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17 Novembre 2011 | Racconti d'autore

Via Belle Arti 56

di Andrea Emiliani, Il lavoro editoriale, 2011

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri

17 novembre 2011

Cari ascoltatori, oggi vi leggiamo alcune pagine tratte dalla “conversazione-autobiografia” di Andrea Emiliani, uscita in occasione dell’ottantesimo compleanno dello storico dell’arte, che è stato Soprintendente per i beni artistici e storici di Bologna, professore di Museografia nell’ateneo bolognese, vicepresidente dell’Istituto per i beni artistici e storici dell’Emilia-Romagna e direttore della Pinacoteca Nazionale di Bologna, che ha sede nella strada che dà il titolo al volume, Via Belle Arti 56.

La lettura è interessante perché Emiliani è uno dei maggiori storici dell’arte italiani, capace come pochi di conciliare la competenza scientifica con la passione intellettuale e civile. In questo volume sono raccolti, sulla traccia della memoria, i principali momenti della sua vita intellettuale, dalla situazione difficile del dopoguerra all’esperienza delle grandi mostre scientifiche, dalla felice giovinezza trascorsa a Urbino ai grandi maestri e amici, fino all’avventura della politica regionale dei beni culturali.
Nelle pagine che seguono, Andrea Emiliani racconta il suo arrivo a Bologna nel 1950.

Vai alla rubrica Protagonisti dedicata ad Andrea Emiliani.

Parte II.
Bologna, gli studi universitari, la Pinacoteca Nazionale
.

Dunque, nel 1950 c’è il trasferimento a Bologna, l’avvio degli Studì universitari, la scoperta di un mondo, sociale, artistico e intellettuale molto diverso da quello urbinate.

Provenendo da Urbino, conoscevo una società nella quale, come in ogni città marchigiana, la vita sociale era piana e scii za i risentimenti d’una guerra anche civile appena terminata. Conobbi negli anni successivi Ferrara e il suo milieu ancora cortigiano, scoprendovii al contrario una frattura classista che si apriva come un abisso sociale tra borghesi cittadini, grossi possidenti, e lavoratori. peggio ancora se braccianti. La candida vita urbinate aveva – nel confronio – quasi l’aspetto di un dipinto nazareno o prerafaellita. Trassi da quell’esperienza, da quella diversità, un disagio indimenticabile.

L’arrivo a Bologna avveniva tuttavia in modo ben più mediato. La città stessa non apparteneva all’ordine padano delle cortigiane decadute: non conosceva il rovello dello stile e del capitale perduto. Allora. Bologna era una città di grandi venditori, commercianti laboriosi, mercato agricolo il lunedì e tapparelle grige con bavero di lupini. Anche la prostituzione aveva la stia altezza: la contessa, si chiamava così una signora un po’ in età, si faceva accompagnare da una vecchia distinta che spacciava, per sua madre. I clienti romagnoli fioccavano.

Bologna rispetto a Urbino era una metropoli. E il tram che scampanellava di fianco a San Petronio, lungo il Pavaglione, per chiedere la precedenza, aveva ancora un’aria perfino

aggressiva. Poiché per qualche mese ancora dovevo vivere nella campagna ferrarese e l’estate guadagnare qualcosa l’avorando allo zuccherificio dì Jolanda di Savoia, pensai bene di osservare con attenzione Pomposa che, a pochi passi, emergeva ancora tra le acque come nel dipinto dì De Pisís con il grande pesce in natura morta. Poiché nell’estate del ’50 avevo visto la mostra della Pittura del Trecento bolognese, dentro quella Pinacoteca che poi sarebbe stata il mio guscio per tutta la vita, ricordo bene l’ostinazione con la quale lessi e tornai a leggere la presentazione di Longhi, trenta pagine e la promessa in corsivo che l’edizione definitiva del catalogo sarebbe uscita presto: cosa mai avvenuta. Nella campagna vicino alla Berra, luoghi del Mulino del Po, c’era e fortunatamente esiste tuttora, una chiesetta dedicata a San Venanzio, con la sua data riconoscibile nell’indictio, il 1344. Divenne per me un piccolo cantiere, sia di (disperata) conservazione, sia di tentativi di conoscenza. La conoscenza era rivolta anche a Francesco Arcangeli, al quale mi presentai appunto con i risultati approssimativi della mia indagine solitaria. Rammento che rni chiesi se c’era proprio bisogno di far tanta fatica per andare a trovarlo. In realtà, egli stava abbandonando l’Università ed era in arrivo quel gentiluomo che era. Rodolfo Pallucchini.

Un certo “longhismo”, intinto anche di atteggiamenti di superiorità e dì letteratura, sopravvisse a lungo in quello stanzone che stava assumendo – proprio per merito dì Pallucchini – la targa che finalmente intitolava l’istituto alla memoria di Igino Benvenuto Supino. Era il nome del primo docente di storia dell’arte, il pisano allievo di Venturi, che vinse la cattedra di via Zamboni nel 1905 battendo Toesca stesso e che domo in morte la sua bellissima biblioteca. C’è da domandarsi cosa sarebbe accaduto al giovane allievo torinese di quest’ultimo, Roberto Longhi di Alba, se fosse avvenuto il contrario. La mia vita non è stata universitaria. Troppo freddo, poche lire, mangiare approssimativo, chiasso in biblioteca. Molte, malizie, anche femminili.

