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22 Marzo 2006 | Archivio / Una città una storia

N°4-UNA CITTA’ UNA STORIA

New York. 2° puntata

Riprendiamo a parlare di New York, seguendo un nostro filo logico che segue percorsi anche non rettilinei, legati alla cultura, alle arti, all’emigrazione.

Eravamo rimasti agli anni Ottanta, quando a Bologna, grazie a una nota critica d’arte, Francesca Alinovi, i giovani artisti avevano il mito della città, ne riproducevano le tecniche espressive allora in voga, come i graffiti, i videotape, le performance, la musica. In quegli anni, sempre grazie a Francesca Alinovi, nelle case degli studenti universitari bolognesi si diffondeva la musica di due artisti tipicamente newyorchesi: la musica ritmica, selvaggia e “new wawe” di David Byrne e del suo gruppo, i Talking Heads, e quella rarefatta, sussurrata, tecnologica, di Laurie Anderson, violinista, performer e artista multimediale, nonché compagna di Lou Reed. Di Laurie Anderson ascolteremo a fine trasmissione il brano che nel 1982 la rese inaspettatamente famosa anche in Italia, O Superman. Ora, invece, sta andando Coolsville, perché essere cool, rimanere calmi, distaccati, è una condizione indispensabile per sopravvivere a New York.


Musica: Laurie Anderson, Coolsville


A New York, Downtown, la parte finale di Manhattan, è sempre stata sinonimo di avanguardia, sperimentazione, creatività artistica. Ci hanno vissuto e lavorato molti degli artisti che abbiamo citato, da Jean Michel Basquiat a Keith Haring. Gravitavano intorno alle gallerie d’arte e agli studi ricavati, negli anni ‘60, dagli spazi industriali che si erano liberati nella zona di Soho, i famosi loft. Ma New York è una città che cambia rapidamente: basta che un gruppo di artisti emergenti battezzi una zona, e subito quella, da economica che era, diventa di moda, frizzante, attraente, si riempie di nuove gallerie, caffè, ristoranti, spazi espositivi, club, luoghi di incontro e divertimento, facendo lievitare il prezzo degli immobili. Così gli artisti sono costretti a migrare da un’altra parte: dal quartiere di Soho sono passati, una ventina d’anni fa, a Chelsea, a nord del Village; poi intorno al ’98-’99 hanno attraversato i ponti di Manhattan e hanno scelto due quartieri di Brooklyn ricchi di spazi industriali e portuali da adattare a loft: Williamsburg e Dumbo, acronimo di Down Under Manhattan Bridge Overpass, ossia “giù sotto il cavalcavia del ponte di Manhattan”. In fondo qui si realizza una democrazia strana: ogni quartiere, ogni pezzo di quartiere, ogni strada o building, ogni etnia, a rotazione prende il sopravvento e regna sulla città.



Musica: Leonard Cohen: Chelsea Hotel



Chiediamo a Massimo Toschi, funzionario delle Nazioni Unite nato a Lugo di Romagna, se la nostra ricostruzione è esatta. Perché è incredibile una città che si muove, va alla ricerca di nuovi spazi da colonizzare, seguendo la frenesia, l’intelligenza, la preveggenza dell’arte. E’ così, Massimo?



Bene. Vorremmo approfondire però questo discorso sulle differenze tra Europa e America prendendo spunto da un bellissimo testo di un sociologo francese, Jean Baudrillard, che s’intitola appunto “L’America”, frutto di un suo viaggio negli States. Baudrillard è stato molto presente a Bologna, invitato più volte a parlare all’Università dov’era considerato, a fine anni ’70, un punto di riferimento dal movimento degli studenti. Anche il cielo, osserva Baudrillard, è diverso. I nostri cieli europei sono limitati, con le loro nuvolette: piccoli cieli a pecorelle, che non decollano mai, imprigionati tra gli edifici malaticci. In America, invece, i cieli sono ampi, ariosi, si rispecchiano vertiginosamente nei vetri dei grattacieli. I nostri cieli europei sono arricciolati, come i nostri pensieri. A New York i cieli immensi del Nord America sono il pensiero stesso, che si riflette nello spazio.



