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2 Novembre 2017 | Racconti d'autore

Le chiavi del tempo

Testo tratto dal romanzo omonimo di Andrea Malossini (sottotitolo “La Compagnia della Torre”, Bologna, I libri di Emil, 2017)

A cura di Vittorio Ferorelli, con la collaborazione di Alessia Del Bianco

Storia e fantasia si mescolano nel nuovo romanzo del giornalista e scrittore Andrea Malossini, ambientato tra la Bologna odierna e quella del Milleduecento. Le porte della macchina del tempo si trovano in alcune delle torri ancora in piedi, come la Prendiparte…

Jacopo aveva lavorato tutta la notte facendo il minor rumore possibile, anche se le spesse pareti di selenite sembravano capaci di spegnere anche il più tenue sussurro.
Il proprietario della torre se n’era andato nel primo pomeriggio. Si era raccomandato di richiudere la porta del terrazzo, nel caso Jacopo avesse deciso di salire i dodici piani per ammirare il panorama notturno della città.
Poi, con fare solenne, gli aveva consegnato una pesante chiave maschia di ferro, forgiata dal massello. All’impugnatura era appeso un frivolo embrasse dorato.
«La tenga da conto, questa apre tutte le porte della torre. Ci vediamo domani».
Jacopo l’aveva rigirata tra le dita: dalla fattura doveva essere ottocentesca, molto più giovane della torre che poteva serrare. Di sicuro, non antica come le chiavi che teneva gelosamente nella scarsella.

Rimasto solo nella quasi millenaria torre Prendiparte, Jacopo aveva superato le ripide scale, aiutandosi nella salita con il canapo appeso al soffitto. Giunto al soppalco, si era sdraiato per qualche minuto sul letto, fissando l’antica pala un poco sbrecciata raffigurante la Vergine con il bambin Gesù.
La macchia sul naso della Madonna lo aveva fatto sorridere. Il tempo aveva scolorito la patina gialla in superficie e fatto spuntare un bianco irriverente. Quand’era più piccolo sua madre – sempre impeccabile in pubblico – si sporcava apposta il viso per far ridere lui e la gemella Bianca quand’erano in cucina: uno sbuffo di farina, un poco di panna montata.
Gli mancava molto sua madre.
Al tramonto Jacopo era salito al terzo piano, dove un tempo si trovavano le celle di rigore. Una stanza abbastanza ampia, con un tavolo apparecchiato al centro, candelabri gocciolanti cera alle pareti, oggetti dal sapore antico disposti ad arte. La luce tenue della notte saliva dal basso, attraverso un foro protetto da una robusta grata di ferro. La porta era appena dietro al tavolo, di legno massiccio.
L’idea di passare una notte all’interno della torre aveva fatto arrabbiare il padre di Jacopo: Arturo Brunelli. Il genitore conosceva bene la passione del figlio per il Medioevo – che condivideva – ma non capiva perché un ragazzo di diciannove anni volesse passare da solo una notte in una torre.
Bianca aveva scosso la testa, quasi compatendo il fratello: «Almeno avessi invitato una ragazza…».
Solo la madre Christine l’avrebbe capito. Ma Christine non c’era più: era scomparsa un anno prima nel giorno dei diciott’anni di Jacopo. Nel nulla. L’avevano cercata ovunque. Christine Bevilacqua era un personaggio pubblico: medico, aveva abbandonato presto le corsie degli ospedali per dedicarsi all’organizzazione che lei stessa aveva fondato: la Baby Manji Foundation. Si occupava della piaga del turismo medico in Oriente, di madri surrogate, di tutela delle donne e di maternità violata.