Quanto a fascino, non credo di aver conosciuto Bologna in modo diverso da Labat o da Caylus. La città era ancora tutta dentro le mura di Antonio di Vincenzo, cosicché, per chi veniva da Ferrara oppure dalla bassa di Budrio, essa appariva alta come un archetipo sul braccio di San Petronio. Le due torri al centro e la grande nave della chiesa navigavano tra le messi come aveva scritto Leandro Alberti nei 1550.

Anche nelle prime esperienze di vita culturale le. cose andarono un po’ in quel modo. Riapro Montesquieu., cerco il luglio 1729, e il suo arrivo in questa città. Dettava con agio al suo segretario come ci fosse in città “una gran disputa tra Bolognesi e Romani: questi ultimi portano alle stelle Annibale Carracci, che ha vissuto e lavorato nella loro città. I Bolognesi esaltano Ludovico, che è rimasto a Bologna e considerano Annibale un disertore”. Il profeta di Ludovico è il Malvasia con le sue Vite. C’è di più, proseguiva Montesquieu. Leggendo Malvasia si apprende come “il Vasari. sia stato molto ingiusto verso i pittori di Bologna”, concludendo che sono Cimabue e Giotto che “hanno fatto rinascere la pittura”. Il Malvasia comunque, pur ritenendo che all’epoca “c’erano dei buoni pittori, a Bologna, per quei tempi”, ammetteva che Cimabue e Giotto “facevano meglio: il che è ammettere molto, mi sembra”.

A Bologna, dunque, all’aprìrsi dell’anno 195;1, si discuteva come nel 1729 tra intellettuali e viaggiatori del problema delle origini e della priorità da decidere tra una pittura di naturalismo esistenziale e di corpo, e cioè di Ludovico; e la lenta, fatale deriva provocata da Annibale verso le terre del classicismo gestite come un primato, ma per- sempre consacrate dal romano Giovan Pietro Bel lori, Ancorata alla storia illustre, legata con catene indissolubili, la città.non è mai stata in grado di disertare i canoni d’una dignità di storicismo corporativo. L’ultimo che ci aveva provato era stato Pietro Giordani, riformatore della lingua e tuttavia attento all’arte figurativa, un brano assai grande della. storia della società. Con la Restaurazione, nel 1815, fu buttato fuori dall’Accademia come un traditore, un pericoloso rivoluzionario. Mi accorgo mentre ne parlo che anche Bologna (come mi succede per Urbino) mi mosse dentro una miscela cromatica e non soltanto emozionale, che mi accolse come u n odore di vino caldo in una delle osterie che allora non fingevano ruoli di vita proletaria. D’altra parte, come non annusare quell’odore nel chiuso un po’ pecoreccio dei dibattiti giovanili? Veniva diritto da Roberto Longhi, che nel ’34, data luminosa il 1 dicembre, aveva stappato, grazie alla sua prolusione famosa, un’antica versione della pittura bolognese;, del gusto (e cioè del grand gout) dei bolognesi, della natura spalancata come una finestra..E che insomma per primo, incurante del colpo dì pistola che John Ruskin stesso aveva minacciato, a suo tempo, contro chiunque avesse portato dentro la National Gallery di Londra un altro Annibale Carracci, si era rimesso ad. agitare la bandierona della famiglia e la fedeltà della scuola artistica, antecedente e conseguente.

Nel ’34 Longhi aveva già quarantaquattro anni, ed era fuori dal giro e – come si diceva gi allora – piuttosto un free lance critico e temibile conoscitore. La sua partecipazione al concorso, m mezzo a molti più giovani allievi di Venturi e di Toesca, si dice che sventasse anche il pericolo che la cattedra finisse sotto il sedere di un gerarca, che intendeva togliersi dalla scomoda direzione delle Belle Arti, ora che Giuseppe. Bottai stava virando verso l’Istruzione e il Minculpop. Mario Salmi scriverà lapidariamente: in una corsa di ciuchi aveva vinto il solo cavallo vero.

Erano quelli gli anni dei giovanissimi padani, animosi critici prima assai che storici, Arcangeli e Graziani, e con loro il poeta Bertalucci, e per molti versi anche Giorgio Bassani. Il naturalismo era il milieu anche letterario, dove la lettura di Rimbaud li aveva gettati e immersi: e Longhi, prima della guerra, era molto diverso dal professore del dopoguerra e di via Benedetto Fortini 30. La cultura padana che Longhi citava senza ambasce. negli anni Trenta non era un limite antropologico che conducesse all’autarchia. Salimbene de Adam era la lettura di Bertolucci e anche di Sereni, e per Arcangeli la misura spazio-temporale era alla fine una difesa che andava ad inscriversi nel quadro del presentimento aurorale, quello della mondializzazione al quale reagire con le forze più decisamente umane e non ideologiche, quelle di Cam.us e de L’homme revolté

A me, che giungevo da Urbino, in nessun modo predisposto agli strapazzi del naturalismo come vita, la caduta della storia e l’abbraccio del tempo affascinavano di più. Chi aveva vissuto come me in faccia al Palazzo di Luciano Laurana per dieci e pila anni, a Urbino, difficilmente poteva abbandonare l’aureo involucro anche filosofico della forma per immergersi nell’empito esistenziale d`una natura naturans.

