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19 Luglio 2016 | Archivio / Protagonisti

Catherine Dunne nella Casa delle donne di Bologna

Al centro che si batte contro la violenza sulle donne la scrittrice irlandese ha raccontato il suo punto di vista sul fenomeno

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Alessia Del Bianco

Care amiche e cari amici di RadioEmiliaRomagna, le protagoniste di oggi sono una scrittrice che mette spesso al centro delle sue trame le vicende di donne coraggiose e una associazione che ogni giorno dà protezione e infonde coraggio a donne in carne e ossa.

La “Casa delle donne per non subire violenza” è un’associazione che dal 1990, a Bologna, ascolta, accoglie e aiuta, in modo concreto e gratuito, le vittime di persecuzioni, maltrattamenti e violenze (www.casadonne.it/wordpress/).
Il centro si occupa anche di monitorare il fenomeno e di promuoverne la consapevolezza, e a questo scopo organizza anche un festival intitolato “La violenza illustrata” (festivalviolenzaillustrata.blogspot.it/), l’unico su questo tema in Italia, paese in cui negli ultimi 10 anni sono state uccise più di 1.150 donne.

Nel novembre del 2015, in occasione della decima edizione del festival e dei 25 anni di attività, il centro, in collaborazione con la Biblioteca italiana delle donne, ha invitato la scrittrice irlandese Catherine Dunne a raccontare il suo particolare punto di vista: la prospettiva di chi, partendo dalla cruda crealtà dei fatti, si trova a “inventare” storie di protagoniste femminili che subiscono la violenza maschile (catherinedunne.it/tre-giorni-a-bologna/). Grazie alla “Casa delle donne” possiamo farvi leggere e ascoltare la parte iniziale del suo discorso.

Nuove grammatiche dell’amore
di Catherine Dunne

Sono molto grata alla Casa delle donne per non subire violenza per questo invito, e sono onorata di celebrare con voi il decimo anniversario del festival, aiutando nel mio piccolo a continuare il vostro essenziale lavoro di sensibilizzazione sul complesso tema della violenza di genere.
Da dove cominciare?
Quando ho iniziato a preparare questo intervento, mi sono sentita sopraffatta. Ho letto centinaia di articoli sul tema delle relazioni violente. Ho scritto migliaia di parole. Ho seguito decine di ricerche accademiche. Ho parlato con gli assistenti sociali. Ho cercato di capire che cosa spinga un rapporto tra un uomo e una donna al di là dei confini della sicurezza e del rispetto, in quello spazio caotico e liminale della violenza e del controllo. Potrei bombardarvi di statistiche. Potrei parlarvi delle esperienze nazionali ed internazionali che chi fa ricerca ha documentato nel corso degli anni. E alla fine di tutto questo, potremmo non saperne molto di più – potremmo semplicemente accettare il fatto che esistano queste relazioni violente, senza neanche cominciare a capire perché esistano. Quel che è inquietante dell’esistenza di tanti lavori su un tema così oscuro, è riconoscere come l’intera cultura della violenza contro le donne sia radicata in ogni società.
Diverse settimane fa, ho cominciato a pensare al titolo del discorso che sono stata invitata a fare oggi. Nella loro proposta, le organizzatrici mi avevano suggerito di esplorare il concetto delle “nuove grammatiche dell’amore” tra uomini e donne, e ho sentito che si trattava di una frase molto appropriata. Ci aiuta ad allontanarci da una comprensione statistica di ciò che accade e a entrare nel regno filosofico infinitamente più complesso del perché queste cose accadono. Io credo che la narrazione, tra le molte altre forze – culturali, legali, educative – abbia un ruolo da svolgere anche nello sviluppo della nostra comprensione del perché, e su questo tornerò in seguito.