Jacopo sapeva che oltre la porta, tramite un ballatoio, in passato si poteva accedere all’ospizio merlato dei Prendiparte. Ora, secondo il proprietario della torre, dava direttamente nella stanza da letto di una simpatica coppia di vecchietti del confinante palazzo di via Albiroli. Ma non era certo lì che voleva arrivare.
Per Jacopo era stato un segno del destino che uno dei pochi varchi si trovasse in una torre aperta al pubblico, l’unica nella quale, grazie all’esclusivo bed & breakfast, si poteva passare la notte indisturbati.
La porta era di due legni diversi: noce scuro sotto l’arco di cotto e ciliegio rossiccio nella parte centrale dell’anta. Due grosse cerniere sulla destra la tenevano fissa alla parete. Non sembrava così antica. A chiuderla un solo chiavistello, senza nessuna serratura. Lo tirò verso destra, e la porta si aprì. Un metro oltre, nel piccolo ripostiglio creato sfruttando l’enorme spessore dei muri, trovò l’antica porta. Blocchi di selenite ne circondavano l’intero perimetro. Le bandelle trasversali di ferro battuto, fissate da chiodi con teste a borchia, le davano un che di robusto.
Di selenite – la pietra gessosa onnipresente nelle costruzioni dell’epoca – erano anche la soglia e l’architrave. In alto, nella luce dell’arco a sesto acuto, c’erano due mensole. Il blocco che le separava era più chiaro degli altri, con magnifici cristalli traslucidi. Per un istante, la lama di luce della lampada che teneva in mano venne riflessa dall’antica pietra, proiettando sulla parete alle spalle di Jacopo un chiarore lattiginoso, quasi lunare. Non era semplice pietra selenite, ma lapis specularis, la pietra di luna.
Continuando a osservare le pietre dalle diverse angolature, trovò finalmente la frase che stava cercando. Incisa sulla mensola di destra c’era l’inequivocabile «Ostium non Hostium». Era la prova che quella era la porta giusta.
Rinfrancato dalla scoperta, Jacopo si concentrò sulla serratura, fissata direttamente a una piastra metallica posta sulla bandella centrale. Sembrava semplice: un grosso chiavistello, la staffa, il foro ancora libero nel quale infilare la chiave maschia.
In apparenza era una pazzia quello che stava per fare, ma non vi avrebbe rinunciato per nessun motivo.

Di nascosto dal padre, ministrale della Compagnia della Torre – un’antichissima compagnia d’armi di Bologna ormai da secoli convertita alle arti e alla cultura – era riuscito a duplicare le “Chiavi di Santa Tecla”. Gli antichi cimeli, due chiavi maschie in massello gelosamente conservate presso la dimora di via Santo Stefano, non aprivano, come la tradizione narrava, le antiche porte della Chiesa e dell’Hospitale di Santa Tecla; ma quelle della torre Prendiparte, o almeno così aveva trovato scritto in un anonimo folio di pergamena infilato tra le pagine del verbale dell’adunanza del 1271 della Compagnia.
Sulla firma e l’autenticità dello scritto non aveva avuto dubbi.
Era pronto per il viaggio.
Sperava solo di trovarla e arrivare in tempo.
Aveva indossato delle brache larghe blu guado, di tela, strette alle caviglie, con sopra delle calzabrache verdi di lino. Poi, una camicia bianca, ampia e molto lunga a coprire il sedere e una giacca verde di lana leggera con il collo a V.
A una cinta di cuoio grezzo aveva legato la scarsella, nella quale aveva riposto le chiavi, un poco di oro giallo e dei braccialetti indiani in argento portati dalla madre al ritorno di uno dei tanti viaggi in Oriente.
Ai piedi ruvidi calzini di canapa e dei comodi stivaletti di pelle con vistose fibbie argentate: forse l’unica cosa stonata. In una sacca di tela, legata con una spessa corda di canapa sulla spalla, aveva messo un affilato coltello bergamasco, un ricambio di biancheria, una camicia bigia, delle barrette energetiche, quasi un chilo di pepe nero in grani e altrettanto di semi di noce moscata.