Credo di averlo già detto, la mia prima notte bolognese la passai in una pensione che stava in via Clavature, palazzo dei Banchi, un intervento del Vignola tardo e però bellissimo, costruito per fare da fondale più che prospettico, ricco e funzionale, alla moderna piazza Maggiore. Le due isole che si aprono ad ampia arcata e che sfondano il volume ricco e anche imponente dei Banchi, creano un passaggio a giorno sui mercati di via Clavature e di vicolo Ranocchi. Era novembre, la nebbia gravava già sulla mattinata petroniana ed io, salito al risveglio su un alto gradino che mi portava al finestrino ovale di sottotetto, scoprii di essere ad altezza d’occhio delle grandi candelabre gotiche di Antonio di Vincenzo, le quali .fiancheggiano San Petronio. Come non seguitare ad adorare la forma in mezzo a quella fioritura cortese e flamlboyant che è la cosa più affascinante del tempio e della sua facciata incompiuta? Poi ho seguitato a cercare emozioni, echi rinascimentali, ad esemplo privilegiando Ferrara, palazzi e chiese. dove l’orma razionale di Leon Battista ha lasciato addirittura nel campanile della cattedrale un prontuario per le misure della rinascenza, pronto alla trascrizione e all’uso. Bologna, a pensarci bene, è un’immagine singolare. robusta anche se non muscolare nelle sue architetture. Si sente bene che certi volumi romanici, attestati qui davanti ad una Romagna, dove per tradizione philosophia non legitur (e il romanico lottava ai suoi giorni contro una protratta idea bizantina della forma e della luce), qui sono stati per così dire inghiottiti dall’architettura. Già intorno ai primi decenni del Cinquecento, essa impostava anche in queste strade dignità e affacciamenti suggeriti dal romanisrno ormai penetrato; nei Peruzzi, cioè Palazzo dal Monte, nei Terribiglia, in Pellegrino e Domenico Tibaldi, fino al Magenta, solenne architetto vaticano. Ma la forma architettonica di Bologna seguita a star sospesa tra la massa romanico-gotica con la sua immensa cortinatura di mattone rosso e affumicato; e una serre di palazzoni che non nascono dal nulla, ma mostrano contenere, magari nel corso d’una digestione cordiale di solidi cibi carnali, molti brani e strutture ricolme di decorazioni tardo gotiche.

Osservata bene, con questa invenzione dei portici che aprono ombrelli d’ombra e di luce su botteghe e mercanzie, Bologna non dichiara la sua fisionomia e neppure i suoi anni. Certo, non giovane, anzi. Ma anche a voler frodare il prossimo, e dichiararsi di mezza età, ce ne vuole.

A riportare indietro la lancetta immaginaria del tempo storico, oltre a questa condizione florida e un po’ gravida dell’architettura, è la crosta aromatica e lo spessore abbrustolito della forma informe: e la forma urbana più alta di questa città è quella che uno sì gode dall’alto, in aereo, rinnovando così (ci vogliono luci basse e ombre lunghe, pomeriggio di settembre come nei paesaggi di Bellotto) i piaceri del l’icnoscenografia, la scienza arrampicata sui campanili e in cima alle torri con il domenicano Egnazio Danti che ricostruiva, con lo strumento della groma dei Romani, quelle visioni di geometria descrittiva che: sole potevano restituire la forma urbana, l’entità di volume e di corpo di palazzi case chiese isolati.

La crosta di visibile spessore che avvolge (.o avvolgeva) la città in età anche recenti, ma specie prima del generale lavamento di facciate giubilare ed europeo, affascinava un tempo la nostra vista, starei per dire il nostro naso, come se ad apertura di forno si andasse a vedere il grado di cottura di qualcosa che sta tra il pane e il porco. E la mela cotta.

Certo, per chi come me seguitava a guardar alto con la certezza di vedere, in Urbino, celebrarsi alto il volume roseo del Palazzo di Federico, posato come uno scatolone sperimentale e prospettico su d’una avvizzita serie di vicoli e di borghetti, quasi fossero funghi cresciuti insieme al muschio, era bello ritrovare quella certezza meravigliosa, quella potenza nuoa. Non vergine come 1′ Antico’ greco e romano del quale già narravano l’Alberti e l’anconetano Cirìaco de’ Pizzicolli, modello in posa offerto alla copia perenne ed esemplare; ma piuttosto inedito ed inventivo, scoperta nuova sulla via dell’umanesimo e del dominio possibile del rapporto tra scienza e natura.

Brano corrente

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