Salta al contenuto principale
11 Settembre 2014 | Racconti d'autore

La casa del pioppeto

Un racconto di Roberto Roversi tratto dal libro “Nature d’emozione” (a cura di Graziano Campanini, Bentivoglio, Grafiche dell’Artiere, 1997).

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Alessia Del Bianco

Un giorno di settembre di due anni fa ci lasciava il poeta-libraio che oggi manca così tanto a Bologna, e non solo. Rileggiamo uno dei racconti pubblicati nel sito web in cui l’editore Pendragon ha raccolto molti dei suoi testi più belli: www.robertoroversi.it.

Grano, pioppi poi canapa. La casa del pioppeto. E lì – non racconto storie, perché le parole non si buttano via come polvere al vento – ho abitato anch’io, da giovane, in tanti lunghi mesi d’estate. Nella solitudine della pianura che sembrava senza confine e io ci stavo dentro intenerito dai fantasmi. Dirò come, in seguito.
Dietro c’era un laghetto con le carpe gialle; trecento metri a destra un macero con i pesci gatto neri neri e dalla pancia bianca; e la canapa, quando era stagione.
Che cos’era la canapa! La signora canapa. La foresta verde contro cui annegavano le nubi. Un macello per i poveri mezzadri, per i braccianti, a lavorarla a mollo nell’acqua fetida del macero sempre più scuro; ma per me, carogna nell’adolescenza, un mare di canapa alta agile odorosa come una ragazza in fiore, mentre le foglie maturavano, diventando un poco ispide come le foglie della menta. Si muoveva adagio adagio scossa un poco dall’aria infuocata come una bandiera dopo un combattimento vittorioso.

Che spazi c’erano allora e che solitudine senza paura ma vigorosa; e in attesa di qualche avventura persisteva, promettendo grandi cose. Quali?
Noi sì, che adesso siamo vecchi, almeno per sorte abbiamo conosciuto cos’è il silenzio; il vero silenzio della campagna che vuol dormire o che vuole ascoltare il mare lontano o vuole parlare al cuore della terra con misteriose parole. Possiamo dirlo: questo silenzio l’abbiamo ascoltato ma non possiamo raccontarlo; lo possiamo solo vedere, rivedere e basta. Rivederlo con gli occhi, le orecchie sole non bastano. È il silenzio. Se ne è andato, ci aspetta.
E non è nemmeno giusto dire che se ne era semplicemente andato; meglio confermare che se ne è andato sconfitto, travolto stravolto fucilato impiccato dagli uomini imprevidenti e violenti fra il rimbombo di una guerra mondiale che distribuiva solo macerie. Così oggi è scomparso come le tribù dell’Amazzonia libere nei secoli dentro le foreste e poi annichilite distrutte dall’uomo bianco, ragno divoratore.

Il silenzio, dicevo. Ma scomparsa anche la canapa che per secoli e secoli era stata l’ombrello verdissimo della nostra pianura; ragione, dentro al faticoso lavoro, di vita o anche solo di sopravvivenza.
Dietro la casa, il lago. Si svuotava una volta all’anno, nel mese di giugno. Il livello dell’acqua si abbassava adagio e tutti i pesci guizzando restavano adagiati sulla mota; li raccoglievano con le mani. Anguille, non grandi, ma soprattutto carpe impigrite e indifferenti per un’opulenza di vita senza fatica. Di carne bianchissima, le detestavo per via del labirinto di sottilissime resche che si stendeva dentro a quella palla di neve. Si mangiavano carpe, pesci gatti e le piccole anguille per più di un mese; in gola, fino all’uva di settembre – soprattutto uva fragola di settembre o la lionza zuccherina e bionda – restava il sapore morbidiccio della fanghiglia.
Ma non voglio esagerare nel disporre i truccioli dei miei privati ricordi, che dati solo come un monologare davanti al fuoco di stecchi. Stecchi di canapa, appunto, canapa macerata e poi gramolata.