Per prima cosa però, cominciamo dalla grammatica. La grammatica è, dopo tutto, quell’insieme di regole strutturali che disciplinano la composizione di espressioni, frasi e parole in qualsiasi linguaggio naturale. Le regole governano il comportamento della grammatica. Quando queste regole sono infrante, la confusione regna sovrana: i presupposti vengono a mancare e la comunicazione porta a scarsi risultati. La lingua offusca là dove dovrebbe illuminare e il significato si sfalda. Se abbandoniamo le regole sensate della grammatica, possiamo anche parlare la stessa lingua, ma non saremo più in grado di capirci, questo è ovvio. Tuttavia, se adottiamo un insieme condiviso di regole grammaticali e ci adeguiamo ad esse, abbiamo almeno la possibilità di comprendere le parole dell’altro, anche se non necessariamente tutti i livelli di significato e nemmeno la motivazione di chi parla.
Guardare la parola “amore” è, però, decisamente più problematico. La parola “amore” è oggi usata per coprire una tale moltitudine di sentimenti che ci sembra a volte di perdere il suo valore, il suo potere di evocare emozioni, scelte, comportamenti positivi. “Amiamo” un film o un romanzo nello stesso modo in cui noi “amiamo” i nostri figli? Quando diciamo “ti amo” vogliamo dire “farò sempre il possibile per trattarti con dignità e rispetto” o “voglio possederti”? Il desiderio di possedere ed essere posseduti è una caratteristica di quelle relazioni erotiche appassionate in cui gli amanti voglio dissolvere i confini che li dividono, per arrivare quasi ad abitare l’uno nell’altro – basta solo guardare alle poesie d’amore più potenti per vedere questo sentimento esplorato ed espresso in maniera più bella e più precisa di quanto sia in grado di fare io qui. Ma il mio punto è che i sentimenti che accompagnano l’amore tra un uomo e una donna hanno molte sfaccettature, e una volta che gli amanti parlano lo stesso linguaggio, un linguaggio di uguaglianza e di stima e affetto, la loro grammatica personale, il loro lessico privato, saranno sempre all’altezza.

Credo che la maggior parte della buona narrativa si confronti con questi temi, rappresentando le relazioni tra uomini e donne con tutta la loro complessità, la loro ricchezza, e i loro pericoli.
Torniamo per un attimo alla nozione di grammatica e alle sue regole condivise. A volte, nel mondo della letteratura, infrangere le regole può avere effetti sorprendenti e positivi. Ricordate gli esperimenti linguistici di Joyce in Finnegans Wake o, più recentemente, quelli di Eimear MacBride in A Girl is a Half-Formed Thing – queste opere d’arte creano una nuova grammatica, uno sguardo innovativo su forme antiche ed esaurite, e il risultato è un linguaggio nuovo di zecca e stimolante. Ma prima che si possano infrangere le regole della grammatica, bisogna conoscerle. Dobbiamo capire come funzionano prima di poterle mettere da parte e inventarne di nuove. E questa mi sembra la metafora perfetta per le nostre osservazioni qui oggi. Poiché le regole – dette e non dette – governano anche il comportamento sociale e personale degli uomini e delle donne. Prima di cambiare queste regole – e dobbiamo cercare di cambiarle – abbiamo bisogno di capire come funzionano.
A volte, le regole che sono alla base del nostro comportamento sono strumenti diretti e scontati che non ci lasciano alcun dubbio circa le loro finalità. Bisogna pagare le tasse; non si deve uccidere, non si deve rubare. Sotto queste regole si cela un presupposto più torbido: “se si viene scoperti…”. Altre volte, più subdolamente, ci sono regole che sono molto più sottili, meno evidenti, ma il loro impatto non è meno profondo. In realtà, probabilmente, il loro impatto è ancora più profondo, proprio a causa della loro invisibilità. Pensate, per un momento, a ciò che chiamiamo “il soffitto di cristallo” – quella barriera invisibile che le donne incontrano nel mondo del lavoro, che dice “fin qui ma non oltre”. Questo è il significato di “soffitto di cristallo”: che le donne raramente saranno promosse al di là di un certo livello; conosciamo tutti una donna che è l’eccezione alla regola, il che conferma il mio punto, ma non siamo del tutto sicuri di come funzioni esattamente la barriera. Si tratta di quelle che mi piace chiamare le “regole ombra”, quelle norme nascoste che impediscono l’uguaglianza tra i sessi. Spesso queste regole informano le nostre ipotesi e le nostre convinzioni, così come i nostri comportamenti – e la maggior parte del tempo, non ci rendiamo neanche conto che vi stiamo obbedendo.

