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18 Aprile 2013 | Racconti d'autore

In Romagna le dune non fioriscono più

di Vittorio Emiliani, tratto da “Belpaese Malpaese. Dai taccuini di un cronista. 1959-2012”, Bologna, Bononia University Press, 2012

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

18 aprile 2013

Vittorio Emiliani, classe 1935, nella sua lunga carriera di giornalista e scrittore ha collaborato con riviste del calibro di “Comunità”, “Mondo” ed “Espresso”, e quotidiani come “Il Giorno” e “Messaggero”, di cui è stato direttore.
Specializzato in inchieste sulle trasformazioni della società e del paesaggio, ha da poco raccolto in volume alcuni dei suoi pezzi più memorabili. Ecco il testo che nel 2003 introduceva Adriatico. Piccole storie di mare e di costa, un libro di Fabio Fiori edito da “l’Unità”.

Il primo ricordo di molti di noi, nati prima della Seconda guerra mondiale: siamo in riva all’Adriatico, in braccio a nostra madre, a una zia, o a una nonna. In faccia a quel mare mi è occorso di vivere la prima infanzia, da sei mesi a quattro anni di vita, i soli che ho passato integralmente in Romagna, precisamente a Cervia. Fra i primissimi vaghi ricordi c’è quel mare, c’è quella sabbia, ci sono le dune, ci sono quei viali di pini marittimi.
Le cugine di nostro padre avevano una loro pensione marittima aperta tre mesi d’estate: la Giannina a Rimini, la Carmela a Riccione, e almeno una volta all’anno ci invitavano per un grande pranzo, soprattutto la prima, che ebbe per oltre trent’anni sempre gli stessi clienti, anche ricchi borghesi. Quando smise per l’età e la stanchezza, si domandavano sgomenti: “Dove andremo l’anno prossimo a pensione?”.

Rammento che negli anni Cinquanta, quando già Rimini cresceva in modo allarmante (ma le stava franando addosso tutta la povertà dell’Appennino ricco solo di calanchi), c’erano ancora ampi tratti di duna fra Rimini e Riccione, dalle parti del Tiro a volo, dove arrivavamo su vecchie biciclette quasi senza freni.
Sono tornato dopo alcuni anni e il cemento aveva già invaso tutto. Il fascino della duna era stato cancellato per sempre. Come lungo l’intera costa emiliano-romagnola, con la sola eccezione di qualche oasi e del litorale verso il Delta, dopo quei Lidi Ferraresi che, più tardi, hanno imitato, persino in peggio talora, la conurbazione riminese, con una distruzione di entità incalcolabile.

All’inizio degli anni Settanta sperammo che la logica del “divertimentificio” a tutti i costi potesse conoscere una inversione di tendenza. La Regione appena nata, guidata da un uomo forte come Guido Fanti, seppe opporsi alla strada litoranea pressantemente richiesta dagli abitanti di Goro anche a costo di tranciare il meraviglioso, emozionante Boscone della Mesola. Durante un convegno di Italia Nostra a Pomposa (c’erano Giorgio Bassani, Antonio Cederna ed altri) fummo fisicamente minacciati da una marcia proveniente da Goro di aspiranti-lottizzatori furenti. Guido Fanti autorevolmente li bloccò.

Sempre in quello stesso periodo, un giorno di giugno pranzammo per ore nel vivaio della Pineta comunale di Cervia (dov’ero stato bambino, quasi infante). Ognuno dei giardinieri aveva infatti cucinato un suo piatto e portato un suo Sangiovese ed esigeva che li assaggiassimo. Mangiammo e bevemmo per non so quanto tempo. Conservo però nettissimo il ricordo, commovente, di Germano Todoli, assessore comunale cervese, un falegname, che mi diceva: “Lo sai, Vittorio, che ho sentito di nuovo cantare in pineta certi uccelli, le upupe per esempio? Non li sentivamo più da anni”. Todoli era stato fermissimo nella decisione di chiudere alla caccia centinaia di ettari di pineta comunale suscitando la protesta furibonda dei cacciatori, anzi degli sparatori locali, anche di quelli comunisti usciti dal partito. Il suo. Ma aveva tenuto duro. Era un omino energico e affettuoso.

