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20 Novembre 2012 | Archivio / Protagonisti

Le lacrime squisite di Valerio Zurlini

Un ricordo del regista bolognese a trent’anni dalla scomparsa

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri

20 novembre 2012

“Quella costiera adriatica che avevo visto l’inverno, quando non c’è l’esplosione del turismo estivo, stretta dal rancore, dalla ferocia, dalla violenza. L’avevo vista, quella violenza dell’uomo sulla donna. La prima notte di quiete è un film molto legato a un certo ambiente geografico. Contiene anche un aspetto di “storia popolare”: la storia di un uomo che ha un rapporto ormai di morte con gli altri, e che incontra la giovinezza. Una giovinezza che nasconde in realtà la morte: è un romanzo popolare vecchio come il mondo (…). Il titolo viene da un verso di Goethe che si può tradurre più o meno così:‘La morte, la prima notte di quiete’.”

Sono le parole con cui il regista Valerio Zurlini spiegava il suo film del 1972, La prima notte di quiete. Un film di culto, struggente, ambientato in una Rimini invernale, livida, cupa, dove un bellissimo Alain Delon impersona un supplente di lettere, trasandato e tenebroso, che si lega con la più bella delle sue allieve, contrastato dalla madre e dall’amante di lei, e dalla propria amante possessiva. Uscito nello stesso anno di Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, il film di Zurlini respira atmosfere simili: è la parabola autodistruttiva di un piccolo eroe che non riesce nel suo sogno di fuga. Come I vitelloni di Fellini, ma trent’anni dopo, quando l’innocenza è per sempre perduta.

Per restare dentro le atmosfere del film, ascoltiamo un brano della colonna sonora, Domani è un altro giorno di Ornella Vanoni, che accompagna la scena in cui Delon e la Petrovna ballano un lento in discoteca. 

Cari ascoltatori, vi parliamo di Valerio Zurlini perché ricorre in questo periodo il trentesimo anniversario della morte. Questa in breve la sua biografia.
Nasce a Bologna il 19 marzo del 1926 ma è a Roma che inizia la sua vita artistica. Dopo una prima esperienza di teatro universitario, tra il 1950 e il 1953, realizza dodici cortometraggi per poi esordire nel lungometraggio nel 1954 con un adattamento da un romanzo dell’amico Vasco Pratolini “Le ragazze di Sanfrediano”. E’ questo il primo degli otto film girati dal cinesta bolognese.

Gli altri sono: “Estate violenta” nel 1959, “La ragazza con la valigia” nel 1960, “Cronaca familiare” nel 1962, “Le soldatesse” nel 1965, “Seduto alla sua destra” nel 1968, “La prima notte di quiete” nel 1972.
Protagonisti dei film di Zurlini sono quasi sempre attori noti, come Alain Delon, Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Gian Maria Volontè, Giancarlo Giannini. Attori capaci di tradurre sul grande schermo la psicologia e i sentimenti dei personaggi di Zurlini e le sue “lacrime squisite”, come ha scritto un critico, con l’intendo di denigrarlo. In realtà, ha affermato un altro critico, Sergio Toffetti, “quale migliore salvezza di quella che nasce da ‘lacrime squisite’?”.

In tutto il cinema del regista bolognese traspare l’amore per l’arte, che è sempre stata passione ed esperienza individuale prima di essere compresa nel lavoro con la cinepresa. E tutti i film sono attraversati da questa idea: “vivere la vita non ha altro fine che lasciarla passare e la morte è l’unica giustificazione. La validità di un sentimento non esiste, la validità di un’illusione non esiste, non c’è idealismo che tenga, non c’è nulla che sia al di fuori dell’amara sopravvivenza”.  In queste parole si legge una disperazione che si esprime in tutta la sua drammaticità ne “Il deserto dei tartari”, trasposizione del romanzo di Dino Buzzati che chiude nel 1976 la carriera di Zurlini, un grande successo con interpreti straordinari quali Jacques Perrin, Vittorio Gassman, Philippe Noiret, Jean-Louis Trintignant, Giuliano Gemma. E’ l’ultimo ciak di Zurlini: la vita del regista si spegne a Verona il 26 ottobre 1982.

Certamente – scrive Michele Dell’Ambrogio – “Zurlini non ha mai goduto, né in vita né  dopo la morte, della considerazione critica che avrebbe meritato, soffocato forse dalla presenza ingombrante dei grandi nomi nei quali si identificava il cinema italiano di quel periodo, come Rossellini, Visconti, Fellini, Antonioni, Pasolini. Forse il suo è stato un percorso troppo discreto e anche troppo sofferto (solo otto lungometraggi in ventidue anni) per essere riconosciuto come autorevole. Eppure pochi altri registi italiani hanno saputo analizzare con tale finezza i sentimenti umani, le passioni violente che ci condizionano e ci distruggono, il rapporto tra l’individuo e la storia, le corrispondenze tra la psicologia dei personaggi e il paesaggio in cui essi evolvono”.

Come ha affermato il critico Jean Gili, “con Antonioni, Zurlini è il grande cineasta dei paesaggi degli stati d’animo”. Forse il più grande.

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