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9 Febbraio 2016 | Archivio / Protagonisti

Gianni Morandi

Dal grande prato verde a Facebook: storia di un’icona pop inossidabile nel racconto di Raffaele Meale – prima puntata

A cura di Vittorio Ferorelli, con la collaborazione di Raffaele Meale

Care amiche e cari amici di Radio Emilia-Romagna, il protagonista di oggi è stato soprannominato, non senza motivo, l’“eterno ragazzo” della canzone italiana, e ogni giorno, grazie alla presenza costante sui “social media”, sembra ribadire questa natura perennemente “giovane”, a dispetto delle sue splendide rughe da settantenne. Leggiamo e ascoltiamo insieme il ritratto che a Gianni Morandi ha dedicato il critico musicale Raffaele Meale in un libro edito nel 2015 dall’Arcana editrice di Roma, che vi consigliamo: si intitola “Fuori i compagni dalle balere. Viaggio nella musica dell’Emilia-Romagna”.

Gianni Morandi
Dal grande prato verde a Facebook
[prima parte]

È di pochi giorni fa, modifica dell’ultimo momento a rilettura del libro in corso, l’immagine pubblicata da Gianni Morandi sul suo profilo Facebook. La foto lo ritrae a piazza Barberini, nel centro di Roma, di fronte alla fontana del Bernini. Accanto alla foto Morandi scrive: «15 luglio, Roma. Anche se fa un po’ caldo, oggi corsetta… senza esagerare, qualche chilometro sotto gli alberi di Villa Borghese, qui vicino. La foto me l’ha scattata un turista giapponese». Nel giro di poche ore l’immagine conta ottantamila mi piace, qualche migliaio di condivisioni, e un numero spropositato di commenti, che vanno da rimostranze verso il turista che avrebbe scattato male la foto a richieste di in bocca al lupo per esami universitari. Perché Gianni Morandi non è un cantante. Non è neanche una star del mondo dello spettacolo. E non è neppure solo un personaggio pubblico. Gianni Morandi è uno di noi. È uno del popolo. Quello di Facebook, quantomeno.

Da quando ha fatto la sua apparizione sul social network più seguito, nel novembre del 2009, Morandi ha operato una vera e propria escalation, scavando un solco tra lui e i suoi colleghi e ridisegnando, a suo modo, l’utilizzo di questo spazio pubblico. In meno di sei anni Morandi conta quasi due milioni di persone che lo seguono. Nelle ultime tornate elettorali “Sinistra Ecologia e Libertà” ha faticato ad avvicinarsi al milione di voti. Proporzioni stupide, forse, ma che rendono l’idea di come quello che segue in maniera quotidiana le attività di uno dei più noti cantanti della musica popolare italiana sia un vero e proprio popolo. Pronto a elevare Morandi perfino a faro contro le idiosincrasie della contemporaneità.
Quando a gennaio del 2015 si sono svolte le consultazioni per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, non sono stati in pochi, tra i media e gli habitué dell’universo social, a proporre anche il nome di Morandi. Dopotutto, se gli Stati Uniti hanno fatto presidente un attore senza particolari qualità, perché l’Italia non avrebbe dovuto affidare la più alta carica dello Stato a uno che in gioventù cantava «Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte, devo dirti qualche cosa che riguarda noi due. Ti ho vista uscire dalla scuola insieme ad un altro, con la mano nella mano passeggiava con te. Tu digli a quel coso che sono geloso e se lo rivedo gli spaccherò il muso»?

Battute a parte, cinquantatré anni di carriera sono nulla di fronte allo spettacolo che Morandi è riuscito ad allestire attraverso il proprio account Facebook.
La comunicazione di Morandi si basa essenzialmente su un dettaglio, la necessità di eliminare qualsiasi tipo di elemento di disturbo tra lui e il suo pubblico. La pubblicazione della foto scattatagli dal turista giapponese (così come tutte quelle che lo ritraggono insieme a suoi fan, all’aeroporto come all’autogrill, al ristorante o alla stazione dei treni) non serve a rimarcare la riconoscibilità internazionale della sua figura d’artista, ma più che altro una vita quotidiana quasi banale, come quella di ognuno di noi. In un’epoca storica in cui le politiche di marketing hanno abbandonato il mondo della musica, oramai gettato in pasto, da questo punto di vista, ai talk show e ai talent show televisivi, Morandi si fa promoter di sé stesso. Scegliendo, nella sua immagine pubblica, quella che ritiene più attraente.