Pensammo allora (lo teorizzava per tutti Primo Grassi, manager pubblico preveggente del turismo romagnolo) di poter dare un forte contenuto ambientale alle attività connesse all’ospitalità, di recuperare boschi e pioppeti degradati, di crearne di nuovi, di ampliare le oasi, di utilizzare in modo coerente il patrimonio delle ex colonie marittime, di contenere le spinte del “divertimentificio”, persino di ricreare le dune. “Quando ero bambino”, ha detto nell’89 in una intervista all’“Unità” il poeta Tonino Guerra, “andare al mare era per me come andare in Africa. Quando arrivavo alle dune, avevo un po’ di paura: non verrà mica qualcuno con la barca a portarmi via? Stiamo perdendo il mare. Dobbiamo buttare giù molte zone di case, creare un mondo di alberi, per far sì che questo entroterra arrivi più dolcemente dentro l’acqua. E tutti, tutti quelli che stanno vicino al mare, debbono guardare con amore le colline che hanno dietro le spalle…”. Era il nostro sogno, il nostro progetto comune.

Fu in gran parte una nobile illusione. Anche se, per esempio, Cesenatico ha creduto nel suo Museo della Marineria, galleggiante e a terra, al restauro e al recupero delle “conserve” in pieno centro storico, ad un rapporto con la cultura, con la letteratura, con la poesia che desse un senso, una identità a quella Romagna. Di qui Casa Moretti e il suo centro studi, il lavoro appassionato del mai abbastanza rimpianto Giorgio Calisesi, autore di uno dei rari libri sulla cultura marinara in Romagna (Il canale, il mare, un paese, Ponte Vecchio, 2002), il rapporto con Tonino Guerra, con Tinìn Mantegazza, con Dario Fo per reinventare anche le tende sulla spiaggia, e comunque per produrre tante iniziative culturali qualificate, che connettano mare e retroterra collinare. Una lotta inesausta dalla quale bisognerebbe non arretrare di un solo centimetro e alla quale questi scritti, queste “piccole storie” di Fabio Fiori concorrono suggerendo la rabbrividente sensazione di un suicida “spaesamento”, soprattutto italiano.

Proprio sul porto-canale di Cesenatico, una notte che avevamo bevuto e non volevamo andare a letto, Renzo Boldrini, capobarca, affabulatore marinaro come pochi, raccontò storie straordinarie di delfini e di pescatori. Era una sorta di poeta epico, di Omero dialettale. Poi, di colpo, annunciò che avrebbe lasciato per sempre il mare dove lavorava da quando aveva quindici anni: “È diventato troppo sporco, mi fa pena e schifo. Non posso andare più a pescare”. Aveva ragione dunque Tonino Guerra: “Stiamo perdendo il mare”. Ha ragione a scuotere con pessimismo la grossa testa rasata lo scrittore Gino Montesanto, chioggiotto di ascendenze ma romagnolo di formazione e cultura.

Purtroppo il modello-Rimini più corrente ha conquistato i sogni degli aspiranti lottizzatori di tutta Italia. In Maremma la duna tirrenica è ancora praticamente intatta, da Orbetello a Montalto di Castro, fioritissima in questi giorni di maggio in cui sto scrivendo. E dietro ad essa ci sono oasi incredibilmente belle, dalla Giannella al lago di Burano, sotto Capalbio. Eppure, nonostante il benessere che fluisce da una agricoltura fortemente tipizzata, dall’agriturismo, dalla trasformazione dei prodotti locali, da un turismo semistanziale e qualificato, si progettano nuovi bagni, nuovi stabilimenti, nuovi parcheggi, nuove strade, bretelle, complanari, autostrade. Il modello che si sente evocare in più sedi, il sogno neppure tanto segreto è quello, è sempre Rimini col suo rutilante “divertimentificio”. Rimini, Rimini, Rimini, óscia Rèmin! Accidenti a Rimini! Chi ce ne libererà?

 

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