Ecco da dove voglio cominciare oggi. Voglio che guardiamo ai presupposti, ai consensi, ai silenzi, al senso maschile di superiorità che spesso è l’impalcatura che sostiene l’atteggiamento verso le donne nella nostra società di oggi. E quando dico “nostra” società, che cosa voglio dire? Intendo solo la società occidentale? Che dire dell’India? O del Pakistan? O dell’Afghanistan? O dell’Egitto, dove l’aggressione e gli stupri ai danni delle donne che protestavano in piazza Tahrir sono stati un metodo efficace per metterle a tacere, per togliere loro il senso di libertà di cui avevano precedentemente goduto. Potremmo parlare di stupro come arma di guerra. Oppure dello stupro come espressione del senso di diritto acquisito che alcuni uomini pretenderebbero di avere – uomini come il predatore Dominique Strauss-Khan, o come Silvio Berlusconi. Alla base di tutti questi abusi di potere è la nozione non dichiarata, ma profondamente radicata, che dice: “io ho il potere di controllarti”. E da quel senso di potere emerge l’inevitabile conclusione: ho il potere, e quindi ho il diritto.
È qui che ha inizio ogni violenza. La violenza può essere espressa in modi diversi, ma fondamentalmente, al suo cuore, c’è la convinzione di un individuo che si arroga il diritto e la presunzione di controllare la vita di un altro. Questa convinzione si esprime nel modo in cui le nostre società sono organizzate ancora oggi: il potere, l’autorità, l’influenza, in tutte le società, appartengono ancora prevalentemente agli uomini.
Quello che ora credo, a malincuore, è che una visione simile delle donne esista in ogni nazione, in tutto il mondo. Le differenze tra noi tutte sono di grado piuttosto che di sostanza. Lo stupro e l’omicidio e la violenza contro le donne sono parte dello stesso continuum che inizia con la mancanza di parità, continua con le molestie e le intimidazioni, e termina nel più grave abuso di potere. E includo nelle molestie ciò che accade nei luoghi di lavoro e online.

Proprio di recente, un rapporto sui luoghi di lavoro in Irlanda ha evidenziato il fatto che ancora oggi – ancora oggi! – le donne sono pagate meno degli uomini per lavori comparabili, o per un lavoro di pari valore. La relazione conclude che le donne ricevono ancora l’84% di ciò che gli uomini percepiscono regolarmente – il che ammonta a ben sette settimane di lavoro non retribuito per donna ogni anno. È una battaglia che forse pensavamo di aver vinto e invece resta un altro presupposto che deve essere messo in discussione. In altri paesi europei il divario retributivo è ancora più grande, con buona pace per la nostra fede nella correttezza e uguaglianza del ventunesimo secolo.
Ricordo di aver fatto qualche ricerca in questo settore della disuguaglianza negli anni Ottanta, e anche se il divario di retribuzione non è più ampio come allora, il fatto che continui a esistere è inaccettabile. Tra gli altri settori in cui le cose non sono molto cambiate c’è quello del “lavoro d’amore”, ovvero il lavoro di cura e cura dei figli, e l’assunzione di una quantità sproporzionata di responsabilità nel lavoro domestico: tutto ciò rimane ancora saldamente un onere delle donne. Questa è un’altra di quelle “regole ombra”, qualcosa di non necessariamente espresso, né di regolato a livello legislativo – se lo fosse, insieme potremmo trovare la voce per combatterlo – eppure qualcosa che è ancora saldamente inserito nella nostra cultura e che è estremamente difficile contestare.

