“Per un direttore d’orchestra, voltare le pagine della musica è un po’ come voltare quelle della vita. È come superare i problemi di ogni giorno e riscoprire, ogni mattina, quanto è bello vivere, anche se bisogna ‘battere le campane’, continuamente, incessantemente, per affermare la propria libertà, le proprie idee, il proprio pensiero”. A dircelo, cari amici e care amiche di RadioEmiliaRomagna, è Vladimir Delman, un uomo che un giorno aveva lasciato per sempre il suo paese e trovato casa nella nostra regione, insieme alla bacchetta con cui dirigeva i musicisti. Vi raccontiamo in breve la sua storia, rimandandovi, per approfondirla, al libro documentatissimo del giornalista Nicola Pirrone, stampato di fresco per le edizioni Pendragon.
Nato nel 1923 da una famiglia russa di origine ebraica, a chi gli domandava quale fosse la sua città di origine Vladimir Isaakovič Delman era solito rispondere “Leningrado”, sottolineando il nome sovietico con cui era stata ribattezzata San Pietroburgo. Giovanissimo, era sopravvissuto allo sterminio nazista, esperienza di cui in seguito non parlò, proteggendola con il silenzio con cui copriva anche gran parte della vita trascorsa in Unione Sovietica, dove studiò musica e si diplomò in pianoforte e direzione d’orchestra. Lasciato il conservatorio, iniziò la sua carriera partendo come maestro preparatore di cori e arrivando a dirigere nei principali teatri, dal Kirov di Leningrado al Bolshoi di Mosca, fino a Novosibirsk, nella remota Siberia.
Negli anni Sessanta, grazie al suo lavoro, Delman riceve il permesso temporaneo di lasciare l’URSS, una possibilità che il Cremlino non concede a tanti in quel periodo. Visita Londra e poi l’Italia, innamorandosene. Quando nel 1974, da Vienna, ha la possibilità di emigrare in Israele, all’ultimo momento ci ripensa e si ferma nel nostro paese. Qualche mese prima, come direttore musicale del Teatro dell’Opera da Camera di Mosca (che aveva contribuito a fondare), sfidando l’ostilità del regime era riuscito a mettere in scena Il naso, capolavoro lirico di Dmitrij Šostakovič.
Napoli, Milano, Palermo, Torino, Firenze, poi Roma: i primi anni della nuova vita italiana di Delman sono costellati di successi. I musicisti che dirige sono affascinati dal suo modo di interpretare le opere, di metterne in luce i passaggi più difficili, di dare significato, grazie a metafore poetiche, a ogni singola nota. La voce dei cantanti, come gli strumenti degli orchestrali, sono chiamati a creare il suono più chiaro, il colore più adatto, il ritmo più autentico. Le sue prove sono lunghe e continue, la concentrazione richiesta è sempre altissima, ma questo è il prezzo che il direttore chiede ai suoi compagni di avventura per dare vita a quell’atto creativo comune che si chiama concerto, sinfonia, opera. Ed è un prezzo che paga anche lui in prima persona, sacrificando tempo libero ed energia vitale.
“Se l’umanità continua a esistere nonostante le nere forze del male, il merito è della musica: un’arte che ne rende più facile un’altra, quella di vivere”: con queste parole, il 18 ottobre 1979, Delman debutta a Bologna come direttore stabile del Teatro Comunale. Porta in dote la sua straordinaria capacità di interpretare le musiche di Čajkovskij, di Musorgskij, di Mahler, di Prokof’ev, musiche dai temi alti, dai respiri possenti, ma sa misurarsi pure con repertori più popolari, sfidando con coraggio le abitudini del pubblico e gli schemi dei critici. Porta con sé anche la sua solitudine e le sue piccole e grandi manie, come la diffidenza verso le incisioni su disco, che a suo parere incatenano alla fissità, mentre la musica, per lui, è cosa viva, deve sempre rinascere, cambiare, e per questo ha bisogno di essere reinterpretata. Come accade talvolta a chi è dotato di sensibilità, attenzione e riservatezza fuori misura, a qualcuno i suoi modi possono sembrare strani, bizzarri, persino eccessivi.
Dopo i tre anni bolognesi, dall’86 all’88 Delman si sposta a Parma, chiamato a dirigere l’Orchestra sinfonica dell’Emilia-Romagna “Arturo Toscanini”, un complesso di circa duecento elementi che per statuto diffonde musica in tutta la regione, anche nei centri più piccoli, grazie ai numerosi teatri storici attivi, un tessuto culturale che non ha eguali in Italia. Durante le intense stagioni parmigiane, l’instancabile artista russo presiede anche due concorsi internazionali per direttori d’orchestra esordienti e si dedica alla versione giovanile della “Toscanini”. Un’esperienza che gli torna utilissima poco dopo, quando nel pieno della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, realizza un progetto memorabile, stringendo in un abbraccio ideale le orchestre dei conservatori di tre città lontane tra loro, Milano, Mosca e Pittsburgh, unite in un programma congiunto: le sei sinfonie di Čajkovskij.
Nel 1989 si trasferisce nel capoluogo lombardo, dove lascia il suo segno indelebile alla guida dell’Orchestra sinfonica della RAI e dove nel 1993, dal seme messo a dimora con le “Magnifiche Sei”, con tenacia e con amore fa germogliare l’Orchestra “Giuseppe Verdi”, forte di ben 115 strumentisti, tutti tra i 18 e i 25 anni. Qualche mese dopo, quando si ammala, sceglie di tornare a Bologna. “Volodia”, come lo chiamano gli amici, muore alla fine di agosto del 1994, lasciando a chi resta la sua bacchetta leggera e il ricordo di tante esecuzioni appassionate. Dicono che con i giovani musicisti in apparenza fosse burbero, esigente, inflessibile, ma in sostanza il suo sguardo era tenero. A volte li chiamava “i miei bambini”.
[Per approfondire si consiglia la lettura del libro di Nicola Pirrone: “Vladimir Delman… con il cuore in gola”, Bologna, Pendragon, 2017]