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25 Settembre 2006 | Archivio / Protagonisti

N°28-I PROTAGONISTI DI IERI E DI OGGI

Artemide Zatti. Dal Po al Rio Negro, il “santo” in bicicletta.

Emigrante reggiano, Artemide Zatti ha speso la sua vita per i malati e i poveri della Patagonia. A Viedma, dove in modo avventuroso ha diretto una sorta di cottolengo della fine del mondo, un monumento, una strada e un ospedale lo ricordano ancora. E in Argentina lo vogliono santo.

Se la Pampa, secondo Massimo Bontempelli, “è una grande pianura, preparata per il giudizio universale”, e dunque, “essendo infinita, non ha niente di primordiale o di selvaggio”, la Patagonia, arida, dominata dal ghiaccio e dal pampero – il vento gelido che soffia dalle pampas – è la quintessenza dell’inospitalità. Al generale Roca, ministro argentino della guerra, occorsero tre anni, dal 1877 al ’79, per prendere possesso dell’immensa ragione: varie avversità, compreso l’irresistibile pampaero, prolungarono la “campagna del deserto”, alla fine della quale il corpo di spedizione di Buenos Aires poteva cavalcare sui cadaveri degli indios. All’epoca la sottomissione della Patagonia fu paragonata alla conquista del West. Lo sterminio degli indiani fu bilanciato dall’arrivo dei coloni europei – gallesi, spagnoli, tedeschi, russi, polacchi italiani – che di quelle terre si impadronirono.

 

 

Come sempre accade in questi casi, allo sterminio seguì, ad opera di alcune “anime belle”, l’esaltazione mitica dei nativi. Come sostiene il nostro ex ambasciatore a Buenos Aires Incisa di Camerana nel suo libro “L’Argentina, gli italiani, l’Italia” (1998), l’oligarchia e i proprietari terrieri argentini scoprirono affinità con quelli che fino a poco prima avevano chiamato “tigri selvagge” o “indios schifosi”. Estancieros e indios, dissero, “amano il cavallo e detestano l’agricoltura; per gli indiani piegare la schiena è cosa da vecchie e per noi è affare dei bachichias”, cioè dei baciccia, dei genovesi, in altre parole degli italiani.

 

 

 

I PIONIERI SALESIANI

 

 

Gli italiani, dunque. La grande saga dell’emigrazione li portò anche in Patagonia, ai piedi del mondo, tant’è che Ushuaia, la città più meridionale della Terra, fu colonia italiana: qui, come a Viedma molto più a nord, alla foce del Rio Negro -, c’è pure una presenza di emiliano-romagnoli, che a Viedma hanno la loro associazione. I primi connazionali ad arrivare in Patagonia, giù fino alla Tierra del Fuego, furono i missionari salesiani, che accompagnarono il generale Roca nell’ultimo “rastrellamento” di indiani nel deserto, quello della conquista definitiva. Il pioniere fu Padre Giacomo Costamagna, aggregato alla spedizione insieme ad altri due sacerdoti: percorsero oltre 1300 km a cavallo e su carri traballanti per convertire e soprattutto impedire ulteriori stragi di indiani. Il primo contatto con gli indigeni avvenne a Carhuéil, dopo un mese raggiunsero il Rio Colorado e il 24 maggio 1879 il Rio Negro, mettendo finalmente piede in Patagonia. Arrivati al villaggio di Patagones, i missionari decisero di rientrare a Buenos Aires. Qui il 5 agosto l’Arcivescovo offrì a Don Bosco la missione di Patagones: “Caro Don Bosco – scrissero felici i salesiani -, bisogna adattarsi e per amore o per forza è necessario che la croce vada dopo la spada. Pazienza!”. Così, nel dicembre dello stesso anno, partirono dalla capitale due gruppi di salesiani per stabilirsi uno a Patagones e l’altro a Viedma, sulle sponde opposte alla foce del Rio Negro.

 

 

Ai salesiani, in cambio dell’evangelizzazione degli indigeni superstiti, fu garantita una libertà d’azione che li rese protagonisti della completa pacificazione della Patagonia. il loro capolavoro, il simbolo della loro opera, fu Ceferino Namuncurà, nipote del Gran Capo degli indios mapuche e figlio di un altro valoroso cacicco. Ceferino morirà novizio e santo a Roma. L’altro fiore all’occhiello delle missioni salesiane in Patagonia fu un emigrante reggiano, naturalmente povero, Artemide Zatti, per il quale in Argentina è in corso la proclamazione di santità. La famiglia di Zatti è tra l’altro imparentata con l’attuale Rettor Maggiore dei salesiani don Juan E. Vecchi, il quale è quindi un argentino di discendenza reggiana.

 

 

 

DAL Po AL RIO NEGRO

 

 

Nato a Boretto, sul Po, nel 1880, terzo di otto fratelli, Zatti nel 1897 fu costretto dalla povertà ad emigrare con la famiglia per raggiungere lo zio in Argentina, a Bahìa Blanca, alle porte dell’ancora favolosa Patagonia. L’Argentina era già piena di italiani, arrivati con un misero fagotto e diventati in breve laboriosi coloni. Ma Zatti non era tagliato per lavorare in campagna, nelle enormità dei campi argentini da percorrere a cavallo; inizia allora a fabbricare mattoni e piastrelle e va controcorrente anche nella scelta di non abbandonare la pratica religiosa, come spesso accadeva agli emigrati appena giunti, soprattutto nell’ambiente fortemente anticlericale di Bahìa Blanca. Qui Artemide comincia a frequentare la parrocchia dei salesiani, quasi tutti italiani d’origine, tanto che lui ha l’impressione di essere tornato a Boretto.

