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4 Ottobre 2014 | Paesaggio dell'anima

Dopo Caporetto

Un viaggio in regione attraverso la musica

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redighieri.

Coro Grigna: Ti ricordi la sera dei baci.

Cominciamo la puntata di oggi, cari amici, con una famosa canzone degli Alpini. Stiamo ancora parlando della Grande Guerra e siamo ancora nella Bologna di cent’anni fa. Bologna tra il 1914 e il 1919 aveva un sindaco socialista, Francesco Zanardi, che era contro la guerra: fu lui a inaugurare la lunga stagione della sinistra al potere, interrotta dall’avvento del fascismo e ripresa dopo il secondo conflitto mondiale. “Pane e alfabeto” era il motto di Zanardi, che aveva in mente due cose: alleviare la fame dei bolognesi in tempo di guerra, e garantire l’istruzione delle classi meno agiate. “Noi proclamiamo il nostro orrore per la guerra”, recitava un manifesto della Giunta comunale del 1° maggio 1915, attirandosi l’accusa di disfattismo e tradimento da parte dei liberali e dei conservatori. I prezzi aumentavano per la scarsità dei beni? Il Comune rispondeva con i famosi “negozi Zanardi”: 27 tra spacci e negozi in tutta la città in cui si distribuivano generi alimentari e cibi sani a basso prezzo, e si poteva acquistare carne, farina, pane, addirittura scarpe. Un quinto dei bolognesi si metteva in coda ogni giorno per comprare a prezzi molto favorevoli ciò di cui aveva bisogno. Nessuno doveva morire di fame, a Bologna. Intanto, i soldati morivano in trincea.   

Mugnai, Alidori, Orchestra e Coro Durium: Ricordi di trincea.

Se oggi andiamo a vedere una mostra al Mambo, il Museo d’arte moderna di Bologna, ci riesce difficile immaginare il profumo di pane che usciva da questi muri, quando qui c’era il panificio comunale voluto dal sindaco socialista. L’obiettivo della giunta Zanardi era di proteggere il popolo e favorirne la crescita e l’educazione. Non solo pane, quindi, ma anche mense per gli orfani di guerra, asili, scuole, biblioteche, miglioramento delle condizioni igieniche delle abitazioni. Zanardi istituì i pre-scuola, i dopo-scuola e le scuole all’aria aperta ai Giardini Margherita e in collina per i bambini malaticci e gracilini. L’assessore all’istruzione Longhena, cui oggi è dedicata una scuola, diceva che mentre la guerra al fronte “cominciava il suo ritmo inutile di morte, la vita rinasceva in tutte le scuole di Bologna”, che, infatti, non chiusero un solo giorno durante il conflitto. L’amministrazione socialista aprì anche cinque biblioteche comunali: sono le “nonne”, si può dire, delle attuali biblioteche di quartiere che fanno di Bologna una delle prime città in Italia per consumi culturali. Insomma, le donne facevano il lavoro degli uomini, i bambini andavano a scuola, i soldati tornavano dal fronte (non tutti), e la vita si ritagliava il suo spazio in mezzo alla distruzione e alla morte.

Massimo Bubola: Da Caporetto al Piave.

Caporetto fu la grande paura. Ancora oggi, la parola Caporetto è sinonimo di disastro. “La mia Caporetto”, canta Symbiance nella canzone che sentiremo dopo: come dire, la mia disfatta personale. Il 24 ottobre 1917 l’esercito austroungarico con il rinforzo di truppe tedesche sfondò le linee difensive italiane dilagando verso la pianura. Gli italiani si ritirarono in modo caotico e disordinato, lasciando sul campo 12mila morti e 265 mila prigionieri. I feriti furono 30mila e un milione i profughi costretti ad abbandonare le proprie case. Molti di questi profughi arrivarono a Bologna creando un grave problema sociale: avevano bisogno di ospitalità, cibo e assistenza. Intanto, l’Istituto Rizzoli, un ospedale specializzato in ortopedia, si attrezzava a ricevere feriti e mutilati che arrivavano sempre più numerosi. Il professor Putti, che lo dirigeva, trasformò in sale di degenza anche la biblioteca e il refettorio dei monaci.

Symbiance: My Caporetto.

L’ultima linea su cui organizzare la difesa, venne posta sul fiume Piave: o Piave o morte, non c’era altra scelta. E “il Piave mormorò: non passa lo straniero”! Alla fine della guerra, anche Bologna contò i suoi caduti, che furono 2536. Il 12 giugno 1925 nel chiostro della chiesa di Santo Stefano fu inaugurato il lapidario con i nomi di tutte le vittime bolognesi di questa tragedia immane. Lapidi e cippi sorsero un po’ ovunque, nelle scuole, nelle fabbriche, nelle parrocchie e nelle associazioni, per non dimenticare. Anche vie e parchi furono dedicati alla Grande Guerra, come la via Ragazzi del ’99, per ricordare i diciottenni mandati a morire sul Piave. A ricordarli, sono i ragazzi nati cent’anni dopo, nel 1999, della classe terza media della scuola Giuseppe Dozza nel libro “Gente comune impigliata nella storia. I bolognesi nella Grande Guerra”. Gli studenti di oggi ricordano i coetanei di ieri: povere storie di vite spezzate, come quella di Luigi, cameriere, che prima nutriva le persone, e ora i cimiteri. O di Silvio, meccanico, morto di tubercolosi contratta in trincea. O di Aldo, studente in medicina. E Giorgio e Beppe, morti per le ferite. E Primo, intossicato dai gas. E Italo, studente d’ingegneria, colpito da una granata. Avevano tutti meno di vent’anni. Dormono nell’eternità, i ragazzi del ’99.  

Fanfara e Coro diretti da V. Santini: La leggenda del Piave.

Brano corrente

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