Intorno alla casa del pioppeto persisteva sempre il fervore della vita di uomini donne vecchi e vecchiette astute e impavide a suscitare continue meraviglie dentro al buio schiarante dei sentimenti e dei pensieri.
Ritornano vivi, se appena li ricordo, li chiamo per nome, li tocco sulla spalla, li faccio voltare. Celso, per primo.
Il suo viso è di bronzo come i vasi cavati dalle tombe. Dicono che Celso è avido, spietato ma io l’ho visto piangere una sera all’urlo di un bambino trafitto dalla vespa. Dicono che di notte cammina per la cavedagna e si getta nell’orto a rubare i meloni ormai gialli, e che all’alba spaventa gli storni con la sua voce secca: “Un ladro è venuto, il figlio di puttana ha rubato meloni pomidori e l’orto ha devastato”. Ma anche chi ha visto, disegnato sotto la luna, il suo corpo inchinarsi fra i tralicci dell’orto, sa che a Celso si deve perdonare. Bisogna perdonare. Nelle sere d’estate sedeva sull’erba, immobile, a guardare il cielo. Diceva: “Sono disgraziato” e nella voce tremava una terribile malinconia. Diceva anche: “Sono vecchio, morirò quando la terra grida al passo di lupo dell’inverno. All’inverno non voglio morire, solo come un agnello nella stalla”. Era un vecchio per racconti di mare, aveva occhi neri grandi da pirata, la sua pelle era secca per le ingiurie patite. Diceva anche: “Chi mi amava, un tempo, ora è partita” e sembrava che ascoltasse un prossimo uragano.

L’Ersilia, per seconda; e la sua vita è come un lungo racconto d’inverno, fra il fieno della stalla. Si poteva dire così: l’Ersilia è morta. Il sale della terra che consuma queste poche ossa si rivolge in calore alla pianta che tremola vicino, così la vita della donna faticata con lungo dolore ricresce in forza e in tenera ebbrezza intorno a un fiore. Sempre credendo a un cielo che l’offese fu serva ma anche padrona del suo uomo crudele, si mortificò, pianse – soffrendo i lampi della vita passata in una palude di fango: il battere di un ramo sopra l’acqua del macero, i baffi gialli di Celso che bruciavano sopra la pipa, e il suo dialetto incredibile. Non poté figliare come la capra che addenta i tralci immersa nella vigna e avventandosi per paura sfascia i tralicci di canne. Lei consumò in silenzio i giorni. Nessun galante l’invitò a ballare, nessuno prese l’ascia per crescere la casa, nessuno rivoltò per lei una brace d’amore. Poi venne Celso. Gli inverni le ferirono il cuore con un diamante di gelo piegandole la pelle. Morì al lume della lampada acetilene e la guardava ansimare un medico ottuagenario, che scuoteva la testa incombendo sul seno di legno. Un colpo sulla cervice e fu cenera bianca, creatura umana subito dimenticata e mai più compianta.

La cavalla Baiesa per terza. Due volte al mese Varisto dalle larghe mani piene di nodi duri, la bardava e con il calesse e un sacco di grano puntava adagio adagio, nel pieno pomeriggio, verso il mulino. La polvere della strada era alta almeno due dita, bastava niente per farla sollevare e disperderla come un palloncino. Sembrava farina soffiata via. La Baiesa aveva una pazienza indiana, un passo dietro l’altro, con la testa bassa che annusava la strada quasi a cercare le orme. Gli anni non si sapevano, ma Varisto dalle larghe mani sosteneva che ne aveva più di venti, era sicuro. Anch’io accompagnavo volentieri quel viaggio, perché mi era concesso di sostenere le redini e mi sentivo forte felice. È la rassegnata pazienza della cavalla vecchissima, che mi fa riandare a quelle sottili emozioni, che ritrovo. Essa sapeva fin dove doveva e poteva andare, e al fine adeguava le forze. Le ultime forze.
Ma anche i vecchi soldati muoiono. E la Baiesa morì all’inverno, dentro un letto di paglia appena rinnovato, mentre intorno la campagna emiliana era bianca di una neve appena caduta. Buone mani la seppellirono in una buca, così com’era, vicino all’albero di noci, pochi metri dopo la cavedagna. Adesso ti dico addio per allora, Baiesa, cavalla da trotto e da galoppo e chissà come eri splendida e vivace nella piena giovinezza; signora delle strade impolverate e dei piccoli mulini di campagna, sempre in moto, mentre le nuvole si arrestavano in cielo per guardarti arrivare. La vita, in quegli anni, era fatta di minutissime meraviglie, per i ragazzini.