 

 

Mentre sotto la spinta degli italiani nasce in Argentina un movimento contadino che accomuna socialisti e parroci, e mentre la classe dirigente nativa e la nuova borghesia immigrata temono gli elementi anarchici di una classe operaia urbana composta per 1’84% da stranieri, Artemide Zatti medita in tutta solitudine la via del seminario. Via che gli sarà preclusa da una malattia, la tisi, per la quale l’ambiente umido di Bahìa Blanca rischia di diventare fatale. Grazie al consiglio e al denaro di un sacerdote, il giovane Zatti viene convinto a spostarsi più a sud, a Viedma, in Patagonia, dove l’aria è più buona e c’è una casa salesiana pronta ad accoglierlo.

 

 

Il collegio salesiano racchiude anche una farmacia e un ospedale, impiantati in modo avventuroso nel 1899 quando Viedma era avamposto missionario. Operai abbandonati a se stessi, soldati, avventurieri, come pure gli indigeni dei dintorni, morivano per la mancanza dei più comuni medicinali: fu a questo che i salesiani

 

 

vollero provvedere. Dall’arrivo a Viedma, nel marzo 1902, al 1911, Zlatti esce lenta-

 

 

mente dalla malattia e intanto fa pratica di infermiere sotto la guida di padre Garrone, il religioso improvvisatosi dottore e famoso in tutta la Patagonia per il suo “occhio clinico”. Alla morte di padre Garrone, Zatti, che nel 1908 aveva preso i voti come salesiano laico, si ritrova a capo della farmacia e del1’ospedale, a cui già aveva deciso di dedicare tutto il suo tempo, in ottemperanza a un voto alla Madonna e a una promessa fatta a don Garrone durante la malattia.

 

 

Subito Artemide si dà da fare per costruire un nuovo ospedale, dato che il vecchio era stato semplicemente ricavato da stalle pulite e disinfettate. Forma comitati, organizza lotterie e vendite all’asta finché non riesce a trovare i soldi. La prima pietra viene posata nel 1913; due anni dopo i registri testimoniano la presenza di 189 infermi. Zatti dirige, paga il personale, stipula i contratti, compera latte e verdura per i malati, aiuta i medici come infermiere, fa anche le pulizie se è necessario. Gira ovunque in bicicletta per rastrellare denaro, perché la sua farmacia, come l’ospedale, si basa sul seguente principio antieconomic paga chi può, chi ha niente paga niente (ed è la maggior parte dei “clienti”). Gli mandano i malati anche dal carcere, e un giorno Zatti finisce pure in prigione: l’evasione di un detenuto che gli era stato affidato gli permette di fare gli unici cinque giorni di “vacanza” della sua vita.

 

 

 

LA CITTÀ IN LUTTO

 

 

Quello di Zatti diventa in breve il Cottolengo della Patagonia: un ragazzo macrocefalo e altri casi strazianti sono il suo pane quotidiano. Studia da farmacista e ottiene il diploma per fronteggiare la concorrenza di una “vera” farmacia privata aperta di fronte al suo ospedale. Inoltre la sua approssimativa filosofia delle finanze gli consente di chiedere soldi “per la Provvidenza” ai benestanti del luogo, prestiti alle banche, elemosine per i poveri. Quando mancano ovatta, garza, disinfettanti, inforca la bicicletta, si mette in testa un vecchio cappello a larga tesa e va in giro a cercare aiuto. Tra i superiori c’è chi si inquieta per i suoi metodi di gestione finanziaria, finché nel 1942 accade il peggi a Viedma, che dal l934 è sede vescovile, l’unico terreno di .proprietà del vescovo adatto per costruirvi la nuova sede (la vecchia è ormai inabitabile) è quello su cui sorge l’ospedale. Il Cottolengo patagonico viene così demolito e Zatti deve organizzare il trasferimento dei malati.

 

 

C’è chi l’ha visto piangere a ogni colpo di piccone. Sicuramente fu il giorno più brutto della sua vita. Il nuovo ospedale viene installato in una scuola agricola la lo spazio è  insufficiente. “El pariente de todos los pobres” non si perde d’animo e riesce a ottenere il permesso di aprire delle “succursali” dell’ospedale qua e là per Viedrma.

 

 

Giorno e notte, col camice bianco e l’inseparabile bicicletta, corre dai suoi malati, inoltre provvede alle cucine, che ora sono tre, amministra, assiste i chirurghi in sala operatoria,. non si risparmia nessun lavoro. Muore stroncato da un tumore nel 1951. “Non doveva morire”, dice la gente di Viedma.

 

 

Ai funerali del povero emigrante nato sul Po e morto sul Rio Negro partecipa tutta la comunità: fabbriche, scuole, negozi, uffici pubblici sono chiusi per lutto. Poi Viedma gli dedicherà una strada della città, darà il suo nome al nuovo ospedale e gli farà anche un monumento. E ora in Argentina lo vogliono anche santo.

Lettura di Fulvio Redeghieri.

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