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14 Febbraio 2019 | Racconti d'autore

Come sparire completamente

Racconti tratti dal libro di Massimo Bernardi “Hanno invaso la Svizzera, e altri racconti brevi per letture notturne” (Roma, Edizioni Ensemble, 2018)

A cura di Vittorio Ferorelli

Pagine da leggere nottetempo, quando tutto sembra diventare possibile e la fantasia può metterci le ali: sono le storie che compongono la nuova raccolta di racconti dello scrittore modenese Massimo Bernardi, dedicati a quel grande maestro di immaginazioni che era Dino Buzzati.

L’ultima stanza

Alfredo Chiabotto è un artista incompreso. Da anni cerca di realizzare opere di mimetismo concettuale che nessuno capisce. Anzi, a volte riceve anche degli insulti o delle parole di scherno che lo feriscono, ma lui va avanti per la sua strada. L’ultimo suo lavoro è stato “FOGLIAME”, un’installazione allestita presso l’ex macello comunale a Villimpenta. I visitatori dovevano seguire un percorso obbligato camminando su un fitto strato di rami secchi e foglie ingiallite che formavano come un tappeto naturale. Tutti si accorgevano che sotto ai loro piedi c’era qualcos’altro, ma un cartello sul muro a grandi caratteri intimava «VIETATO GUARDARE SOTTO» e nessuno osava infrangere il divieto. Prima di uscire dall’ex macello una didascalia appesa al muro rivelava che sotto ai rami e alle foglie c’erano ventidue immagini, catturate dal Chiabotto, in bianco e nero in formato 60×80 su pannelli di forex. Erano le foto di quegli stessi rami e foglie scattate all’aperto al momento della raccolta. Il Chiabotto si limitava a dare questa informazione senza spiegare nulla. Ognuno poteva farsi la propria opinione, tenendo conto che lui lavora sempre sul mimetismo, il nascondimento e la metafora. Nonostante i suoi sforzi “FOGLIAME” è stato un fiasco su tutti i fronti: pochi visitatori e ingenerose stroncature dei critici sulle principali riviste d’arte. Con “FOGLIAME” ha toccato il punto più basso della sua carriera.
Ma il Chiabotto ha già in mente un nuovo progetto che si spinge ai limiti della sua ricerca. Andrà nelle valli del rovigotto in cerca di vecchie case abbandonate. Andrà a scovare i luoghi del silenzio, i soggiorni svuotati con ancora qualche mobile superstite mangiato dai tarli, i frammenti di specchi rotti, le bambole rimaste senza capelli e senza braccia, i camini anneriti dal fumo, le ante delle finestre che pendono sui cortili deserti dove è cresciuta una fitta giungla padana, e molto altro ancora. È una cosa che si è già vista, molti fotografi prima di lui lo hanno già fatto sia con intenti artistici che di pura documentazione. Ma il Chiabotto, come ha dichiarato nelle sue ultime interviste, vuole andare oltre.
In quelle stanze vuote predisporrà un cavalletto per farsi degli autoscatti, così da non avere l’incombenza di dover fare lui le foto. Prima di ogni scatto si vestirà in modo da mimetizzarsi con l’ambiente: indosserà un vestito nero se la stanza è scura, bianco se la stanza è bianca, e così via. Per mimetizzarsi il viso userà delle tempere, come ha visto fare alle animatrici del “truccabimbi” con i visi dei bambini alla festa di compleanno di sua nipote. Farà in modo che il suo volto, oltre che il suo corpo, si noti il meno possibile. Si farà dei selfie mimetici dove la sua persona sarà così ben nascosta da non riuscire quasi a vedersi, se non per piccoli dettagli infinitesimali. Cercherà letteralmente di scomparire in ogni ambiente, riservandosi il meglio per il gran finale.
Dopo aver disseminato le stanze della sua mostra con le foto mimetiche, nell’ultima raggiungerà il nascondimento perfetto. Lì riceverà i visitatori e i critici, anche se loro non potranno vederlo. Vedranno solo un cavalletto con sopra la sua reflex puntata verso la parete opposta. Lui sarà fisicamente presente, ma al cento per cento invisibile. Il suo corpo sarà completamente assorbito dai colori e dalla materia che lo circondano, scomposto nelle infinite particelle d’aria, etereo e inconsistente. Solo il respiro potrebbe tradirlo, rivelando così la sua presenza. Ma farà in modo di trattenerlo.