E dagli anni Ottanta a oggi c’è un altro spazio per intimidazioni e molestie con cui fare i conti: esiste grazie a Internet. I progressi tecnologici hanno arricchito la nostra vita in molti sensi. Ma, per molti aspetti, hanno reso gli individui vulnerabili all’abuso: un abuso che comprende lo stalking, il cyber-bullismo e l’intimidazione. Ho visto troppi esempi di donne che prendono la parola contro le ingiustizie, in particolare su Twitter, diventare vittime di ogni sorta di vili minacce, non appena alzano la voce uscendo allo scoperto.
Verso la fine del 2011, ho letto un articolo di una giornalista britannica, Laurie Penny, che scriveva: “Un’opinione, a quanto pare, è la gonna corta di Internet. Averne una e mostrarla è un po’ come sollecitare una massa amorfa di detrattori da tastiera, quasi interamente maschi, a dirti quanto sarebbero felici di stuprarti, ucciderti, e urinarti adosso”.
In quale universo è accettabile parlare con un altro essere umano in questo modo? Mary Beard, la meravigliosa studiosa classica britannica, è stata vittima di un simile abuso quando ha avuto il coraggio di esprimere un parere che andava contro le opinioni di un pubblico maschile male informato, prevenuto e privilegiato. Laurie Penny ha deciso di rendere pubbliche le minacce che aveva ricevuto, e la risposta ha dimostrato come la sua esperienza fosse tutt’altro che unica: decine di donne hanno cominciato a condividere le proprie storie di molestie, intimidazione e stalking. Questo comportamento su Twitter è un’altra indicazione della censura della voce delle donne, così pervasiva che spesso smettiamo di notarla. In particolare, la decisione di Penny di mettere in luce quegli eventi ci ha mostrato ancora una volta atteggiamenti che rimangono spesso nascosti. Così, le cose orribili che sono stati scritte a e su alcune donne hanno avuto un effetto inconscio, e senza dubbio non intenzionale.

Il punto, su esperienze come queste, è che non possiamo separare questo tipo di comportamento da tutti gli altri comportamenti abusivi, dai pregiudizi e dalle censure che fanno parte del continuum che porta alla violenza contro le donne, sia per le strade e che nelle case. Il mio viaggio per comprendere la natura di questo continuum è stato difficile e doloroso e mi ha portato da una prima comprensione delle diseguaglianze nella società, quando ero una giovane intellettuale, alla più profonda comprensione emotiva dei miei anni successivi.
Nel corso del tempo mi sono imbattuta in molte osservazioni sulle regole che governano i rapporti tra uomini e donne, molte delle quali provenienti da scrittori e scrittrici. Ho sempre ammirato il lavoro di Margaret Atwood, e devo ammettere che sono rimasta sorpresa quando mi sono imbattuta nella sua affermazione per cui “gli uomini hanno paura che le donne ridano di loro; le donne hanno paura che gli uomini le uccidano”. Questa osservazione sorprendente è emersa da un’indagine di Atwood che ha chiesto a uomini e donne, in modo casuale, cosa temessero di più, una domanda che è stata poi la base per un programma televisivo sulla violenza di genere andato in onda circa dieci anni fa negli Stati Uniti. Gli uomini temevano l’umiliazione per mano delle donne. O temevano il fallimento, o di essere inadeguati. Le donne avevano paura dello stupro, della violenza sessuale, dell’omicidio per mano degli uomini.
Per mano di alcuni uomini, deve essere sottolineato: non tutti gli uomini, alcuni uomini. Vi è anche, naturalmente, la violenza perpetrata dagli uomini contro gli uomini: lo vediamo nelle nostre strade ogni giorno. E c’è anche la violenza perpetrata da donne contro gli uomini: è altrettanto inaccettabile. Ma evidenze schiaccianti confermano la straordinaria prevalenza della violenza contro le donne per mano di uomini, sia “violenza da sconosciuti”, che violenza nelle case, nell’apparente sicurezza dei propri rapporti privati.

[…]

[Il discorso di Catherine Dunne è stato tradotto da Elisa Arfini; per leggerlo integralmente: festivalviolenzaillustrata.blogspot.it/p/materiali.html]

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