La foto [scattata a Roma] non lo ritrae mentre corre sotto gli alberi di Villa Borghese, ma quando oramai sfinito e madido di sudore cerca conforto nel cuore della città, magari prima di trovare refrigerio in un bar. Nel suo certosino lavoro di informazione, che sarebbe insostenibile per qualsiasi ufficio stampa – Morandi arriva a pubblicare anche decine di interventi durante lo stesso giorno, sulla propria bacheca – si cela una strategia ben precisa, la stessa che a ben vedere lo ha sempre accompagnato fin da quando, neanche diciottenne, esordì con Andavo a cento all’ora.
Gianni Morandi è uno scapestrato dal volto gentile, che afferma sì di voler spaccare il muso al ragazzo che gira attorno alla sua amata, ma produce più tenerezza che timore. «Ciunga ciunga ciù, ciunga ciunga ciù, la la la la» sono le prime parole incise su disco dal ragazzino di Monghidoro, paesino arroccato sugli Appennini sopra Bologna. Onomatopee. Un cantante che arriverà a vendere oltre cinquanta milioni di dischi in giro per il mondo (piazzandosi al ventesimo posto in Italia e al sesto per quanto riguarda gli artisti emiliano-romagnoli) inizia la sua carriera producendo suoni e accompagnando le strofe con uno «ye ye ye ye, ye ye ye ye» che dovrebbe rimandare con la mente dall’altra parte della Manica, ma ha più il sapore di un gioco infantile. Ascolti il giovanissimo Morandi e ti sembra sempre che stia lì a farti la linguaccia, o che stia cantando mentre sorride.

Nell’Italia del dopoguerra, appena entrata nell’ottimismo del boom economico, in cui si inizia a parlare di centrosinistra al governo, con il PSI di Nenni che accetta di formare un governo con la Democrazia Cristiana e di aderire alle strategie del Patto Atlantico, Gianni Morandi è il paradigma di una gioventù che vuole scrollarsi di dosso le macerie del conflitto mondiale, senza però dimenticare le proprie radici. Quando, nel 1988, insieme a Lucio Dalla e – per l’occasione – Francesco Guccini, canta Emilia, con quel passaggio che recita «Emilia di facce, di grida, di mani sarà un grande piacere / Vedere, in futuro, da un mondo lontano / Quaggiù, sulla terra, una macchia di verde / E sentire il mio cuore che battendo più piano là dentro si perde», si percepisce la sincerità celata tra le pieghe di una retorica inevitabilmente populista. Perché «Vero, aperto, finto e strano / Chiuso, anarchico, verdiano / Brutta razza l’emiliano».

Già. È una mala razza anche Morandi, che scende dalla sua Monghidoro e va alla conquista dell’Italia con una naturalezza che spaventa. I successi sono tanti, si susseguono uno dopo l’altro: Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte, In ginocchio da te, Non son degno di te, Se non avessi più te. «Te», come si vede, è il termine fondamentale. Morandi, che canta tanto per le figlie quanto per le mamme (e forse anche per le nonne), non ha peso senza una donna a cui fare riferimento nel testo. Anche per questo, è probabile, l’uscita del singolo C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones getta nel caos l’industria musicale italiana. Ascoltata anche solo due anni dopo la sua uscita, questa canzone che provocò così scalpore da essere censurata – favorendo il successo del lato B del 45 giri, Se perdo anche te, che rimarrà una delle sue interpretazioni più celebri e amate dai fan – questa canzone sembra scritta per delle educande; ma nel 1966, con l’Italia borghese ancora al riparo dal clima della contestazione e la situazione in Vietnam che sembra nelle mani del governo statunitense, le cose sono ben diverse.

