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23 Marzo 2006 | Archivio / Lo sguardo altrove, storie di emigrazione

N°1-LO SGUARDO ALTROVE – STORIE DI EMIGRAZIONE

Un bolognese nella Pampa, racconto inviato da Massimo Palmieri che vive a Cordoba, in Argentina

La prima volta che misi piede a Córdoba era il 23 agosto 1988. Ricordo bene che appena sceso dall’aereo mi sentii soffocare. Sapevo che nell’emisfero sud era pieno inverno: un inverno non rigido come quello padano. Ma quando lessi la temperatura sul grande termometro dell’aeroporto rimasi disorientato. Trentotto gradi. Mi sentivo  ridicolo col mio cappotto sotto il braccio da buon emiliano previdente. Il giorno dopo sui giornali i titoli recitavano più o meno così: “Ieri é stato il giorno più caldo del secolo in inverno”.



In questo modo mi aveva accolto Córdoba, col suo terribile “viento norte”, il vento del nord che porta caldo e terra dal Brasile. Due giorni dopo, la mattina ci si svegliava con una temperatura vicina allo zero. Allora cominciai a capire da dove la letteratura sudamericana attinge il suo realismo magico: esce direttamente da questa realtà senza mezze misure, dove quando l’acqua cade, scorrono fiumi al posto delle strade e da un giorno all’altro ci può essere un salto di venti, trenta gradi. Macondo, in fondo, é questa America – quella che non c’entra niente con New York o la California e che appare tanto suggestiva a noi europei.



In quei giorni dovetti subito confrontarmi con una delle tante crisi galoppanti di questo grande paese. Le strade erano affollate di “arbolitos”, che tradotto letteralmente significa “alberini”, ossia persone che compravano e vendevano dollari. La sensazione era quella di un mondo afflitto da un’instabilità cronica.


Due anni dopo, le cose sembravano decisamente diverse. Moneta forte, stabilità, economia rampante. Era lo stesso paese? Sono passati quasi dodici anni da allora e non ho ancora una risposta. A queste latitudini é normale fare i conti con una realtà che ti cambia sotto il naso senza che tu riesca a rendertene pienamente conto. Adesso é cosi un po’ dappertutto, compresa forse l’Italia. Qui ci siamo già abituati da parecchio.



Venendo in Argentina, ho lasciato a Bologna molte di quelle che allora mi sembravano sicurezze, per cercare di ritrovare me stesso: di ritrovare il senso di un’esistenza che mi pareva si stesse perdendo dietro a un mucchio di stupidaggini. E poi c’era la questione di quell’America che avevo imparato ad ammirare attraverso la musica e la letteratura. Volevo avvicinarmi alla sua anima. E´ stata una sfida. Adesso posso dire che non ho né perso né vinto ma che ho ritrovato una parte di me nella sfida di ricominciare daccapo a trent’anni.




Oggi di anni ne ho 43 e faccio l’insegnante. Sono un eterno precario, collaboratore dell’Istituto Italiano di Cultura di Córdoba attraverso un contratto con l’Università. Roba che in confronto i precari italiani sono dei privilegiati. Ma mi piace quello che faccio. Ho sempre voluto mantenermi in stretto contatto con la mia terra d’origine, e oggi posso dire di sentirmi un “lavoratore dello scambio culturale. La cosa fondamentale nella mia professione é essere sempre pronto ad imparare cose nuove e a trasmettere la voglia di comunicare e crescere attraverso l’uso della lingua. Ho imparato che una lingua é anche un modo di sentire. Ma io, bolognese afflitto da una cronica mancanza di senso pratico, non ho mai costruito nessun ponte concreto fra la mia professionalità e la mia terra. Il mio legame é rimasto un filo teso tra due anime, tra la mia “emilianità” e il mio vivere latinoamericano. Come disse un mio amico: “da una ‘dotta’ a un’altra ‘dotta’. Infatti anche Córdoba, come Bologna, è chiamata “la dotta”. Qui é nata l’Università più antica d’Argentina, una delle prime d’America. Ha quasi quattrocento anni, che per questo continente é un discreto record. In fondo Córdoba ha diverse cose in comune con la mia Bologna: è anch’essa città universitaria e come tale aperta e propensa al cambiamento ma allo stesso tempo profondamente conservatrice. Questa contraddizione rende Córdoba particolare come lo é la città petroniana.



Córdoba é la città argentina in cui comincia l’America Latina. Sì, perché Buenos Aires é cresciuta guardando oltre l’Atlantico, come un pezzo d’Europa approdato per caso in questo continente. Córdoba no. E´ una città di un milione e mezzo di abitanti che sembra un paesone, ma soprattutto ha altri ritmi e tutt’altre pretese.


I primi anni qui sono stati di grande nostalgia. Bologna é una mamma cui non é facile rinunciare. Sognavo di passeggiare sotto i portici e invece mi ritrovavo a percorrere il reticolo di vie perfettamente squadrato che costituisce una tipica città argentina. Dalla pianura padana alla Pampa il passo é piuttosto lungo, anche se oggi, nell’era del villaggio globale, può sembrare una sciocchezza. Certo sono lontani i tempi in cui emigrare era una scelta dettata dalla fame e dalla speranza di “fare l’America”.



Vivere qui ha voluto dire anche soffrire il terribile dicembre del 2001 e la crisi argentina di cui ancora subiamo le conseguenze. Per tre anni non ho potuto rivedere San Luca e provare l’emozione che prende ogni bolognese quando intravede il santuario dall’oblò dell’aereo o dal finestrino del treno. Voltandomi indietro e guardando la mia vita, mi sento orgoglioso del luogo da cui provengo e consapevole che avremo un futuro solo se saremo in grado di dare ai nostri figli la coscienza di essere cittadini del mondo disposti a crescere nel rispetto reciproco. Credo che, da questo punto di vista, la storia della nostra regione sia un patrimonio da non sperperare. Lo dico anche in nome delle nuove generazioni, compresa mia figlia, argentina figlia di emiliano.


Tanti saluti dal “mondo rovesciato”.


                                                        Massimo Palmieri


 

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