Musica: Philip Glass, Liquid days



Lo stesso si può dire delle strade o delle automobili. Le nostre stradine europee sono fatte per automobili dove non si vive, dove non si ha abbastanza spazio: non c’è mai abbastanza spazio in Europa. In America, invece, e a New York, le strade, i boulevard, hanno geometrie chiare, ariose. Non hanno storia ma hanno l’ebbrezza dello spazio.



Massimo, a te che hai girato il mondo per i tuoi incarichi alle Nazioni Unite, chiediamo: è vero che i cieli, i paesaggi riflettono l’anima di un popolo? Hai mai avuto questi pensieri, a New York, a Londra, in Africa, in Romagna?



Musica: Craig Armstrong, Wake up in New York



Se ci si pensa bene – stiamo ascoltando Wake up in New York di Craig Armstrong – è quasi un miracolo che la vita a New York possa riprendere ogni mattina, dopo tutta l’energia consumata il giorno precedente. Tutto quello che succede ogni giorno, milioni di persone che si spostano, producono, elettrizzano le strade, si sgomitano, si toccano, si allontanano, si amano, si derubano. Tutta questa frenesia, queste pubblicità luminose e onnipresenti, questi effetti speciali, questa folla, questo girare indolente o violento, questa promiscuità delle razze, la luce, i televisori e i monitor sempre accesi, le nuvole che fluttuano sulla città spinte dal vento e portano via i pensieri, o ne generano all’infinito. Tutta questa accelerazione, tutta questa energia che si crea, i giochi che si intensificano, tutto che si fa più luminoso, violento e dolce, è perché siamo al centro del mondo, siamo nel punto di massima concentrazione del mondo?



Musica: Laurie Anderson, Kokoku



Città faraonica, di guglie e obelischi. Città verticale, di grattacieli accarezzati – quando non trapanati – dagli aerei. E città che sprofonda nel fango, nel marciume dei bassifondi. Città di immense solitudini, di gente che si prepara il pasto sul cofano di un’automobile, di miserabili che parlano da soli, di rapper che al termine della danza si immobilizzano nella posa ironica della morte. Città – dice Baudrillard – dove la commistione delle etnie ha prodotto delle facce incredibili, di una bellezza o di una banalità sconvolgenti, dove il taglio degli occhi, le capigliature, le bocche, sono il risultato della promiscuità delle razze e degli imperi.



E’ questa New York, Alberto Quartaroli?  Con un dubbio, però: all’origine del formicolare di Manhattan, più che la bellezza, non c’è forse il commercio, il desiderio di esibire la ricchezza, come ha scritto Antonio Muñoz Molina?



In fondo, ci si potrebbe chiedere: ma che senso ha vivere a New York? Che rapporto hanno le persone tra di loro? Vivono in una promiscuità di spazi ma quasi senza sfiorarsi, come alimentate da una elettricità interna che le fa muovere ma non convergere. Si dice infatti che a New York sia impossibile la vita di coppia, che pensare di condividere la vita con qualcuno, in questo turbinare impazzito, vada al di là delle possibilità umane. Sopravvivono le comunità, le tribù, le bande, le gang, le mafie: ma non le coppie. Si dice che New York sia l’anti-Arca: ognuno viene imbarcato solo, e sta a lui trovare, ogni sera, qualcuno per l’ultimo party.


Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia: New York è anche il contrario di tutto questo. E’ una città per tutti, dove gli anziani possono passeggiare a Central Park, ritagliarsi il loro angolino, e anche i bambini, e tutte le altre categorie di persone…



E’ così, Massimo?  Tu, ad esempio, faresti crescere i tuoi figli a New York?



Grazie Massimo, con la tua risposta chiudiamo la puntata e diamo appuntamento ai nostri ascoltatori la settimana prossima, con la terza e ultima trasmissione dedicata a New York.

Brano corrente

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