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Il viaggio di Marta

Qualche mese prima, su un opuscolo di notizie locali trovato al bar, avevo letto quella notizia molto curiosa. Poi non ero più stato al lavoro da quelle parti e me ne ero completamente dimenticato. Ma un pomeriggio di maggio, passando davanti a quella casa di campagna, non ho potuto fare a meno di fermarmi. Quella era senza dubbio l’abitazione della signora Marta, che volendo inseguire tenacemente il suo sogno di gioventù stava ridando vita in qualche modo a una vecchia ferrovia in disuso. Con i suoi risparmi – diceva quell’articolo trovato al bar – si è comprata l’ex casello del Mulino, ridotto ormai a un rudere cadente, e lo sta facendo restaurare un po’ alla volta per farci il suo Museo della Ferrovia, dove troveranno posto oggetti, reperti, abiti e fotografie che chiunque può portare per arricchire la collezione. Con un piccolo debito si è presa pure una locomotiva originaria del 1937 e l’ha piazzata di fianco all’ex casello, ricostruendo un tratto di alcuni metri del binario originale dove passava il treno. La stessa locomotiva che mi sono trovato davanti quel pomeriggio. Impossibile non notarla dalla strada.
Spinto dalla curiosità ho parcheggiato l’auto sul passo d’ingresso e sono entrato a piedi dal cancello aperto. Dall’ex casello è spuntato fuori un operaio con un secchio di calcestruzzo. Mi ha detto che i lavori per il museo non sono ancora finiti e che se voglio vedere la signora Marta la trovo dietro, nel giardino. Marta è una vecchietta piccola e ricurva, tutta piegata con il busto in avanti, con un grembiule che le arriva fino ai piedi e dei lunghi capelli bianchi raccolti in uno chignon. Potrebbe avere novant’anni ma sembra ancora molto energica. Mi ha spiegato che se tutto va bene il museo aprirà fra un paio di mesi, alla fine di luglio. Ha avuto qualche intoppo e qualche spesa imprevista, ma ormai ci siamo. Poi a ruota libera mi ha raccontato della sua vita, dei figli cresciuti che sono andati a vivere lontano, e di quando da ragazzina partiva dai campi con il treno – proprio quello – per andare a scuola in paese. Nel ricordare quegli anni scuoteva la testa e si lamentava per lo scempio che è stato fatto sopprimendo tutte le vecchie linee provinciali che esistevano quando era giovane. A favore, ha detto testualmente, di quelle “maledette macchine inquinatrici”.
«L’altra mia passione, come vedi, sono i fiori» ha detto mostrandomi le tante varietà di forme e colori che con tanta pazienza ha fatto crescere nel suo giardino. Si è annotata il mio nome e il mio numero di telefono su un pezzo di carta che ha preso fuori dal grembiule e mi ha promesso che mi chiamerà non appena il museo sarà pronto. «Se sarò ancora viva…» ha aggiunto con amara ironia.

Siamo in ottobre e non ho ancora ricevuto la sua chiamata. Ci sono tre possibilità. Prima: ci sono stati altri intoppi e altri imprevisti, per cui il Museo della Ferrovia non è ancora pronto. Seconda: la signora Marta si è dimenticata di me, cosa niente affatto improbabile vista la sua età. Terza: la signora Marta purtroppo è venuta a mancare. Oggi sono tornato all’ex casello del Mulino per saperne di più. Con mia sorpresa la locomotiva è scomparsa. Il casello è sbarrato da una trave di ferro e il giardino è ridotto a un’arida sterpaglia incolta. Provo a chiedere notizie alla casa seguente, ma inspiegabilmente non sanno nulla della signora Marta e del suo museo. Mi dicono la stessa cosa anche al distributore di benzina e alla trattoria del paese più vicino, come se lei non fosse mai esistita. Quel pomeriggio di maggio ho forse parlato con un fantasma? Non lo so, mi viene il dubbio. Ma a me piace credere un’altra cosa. Che la signora Marta abbia raccolto tutti i suoi fiori in cesti e canestri e li abbia portati con sé in viaggio. Che sia partita con la sua locomotiva, in un lento viaggio a ritroso sui binari della memoria. Verso la gioventù perduta e i giorni lieti delle feste, i giorni laboriosi della scuola quando era una bambina e sentiva ogni mattina il treno fischiare.

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A forest

And start to run
Into the trees
Into the trees
Suddenly I stop
But I know it’s too late
I’m lost in a forest
All alone

