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29 Gennaio 2015 | Racconti d'autore

Ferrovia Bologna-Porretta: il treno di John Cage

Un racconto di Pino Cacucci tratto dal libro “Ferrovie secondarie” (fotografie di Paolo Righi, Milano, Feltrinelli, 2014).

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

Minacciate di estinzione dal mito dell’alta velocità, le ferrovie secondarie restano utilissime e conservano storie preziose. Come quella raccontata dallo scrittore Pino Cacucci, viaggiatore esperto di mondi apparentemente dimenticati.


C’è ancora la targa datata 1863, nella stazione di Porretta Terme: con solenne cerimonia in presenza del re, si inaugurava la “strada ferrata dell’Italia centrale”, pomposamente annunciata come evento unificatore della novella nazione, poiché la tratta ferroviaria si inerpicava sull’Appennino Tosco Emiliano anticipando di ben settant’anni la cosiddetta “direttissima” che avrebbe collegato Bologna a Firenze. Dal 1934 in poi, il treno della comunemente detta Porrettana, sarebbe diventato un convoglio di pendolari e di frequentatori emiliani delle famose terme, oggi usata anche come sorta di metropolitana tra i centri abitati preappenninici, che permette di evitare l’infinita serie di curve e tornanti asfaltati.

La Porrettana, che in realtà arriva fino a Pistoia, è stata definita a ragione un “capolavoro dell’ingegneria civile”, e il secolo e mezzo o quasi trascorso dal giorno in cui venne messa quella targa ha visto mille traversie – i bombardamenti della Seconda guerra mondiale furono devastanti – e chissà quante umane vicissitudini… e anche un evento unico nella storia della musica e dell’arte contemporanea.

Correva l’anno 1978. A Bologna ci leccavamo le ferite di una stagione intensa e unica nella storia del Novecento italiano, ben più creativa e dirompente del ’68: il movimento del ’77 si era disperso tra “riflusso” e disperazione, qualcuno partiva per altri orizzonti e qualcun altro pensava a far carriera in ritardo, l’eroina dilagava, la fornace della “lotta armata” bruciava chi aveva fatto la scelta senza ritorno, e i tanti “cani sciolti”, o meglio randagi come me, cominciavano a pensare al viaggio (e alla scrittura) come unica via di fuga da una situazione annichilente. Ricordo che la notizia mi sembrò assurda, in quel clima: John Cage stava allestendo per il mese di giugno “un treno pieno di musica” sulla Porrettana. Un convoglio di sette carrozze passeggeri – modello Corbellini III classe – più una per la regia e un’altra per il gruppo elettrogeno del tipo “postali”, cioè vuote e da riempire di attrezzature.

Nell’Italia all’apice dell’eterna “emergenza”, pensai che John Cage fosse matto. Ma un matto geniale. La sua impresa ferroviario-musicale fu una breve pausa nel clima asfissiante di allora, fatto di farneticanti “cuori dello stato” e aritmici cuori allo sbando. L’idea era venuta a Tito Gotti, del Teatro Comunale, che nel gennaio del ’77, mentre noi funambolici e squinternati studenti del DAMS ne combinavamo di tutti i colori, incontrava Cage a Parigi e gliela proponeva; quasi un anno sarebbe trascorso, con tutte le tragedie di mezzo – lo studente Francesco Lorusso ucciso a fucilate, le conseguenti barricate a Bologna, cose mai viste sotto il falsamente pacioso cielo felsineo – poi, in dicembre, Cage venne qui e si fece il tragitto sulla Porrettana: fu amore a primo viaggio.

Comprati due biglietti di seconda classe, lui e Gotti si fecero Bologna-Porretta e ritorno. I pendolari, tra chiacchiere pigre e giornali sfogliati distrattamente, notarono quel singolare personaggio di sessantacinquenne strampalato che ogni tanto “auscultava” il pavimento, chinandosi al suolo per appoggiarvi l’orecchio; e avendolo sentito parlare in angloamericano con Gotti, a un certo punto qualcuno lanciò la battuta in dialetto: “Òu! A l’è arivè al zinirèl Custer!”. Gotti gliela tradusse: è arrivato il generale Custer; Cage rise e tornò a concentrarsi sui “rumori”… Di lì a poco dichiarò entusiasta: “Il suono del treno mi è parso molto interessante. Il giorno dopo ho subito scritto il progetto in ogni dettaglio, e d’accordo con Gotti ho deciso che Juan Hidalgo e Walter Marchetti avrebbero curato la realizzazione tecnica”.