La canzone politica, o di «impegno», è vista con il fumo negli occhi dai discografici italiani: perché il più noto e amato dei giovani cantanti dovrebbe mettere a repentaglio la sua reputazione con qualcosa di simile?
Ma Morandi, nonostante tutto, è pur sempre figlio dell’Emilia contadina. «Nella bottega di mio padre, al mattino, prima di cominciare a lavorare, lui mi costringeva a leggere ad alta voce alcune pagine del Capitale di Karl Marx e cinque metri del quotidiano “l’Unità”: era quella la misura giusta stabilita dal suo senso del dovere politico ideale prima di cominciare una giornata di lavoro. In famiglia però cantavamo tutti. In seguito vennero le feste de l’Unità, dove fui invitato, e, con un cachet di mille lire a serata, mi esibii finalmente su un palco. Era il tempo dei bambini prodigio, così la domenica facevo due esibizioni, una pomeridiana e l’altra serale. Mille lire ciascuna e da allora non ho mai smesso di cantare» [Gigi Vesigna, La gavetta dei VIP?, «Oggi», 12 giugno 2013].

Marx, «l’Unità» e il canto: eccolo il pane quotidiano di Morandi prima del successo nazionale. Cose che non si dimenticano. C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones non è una mossa commerciale, e se lo fosse sarebbe da considerare autolesionista; è il tributo che Morandi paga volentieri alla sua formazione, alla sua famiglia, alla sua gente. A Monghidoro, dove il Partito comunista è IL partito, tutti sono orgogliosi di quel giovanotto sorridente che non ha paura di cantare la guerra in Vietnam e i «ragazzi come lui».
C’è già, nel brano scritto dal senese Mauro Lusini con il sostanzioso intervento di Franco Migliacci, l’etica comunicativa che si potrà rintracciare decenni dopo nei post pubblicati su Facebook. Morandi non parla della guerra utilizzando il distacco, pur doloroso, del Fabrizio De André de La guerra di Piero e La ballata dell’eroe, pubblicati come 45 giri nel settembre del 1964. Quelle sono guerre senza nome, sulle quali costruire una fiera retorica antimilitarista. Morandi non è fatto per queste finezze, punta dritto all’obiettivo e palesa tutto, senza alcuna remora: «C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones / Girava il mondo, veniva dagli Stati Uniti d’America / Non era bello ma accanto a sé, aveva mille donne se / Cantava Help, o Ticket To Ride, o Lady Jane o Yesterday / Cantava viva la libertà, ma ricevette una lettera / La sua chitarra mi regalò, fu richiamato in America».

Il mito dell’America come terra di libertà si incrina. Non c’è alcun furore anticapitalista, per carità, ma l’invettiva è chiara. La rabbia sincera. Lo sguardo su questo ragazzo che vuole solo cantare la libertà è bonario, dolce, partecipe. La stessa indole che Morandi dimostrerà nelle sue apparizioni televisive, per esempio, quando saluta uno per uno il pubblico presente in studio prima di raggiungere il proscenio. Morandi dà del tu a chiunque, retaggio di una formazione comunista e delle umili origini della famiglia, con il babbo ciabattino e la mamma casalinga. Va in televisione vestito in jeans e scarpe da ginnastica. Si fa fotografare sudato, di fronte a una fontana. Stremato. La sua immagine pubblica, fin da giovane, è stata costruita ad arte su di lui, in modo che non sembrasse artefatta.
Da un punto di vista musicale, Morandi viene sorpassato a destra e a sinistra già dopo pochi singoli; la scena è molto più rapida di quanto possa essere lui, e la cosa non gli interessa molto. Perché chi ascolta le sue canzoni non lo fa solo per la melodia che si sprigiona, ma per la naturale simpatia che prova per il personaggio. Per le ragazzine che si mettono le mani nei capelli quando lo vedono esibirsi in televisione Morandi è un divo, ma non produce mai il distacco mitico che la società dello spettacolo impone. Con quella faccia, con quella voce, con quella postura, Morandi potrebbe davvero venire sotto casa tua e cantarti Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte. Nessuno si stupirebbe.

[continua]

 

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