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6 Febbraio 2014 | Racconti d'autore

Tempo di andare, tempo di tornare

Testo inedito di Rosi Manari e Vincenzo Castellano

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

6 febbraio 2014

La storia avventurosa di Amanzio Fiorini, orologiaio e fotografo di Nismozza, sull’Appennino reggiano, già tratteggiata su RadioEmiliaRomagna, torna a rivivere nel racconto scritto da sua nipote e dal suo consorte, impegnati nell’associazione che a Busana custodisce un prezioso patrimonio di immagini.

Ero attratto dal tempo.
Dallo scorrere del tempo.
Ero angosciato dal tempo.
Dallo scorrere del tempo.
Fra me e lui, il tempo, c’era un rapporto fortissimo, quasi primordiale.
E c’era anche tanta sofferenza in questo fluire che mi scorreva addosso, sopra, dentro.
Lo sentivo, come un leggero soffio, scivolarmi tra le mani.
Non poterlo fermare mi faceva soffrire, eppure ne avevo sempre a che fare.
A quel tempo si diceva che la maturità portava saggezza.
Che le mani callose erano pane e bimbi da sfamare.
Che un uomo aveva, prima di tutto, coraggio.
Allora…
Allora sono partito.
Là dove il tempo correva veloce come un treno a vapore, potenza della tecnologia.
Cosa c’è di più potente di un treno che divora miglia e miglia?
Cosa c’è?
Cosa c’è di più potente della nave che solca mari profondissimi?

C’è l’orologio.

Così sono andato in America, di là dall’Oceano, e il tempo è diventato il tempo necessario per imparare che giorno si dice day, settimana week, mese month, anno year.
Tempo che, da allora in poi, scorse piano, quel piano che serve per rimettere in sesto gli ingranaggi di un orologio.
Ci vuole pazienza per addomesticare le rotelle e farle andare d’accordo con le lancette e con le molle…
In America diventai orologiaio e a mia figlia misi il nome – quello vero, quello delle carte – di Elgin… che era la marca di orologi che più mi piaceva di là dall’Oceano.
Sì, mia figlia, da allora e per il resto della sua vita, si sarebbe chiamata Elgin.
Ora che ero dall’altra parte del mondo potevo, in qualche modo, dirmi fortunato.
Le mie giornate passavano all’inseguimento delle rotelle di qualche orologio al contrario di quei poveri conterranei che scavavano le fogne di Chicago “da stella a stella”.
Dal buio prima dell’alba al buio dopo il tramonto.
Ma il tempo continuava a giocare con me.
Con i miei orologi e con il mio “tempo per fare”.
Fare quello che avrei dovuto fare prima di partire.
Fare quello che avrei voluto rifare una volta partito.
Di solito, quando uno si lascia alle spalle un posto importante, un posto del cuore, fotografa dentro di sé un attimo, un’emozione.
Di solito va così.
Della mia andata via ricordavo un sacco di cose, ma c’era un unico particolare che continuava a tornarmi alla mente.
Lasciando mia madre e mio padre c’era un tempo che non ero riuscito a darmi, quel giorno di marzo in cui lasciai Nismozza.
Mi ero dato il tempo di salutare tutti, anche loro due, di fare le raccomandazioni, di assegnare quel poco di mio che lasciavo a questo o a quel parente, di…
Ma c’era una cosa che non mi ero dato il tempo di fare.
Non mi ero dato il tempo di guardarli negli occhi.
Non mi ero dato il tempo di guardarli negli occhi per fissare per sempre il loro sguardo.
E ora era il loro sguardo che non riuscivo più a mettere a fuoco.
Eppure ci provavo e cercavo anche di darmi dei suggerimenti.
“Ma come, non puoi ricordare gli occhi di tua madre, di quel celeste come il cielo di primavera, e con quel taglio particolarissimo che un po’ ce l’hai anche tu?”.
In quell’America lontana passarono tanti days, weeks, months e anche years.

Ma ci fu un tempo…
Ci fu un tempo nel quale in America mi comprai una macchina fotografica.
Una macchina fotografica e un libro di fisica.
Si, io che non avevo studiato… un libro di fisica!
Con quella macchina, ero certo. Da lì in poi non mi sarebbe più sfuggito quello che non avrebbe dovuto sfuggirmi.
L’avrei catturato dentro quella scatola come un animale.
Avrei messo dentro quella Kodak di seconda mano tutto ciò che il mio occhio avrebbe voluto, di lì in avanti, trattenere per sé.