Dopo aver trovato la porta, Jacopo si era riposato un poco per poi consumare un pasto leggero. Libero ormai da ogni incertezza, era salito sulla terrazza. Dodici piani: uno diverso dall’altro ma ognuno con una storia da raccontare.
Dal soppalco trasformato in camera da letto era salito in cucina, poi alla sala da pranzo un tempo cella di rigore, e ancora su, fino alle prigioni, con le suggestive iscrizioni, i disegni e i lamenti lasciati dagli sventurati lì rinchiusi per avere oltraggiato la morale cristiana. Dal sesto piano in avanti, solai, scale e pareti sempre più sottili.
Due singolari lame di luce, al settimo piano, l’avevano incuriosito. Provenivano da due aperture a losanga sulla parete sud, di forma e dimensioni diverse dai soliti fori di ponte della torre. Jacopo, guardando verso l’esterno, raggiunse con gli occhi la collina: i fori puntavano esattamente verso Monte Donato, dove un tempo si estraeva la selenite, la pietra gessosa con la quale si costruivano le parti portanti delle torri.
Giunto sulla sommità e aperta la porta dal doppio chiavistello, Jacopo si era fermato a lungo ad ammirare Bologna dall’alto. Le inconfondibili sagome delle torri svettavano tra i palazzi.
Doveva memorizzare le vie più antiche, le piazze, fissando nella mente una mappa che, dov’era diretto, poteva fare la differenza tra la vita e la morte.
Torre Altabella copriva in parte la facciata di San Petronio, alla destra della quale spuntavano la torre dell’Arengo, la piccola Lambertini appoggiata a palazzo di Re Enzo e, vicinissimo, quasi a toccarlo, il campanile della Cattedrale. Verso le Due Torri, a sinistra, coperta da un’impalcatura, la piccola torre Uguzzoni. Più lontane, quasi a perdersi, la torre Bertolotti e il torresotto di Castiglione. La banderuola metallica gialla e rossa dei Prendiparte era immobile. Sembrava paralizzata dalla luce proveniente dalla luna, piena e splendente.
Prima dell’alba Jacopo era tornato all’ostium della torre, il passaggio descritto nell’antica pergamena.
Infilò la prima chiave nella toppa, ma il pettine trovò subito resistenza. Provò con la seconda, quella dall’impugnatura più piccola e gli intagli diritti, che entrò senza problemi. La fece ruotare in senso orario. La molla della serratura lentamente si distese liberando il chiavistello. La pietra sull’architrave era illuminata da un fascio di luce lunare. Jacopo aprì la porta ed entrò.

Un odore forte, penetrante, quasi materiale, lo travolse. Faceva caldo e l’umidità rendeva l’aria irrespirabile. Cercando di scansare uomini e donne indaffarate a portare tessuti, cibo e merci varie, Jacopo venne ripreso da un uomo che per l’elegante guarnacca e il tono autoritario sembrava essere il capo: «Forza ragazzo, datti da fare, all’ora prima deve essere tutto pronto».
Doveva essere un hospitale: l’ospizio dei Prendiparte. Una moltitudine di pellegrini stanchi e mendicanti macilenti riempiva i locali.
Jacopo caricò sulle spalle dei pagliericci luridi e li portò in strada. Giunto nella piccola piazza li scaricò insieme a quelli portati dagli altri garzoni e cercò d’orientarsi. A stento riconobbe la vicina torre dei Guidozagni, molto più alta di come la ricordava. Il chiarore proveniente da mane, riflesso sulla parete della chiesa dei santi Sinesio e Teopompo, gli indicò la direzione da seguire.
De supra doveva esserci il Mercato di Mezzo, probabilmente già in fermento a quell’ora. Superò via dei Leoni passando tra i palazzi Dal Lino e Ludovisi, per via Carrari; dove una bottega da zavaglio, colma di merci di ogni tipo, era già aperta. Arrivato sulla via del Mercato di Mezzo, fu investito dalle lunghe ombre della Garisenda e dell’Asinella. Tra poche ore, per quella via, si sarebbe corso il 22° Palio di San Bartolomeo, quello dell’Anno Domini 1271.
 

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