Varisto, l’ho detto, per quarto. Mani dure e nodose, da ramo di albero di montagna contro cui di notte il cinghiale striscia per grattarsi la groppa. Era fattore, inoltre allenava cavalli trottatori per le corse dell’Arcoveggio. Cominciava alla mattina molto presto, quando ancora la guazza era sull’erba e il fiato dei cavalli pareva nebbia fina. Fra questi, servito davvero come un principe, Peter Fellow. Lo cavo fuori dal sonno della memoria. Tonfi di secchie buttate nel pozzo in un mattino bagnato di guazza, e in cielo un volo di storni impazza. Peter trotta sulla pista, è solo. Venuto dalle praterie d’America, chiaro di pelo con la fronte bianca, rigira i grandi occhi in cui trema fra nubi e sole, furore nostalgia. Sogna il profumo di quelle erbe alte e lontane, su cui appena ieri correva. Qui invece la terra di castelli abbandonati, di città con le mura antiche distrutte al margine dei canali; e nei viali ancora alberati, al fischio di un uomo in un campo, si alza il muso del sole.
Varisto adesso è coperto dall’ombra; a molti ragazzi insegnò i nomi degli astri, il percorso delle stelle, a riconoscere i fuochi fatui, a non temere i morti; indicò la naturale semplicità degli amori silenziosi fra le pecore e i montoni. Ora ha le ossa perdute in un solco e ascolta i bisbigli delle acque. La sua voce profonda a volte cantava sull’aia deserta sfiorata dal vento; o rovesciando un quartino ormai scolato con un bacio invitava le spose sopra il fieno seccato. Sempre si udiva il suo canto fra le rose della notte perdersi per chilometri sul fiume.

La vita dentro e intorno o vicino alla casa del pioppeto non era un segreto ma un fulgore di vita, il sangue della vita. Nel silenzio dei campi il cielo sembrava appannarsi al fiato di un bambino. Buoi lenti arano la terra, le albe nascono sempre dalla nebbia e a notte si ascoltano le voci degli uccelli migratori che scendono verso le lagune. Arde nel camino un fuoco d’altri tempi, cadono si spezzano i pensieri. Ogni cuore si caricava di tanti sentimenti al rumore del vento sulla casa, sul fango della strada, sui sentieri, tra le siepi, sull’erba rada colma di piccole lumache desolate. Le foglie scendevano in un soffio nude dall’aria ed erano subito calpestate.
Quella gente che amavo oggi è dispersa.
Li strappò una raffica, l’infranse contro i muri e a molti sbriciolò la bella vanità ridente. La terra era diventata un covone in mezzo al campo azzannato dal fuoco, col tridente conficcato nel mezzo per un giuoco terribile. Quando l’incendio fu smorzato, Luca inseguiva il sole con le mani; Dante, in un agguato, storto sfigurato al lume delle torce; Rizzi, Marcello sotterrati in lontane pianure. Pochi trovarono angosciati il sentiero della casa fra i pioppi bolognesi per raccontarsi gli anni seduti sulla ghiaia.
E Peter razziato sparì simile all’uccello invernale lasciando orme sui prati di neve…
Poi c’è ancora la storia, l’arco di vita, di Mara, di Celeste, di Rachele del pianto. Un’altra volta, forse; la casa fra i pioppi è ancora lì, vuota ma palpitante, che aspetta voci. Le voci. Ha ancora pazienza. Ha tempo per aspettare.

Brano corrente

Brano corrente

Playlist

Programmi