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5 Febbraio 2013 | Archivio / Protagonisti

Dallo scudetto ad Auschwitz

La triste vicenda di Arpad Weisz, l’allenatore del grande Bologna d’anteguerra, raccontata in un convegno nella città felsinea

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

5 febbraio 2013

Non gli bastarono, per salvarsi, lo scudetto vinto con l’Inter nel campionato di calcio 1929-30, i due titoli conquistati con il Bologna, “lo squadrone che tremare il mondo fa”, nel 1935-36 e nel ‘36-’37, e il Trofeo delle Esposizioni, la Champions Leaguedell’epoca, vinto nel 1937 contro i maestri inglesi del Chelsea. Non bastarono i successi sportivi a salvare la vita a Arpad Weisz, l’allenatore ungherese del Bologna, che aveva la sola colpa di essere ebreo. Dalla città petroniana, cui aveva regalato i due scudetti d’anteguerra, Weisz fu allontanato in seguito alle leggi razziali promulgate da Mussolini. Il 26 ottobre 1938 aveva rassegnato le dimissioni da tecnico del Bologna, che grazie a lui dominava il calcio in Italia. Weisz riparò a Parigi con la moglie Elena, pure lei ebrea ungherese, e con i figli Roberto e Clara. Dalla capitale francese la famiglia, dopo pochi mesi, raggiunse in Olanda la cittadina di Dordrecht, dove Weisz allenò con ottimi risultati la piccola squadra locale.

Con l’occupazione nazista dei Paesi Bassi, la famiglia Weisz venne arrestata all’inizio dell’agosto 1942 e deportata nel campo di concentramento di Westerbork, lo stesso dal quale sarebbe transitata Anna Frank. Il 2 ottobre i Weisz furono fatti salire sul treno per Auschwitz. Tre giorni dopo, moglie e figli finirono ad Auschwitz. Arpad Weisz invece venne trattenuto in un campo di lavoro nell’Alta Slesia, dove resistette alla fame e al freddo per sedici mesi: fu trovato morto la mattina del 31 gennaio 1944.
Nel 2009 su iniziativa del Comune di Bologna è stata posta una targa in sua memoria sotto la torre Maratona nello stadio Dall’Ara. Una targa in suo ricordo è stata posta il 27 gennaio2012, inoccasione della Giornata della memoria, anche allo stadio Giuseppe Meazza di Milano.

Il 4 dicembre scorso allo sfortunato allenatore del Bologna è stata dedicata la giornata di studi a Palazzo Pepoli, in occasione della mostra “Lo sport europeo sotto il nazionalsocialismo”. Nel convegno bolognese si è discusso de “L’Italia fascista e lo sport, l’esaltazione del corpo e le leggi razziali”, focalizzando l’attenzione non solo sul caso di Arpàd Weisz, su cui si è soffermato l’ambasciatore di Ungheria in Italia János Balla, ma anche su quelli di Primo Lampronti, pugile ferrarese, e Gino Bartali, indimenticabile campione del ciclismo, di cui solo da qualche anno sono noti gli atti di coraggio per aver salvato ebrei e altri perseguitati, compiuti negli anni della guerra a cavallo della sua bicicletta.

Queste vicende ci ricordano la concezione dello sport come strumento di propaganda e di costruzione dell’identità nazionale che si affermò in Europa tra le due guerre. Uno sport sottoposto a controllo ferreo sia sul lato della pratica che su quello degli spettatori, caratterizzato da politiche di esclusione degli atleti ritenuti indesiderabili, da umiliazioni e violenze inflitte a tanti protagonisti, alcuni sottoposti alla deportazione, come Arpad Weisz.

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