Quanto ne sapevo io di John Cage allora? Poco, se si considera la marea di cose che aveva fatto, ma mi attirava, quel “matto” che a definirlo musicista era a dir poco riduttivo. Figura di prim’ordine dell’avanguardia musicale addirittura dalla fine degli anni ’30 – quando la Porrettana si vedeva surclassare dalla Direttissima – adorato da Demetrio Stratos degli Area, che ha eseguito e inciso alcune arditissime composizioni scritte per sola voce, Cage è stato per oltre quarant’anni l’artefice di una rivoluzione permanente del concetto stesso di opera musicale, e si era tolto sfizi incredibili come il “concerto per caffettiere” che eseguì niente meno che sotto gli occhi stupefatti di Mike Bongiorno a “Lascia o raddoppia?” nel 1958; utilizzava pratiche zen come tecniche compositive, scriveva e inventava, e Arnold Schönberg aveva detto di lui: “Non è un musicista, ma è un geniale inventore”.

Quel lunedì 26 giugno 1978 il treno Bologna-Porretta salpò come una nave dei folli, anzi, una lunga e festosa “gabbia di matti”, e fu fin troppo facile il gioco di parole “Cage aux folles”, l’opera teatrale del 1973 che proprio nel ’78 diventava un film con l’indimenticabile coppia Tognazzi-Serrault. Nei mesi precedenti, Cage, Hidalgo e Marchetti, coadiuvati dal produttore Oderso Rubini e dallo studio Harpo’s Bazaar, avevano registrato 210 nastri cogliendo i “rumori” di tutte le stazioni sul percorso: non solo cigolii e sferragliamenti, e il sottofondo ritmico del tutum tutum che culla i pendolari assonnati, ma anche e soprattutto voci di gente nelle stazioni, nei bar, nei mercati, versi di animali nei campi, suoni delle botteghe di artigiani e delle piccole fabbriche, persino brandelli di musica da ballo liscio.

Altoparlanti piazzati sui tetti delle carrozze e microfoni nei vagoni, per poi miscelare i suoni del presente – comprese le chiacchiere dei passeggeri – e quelli registrati, sui quali intervenivano i musicisti a bordo con strumenti tradizionali o con sintetizzatori, il tutto si concentrava nel vagone-regia dove John Cage “componeva” e diffondeva. Inoltre, c’era un sistema TV a circuito chiuso – monitor più telecamera – collocato all’ingresso dei corridoi, che durante il viaggio permetteva ai passeggeri di comunicare da una carrozza all’altra con la mimica, con biglietti scritti, e ci fu persino chi fingeva di farsi accendere la sigaretta da uno che stava in un altro vagone e porgeva l’accendino nel televisore… Oggi sembrerebbe “normale”, ma trent’anni fa era qualcosa di mai visto prima.

Nei ricordi di Oderso Rubini è rimasta una sensazione, una riflessione sul significato di quell’esperienza: “Riguarda una modalità creativa che inconsciamente mi sono portato dentro da allora e mi è venuta in soccorso ogni volta che ho dovuto affrontare il concetto di ‘possibile’ quando avevo davanti imprese impossibili o addirittura inverosimili: quel treno era inverosimile, eppure è avvenuto, Cage e tutti noi lo abbiamo realizzato”.

A ogni stazione, una festa: balli, canti, vino e prodotti tipici, e Cage sempre a miscelare e amplificare; ogni tanto restava attonito per l’accoglienza straripante, la folla gli chiedeva l’autografo come se fosse una rockstar, e lui si divertiva, stralunato, un po’ confuso, ma sempre attento ai dettagli con entusiasmo contagioso. “Questa esperienza è un happening nel senso letterale di accadimento,” disse Juan Hidalgo, “che possiamo provocare più volte ma non è replicabile, sarà sempre diversa perché fatta da tutti i partecipanti”. Fu un raro, per non dire unico, amalgama festoso tra la musica cosiddetta d’avanguardia e la manifestazione popolare, che frantumò qualsiasi previa critica di “evento d’élite” per pochi iniziati.

Poi, il tragitto di ritorno senza soste, e all’arrivo a Bologna, i suoni della stazione di notte, vuota, calma, dove ritrovare “Il silenzio perduto”, la cui ricerca è anche il titolo di quell’opera irripetibile.

[…]

Sui […] monti intorno [a Porretta] i cercatori di funghi mantengono gelosamente i segreti di dove siano le migliori “bollate”, e continuano ad alimentare l’antica disputa: i porcini appenninici sono più brutti di quelli prealpini, ma a loro dire più saporiti. John Cage, appassionato di funghi, conservò fino all’ultimo dei suoi giorni un bel ricordo di questo lembo d’Italia, dove una piccola, trascurata e poco valorizzata ferrovia, per un giorno fu il centro mondiale dell’avanguardia musicale e artistica degli anni ’70.

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