbraio 1923, nel campo numero 1 si consumò un’altra tragedia: i morti furono 123, una ventina gli italiani. Fra questi, il trentunenne modenese Pacifico Santi di Fiumalbo, che era scampato alla disgrazia del 1913. La fortuna non bussa mai due volte.
Era dal 1902 che ogni anno, in quelle profonde gallerie, si contavano i morti. Soffocati dal fumo causato dal fuoco o colpiti dal distacco di blocchi di roccia o carbone. Nonostante tutto, quella miniera, la più vasta del New Messico, era considerata sicura, perché dotata di attrezzature all’avanguardia.

Dawson è una dolorosa pagina di storia della nostra emigrazione ancora poco conosciuta in Italia. I minatori emigrati dal nostro Paese erano la maggioranza – il 40 per cento – ma vi erano anche greci, slavi, francesi, gallesi, scozzesi, messicani, tedeschi, polacchi, svedesi, finlandesi, giapponesi, cinesi. Non molti gli statunitensi. La miniera era sfruttata dalla Stag Canyon Fuel Company. Il prodotto estratto, molto volatile e bituminoso, aveva ottime proprietà sia per uso domestico sia nelle fonderie del rame e per la costruzione di binari delle ferrovie. Dal 1899, quando fu aperta, fino al 28 aprile 1950, quando uscì l’ultimo carico di carbone dal pozzo numero 6, l’unico dei cinque esistenti rimasto in attività a quella data, produsse 33 milioni di tonnellate di carbone.

L’odierna Dawson è una Ghost Town, una città fantasma sulle colline di Colfax. Il cimitero è la sola parte ancora aperta al pubblico. Il prato è disseminato di 386 croci di metallo bianche definite da Thomas Gray nella sua Elegy in a Country Churchyard «sentinelle silenziose che resteranno per sempre di guardia alla montagna del dolore». In alcune sono incisi i nomi dei defunti, altre sono anonime. Vi riposano i lavoratori morti nella miniera.

Questo spicchio di terra torna a vivere negli anni pari con il tradizionale picnic. Prima di entrare a far parte delle ghost towns degli States, numerose nel New Mexico, Dawson era stata viva e fiorente. Aveva scuole, un teatro per l’opera, un ospedale, un hotel, una palestra, un campo da bocce e, fino al 1917, una sola chiesa utilizzata per tutte le dottrine religiose. Quell’anno ne fu costruita una seconda, cattolica, dedicata a San Giovanni Battista. Nel febbraio del 1950 contava 1250 abitanti. Oggi ci sono solo minatori morti che dormono ai piedi della montagna.

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