Ma ci fu un tempo…
Ed erano passati molti days, weeks, months e years.
Ci fu un tempo buono per ritornare.
E Genova non fu più il luogo del distacco, del dolore.
Scesi dalla nave con un orologio fissato al panciotto con la catena.
Come un signore.
Con un orologio da signore e una macchina fotografica.
E la mia casa, a Nismozza, la casa che mi ero fatta costruire mandando i soldi dall’America e che ora vedevo per la prima volta…
la mia casa in alto al paese, su, piantata nel bosco, diventò il laboratorio da orologiaio e l’atelier da fotografo.
Insieme queste due cose fecero di me Amanzio Fiorini, Amanzio di quei Fiorini venuti su dalla pianura nel milleottocento come braccianti dei Manenti…
Amanzio Fiorini, orologiaio-fotografo.
E, da allora, il tempo, il tempo della mia vita, andò a ricomporsi nella lentezza necessaria per le rotelle delle sveglie e degli orologi. E nel tempo, quasi sospeso come un sospiro trattenuto, del click.
Il click del mio obiettivo che, nella sala piena di vetri sul retro della casa – la Galleria, come la chiamavo – iniziò a catturare gli sguardi.
Ecco, proprio gli sguardi.
Proprio quegli sguardi che, nel ricordo di mia madre e mio padre, non ero riuscito a trattenere.
Da allora, in quell’attimo sospeso che precede il click, decine di volte ho guardato il viso che avevo davanti, l’ho scrutato e riscrutato fino a che il suo sguardo ha mostrato uno squarcio di cuore.
Solo allora, e per tutte le volte a seguire, il mio click ha catturato un’anima, un animale selvatico, un’emozione impercettibile.

Su, nella casa piantata nel bosco, avevo ricreato una famiglia, dopo la morte della mia prima moglie. Lì era arrivata così la Melania, una vita da serva seppure figlia di un ricco rampollo del paese. Una figlia non riconosciuta che si prese cura dei miei quattro figli e ne fece una con me, che si chiamò Armanda… come la sua padrona di una vita.
Da lì in poi il tempo della casa piantata nel bosco fu condizionato dalla sua presenza di donna del popolo, decisa, di poche smancerie, custode delle galline, grande cuoca, che guardava la rosa che amavo crescere davanti a casa con un occhio di sospetto.
Ma il mio rapporto con il tempo non aveva ancora finito di esprimersi.
Ci fu un giorno nel quale Achille Simonelli piombò nella mia Galleria rosso di fuoco in viso e con un oggetto in mano.
“Ho comprato questa sveglia a Genova e non ha mai funzionato un solo minuto! Tienila tu, Amanzio. Se riesci a farla funzionare, te la regalo”.
Con l’occhio affettuoso col quale si guarda un paesano, che nove volte su dieci è anche parente, e trattenendo una sonora risata, feci notare ad Achille che mai e poi mai sarebbe stato in grado di far camminare quella sveglia.
Non ci sarebbe riuscito, perché non di una sveglia si trattava… ma di un barometro.
Insomma, una cosa che doveva leggere il tempo buono e quello cattivo, non leggere i minuti e le ore.
Così, quasi per uno strano scherzo del destino, di lì in avanti non divenni solo il custode del tempo che segna le ore delle sue sveglie ed il click della sua macchina fotografica.
Di lì in avanti diventai colui il quale, in paese, era in grado di sapere cosa avrebbero portato quelle nuvole al Passo del Cerreto o quel vento che scendeva dal Ventasso.
Me lo diceva lui, il barometro, e io lo dicevo agli altri come un segreto rivelato, come un’interpretazione degli astri.

Strano destino, il mio.
Strano destino quello di Amanzio dei Fiorini venuti dalla pianura nel milleottocento per fare i braccianti ai Manenti, diventato Amanzio Fiorini orologiaio-fotografo.
Strano rapporto, quello con il tempo.
Il tempo per andare e quello per ritornare.
Un tempo quasi circolare, come quello della filastrocca che mi ero portato via, assieme alle poche cose che avevo e che ora mi riportava qui, fra i miei castagni, Amanzio Fiorini orologiaio-fotografo.

Gh’era una vota un top e un risc
Chi rampevne supra un canisc
Al canisc undì la vota
Voet che t’larcunti un’atra vota?

 

Brano corrente

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