A forest, The Cure –

Rapporto della Questura di Modena, 23 giugno 2017

Del signor Zecchi Antonino, di professione tipografo, di anni 56, residente nel comune di San Prospero in provincia di Modena, si sono perse le tracce la sera del 18 giugno del corrente anno. Il suddetto soggetto è stato visto per l’ultima volta in quel tardo pomeriggio aggirarsi nei pressi del parco storico di Villa Tusini, noto spazio verde aperto al pubblico nel comune della di lui residenza e frequentato da podisti, ciclisti e sportivi di ogni genere che amano tenersi in allenamento nei suoi numerosi sentieri al fresco della boscaglia. Alcuni testimoni asseriscono di aver veduto lo Zecchi quel tardo pomeriggio in abiti leggeri atti alla corsa, ovvero pantaloncini e maglietta tecnica, dirigersi verso uno di codesti sentieri all’interno del parco, come è solito fare un paio di volte alla settimana nella stagione estiva, più di rado in quella invernale. Non esistono avvistamenti successivi della di lui presenza.
Indagini successive all’interno del parco di Villa Tusini hanno rinvenuto alcuni elementi che potrebbero in qualche modo essere correlati alla scomparsa dello Zecchi:
– numero 1 frammento di canotta traspirante in poliestere di colore bianco con evidenti tracce di sudore; sono in corso le analisi per stabilirne il DNA;
– numero 1 walkman grigio metallizzato modello Sony ovvero apparecchio elettronico in uso negli anni Ottanta contenente una musicassetta identificata con il titolo Seventeen Seconds della band musicale The Cure; al momento del ritrovamento il nastro magnetico era posizionato sulla traccia A forest, che secondo alcune indiscrezioni dei teste sarebbe uno dei brani più amati e ascoltati dallo Zecchi fin dagli anni giovanili;
– numero 6 piccioli e numero 7 noccioli di ciliegia rinvenuti a terra in un tratto di circa ottanta metri a distanze abbastanza regolari gli uni dagli altri lungo uno dei percorsi che lo Zecchi è solito seguire all’interno del bosco; i teste confermano il soggetto essere particolarmente ghiotto di questo frutto, consumato spesso anche durante le sue prestazioni sportive;
– numero 1 firma di tale “Benjamin Bathurst” incisa con un coltellino sul bordo di una panchina in alluminio in uno dei sentieri secondari che si addentrano nel bosco; il suddetto nome da indagini storiche risulta appartenere a un diplomatico inglese vissuto nel secolo decimonono e scomparso in circostanze misteriose durante una missione in Prussia; tale firma messa in relazione allo Zecchi porterebbe a ipotizzare congiunture irrazionali o paranormali come ad esempio un paradosso temporale; congiunture che sfuggono alla nostra umana comprensione e che rendono le indagini in corso alquanto imponderabili.
La Questura di Modena al momento brancola nel buio.

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E poi ci sono quelli

E poi, anche se non li abbiamo menzionati, ci sono quelli che scompaiono nella vastità di un grande stabilimento metallurgico del sud. Entrano giovani e baldanzosi nella pancia del mostro rumoroso appena costruito – là dove prima si stendevano migliaia di ulivi secolari affacciati sul mare – e anno dopo anno diventano sempre più inconsistenti, trasparenti, quasi mimetizzati contro gli sfondi scuri delle enormi pareti. Di giorno in giorno sempre più incapaci di farsi sentire sopra il frastuono infernale delle macchine, ridotti ormai a oggetti d’arredo più che a esseri umani.
E poi ci sono quelli che entrano nei labirinti storici delle ville venete, fatte di siepi di bosso con statue di putti e allegorie barocche, curiosi di scoprirne la via d’uscita. Si fanno vanto del loro senso di orientamento con le fidanzate o con i figli piccoli che li ammirano, studiano in anticipo la storia dei luoghi per essere più preparati, consultano le mappe su Google Earth la sera prima. Ma poi finiscono puntualmente per perdersi nel labirinto come Arianne senza filo. Non riusciranno mai più ad uscirne, non ne sapremo mai più niente come neanche fossero esistiti.
Poi ci sono quelli che scompaiono all’improvviso dentro a un pozzo artesiano, una foiba, una grotta thailandese, una cantina etrusca. Ci entrano forse per gioco o per sbaglio, magari inseguendo una palla rotolata giù per le scale, o scivolandoci leggeri come piume per aver osato affacciarvisi a guardare nello specchio d’acqua il proprio riflesso. A niente valgono le dirette televisive con fior di giornalisti e showgirl e distributori di popcorn venuti da lontano a intrattenere il pubblico non pagante. Il pozzo se li prende, li fa suoi, li inghiotte come bocconi imprescindibili.
E poi ci sono quelli che partono sui treni delle guerre per non fare più ritorno, soldati arruolati negli eserciti dei dispersi, figli della patria, braccia rubate all’agricoltura e strappate ai cuori delle madri sempre in attesa. Solo se la Morte sarà particolarmente magnanima potrà concedere un ultimo rapido saluto a casa, come involucri vuoti che sotto al mantello non hanno più un corpo. Giusto un addio e poi via subito, tutti in fila dietro alla falce dritti all’Inferno.
E poi ci sono quelli che restano folgorati da una luce in fondo a un crepaccio nel silenzio delle montagne, e che invece di rientrare prima del buio decidono di proseguire oltre, di affrontare le cime più alte, di discendere nelle gole più oscure fin dove è possibile, fosse anche il centro della terra. Ci sono quelli che vengono risucchiati dalla scia di una metropolitana e, visti per un attimo, scompaiono per sempre dalla nostra vita. Quelli che si perdono tra le fitte trame di un romanzo per non tornare più alla realtà. Quelli che salgono sul palcoscenico per esplorare il dietro le quinte e restano poi per sempre dietro il sipario. Ci sono gli amici perduti negli anni e le ragazze in vecchie foto scolastiche di cui a fatica ricordiamo il nome. Gli scrittori che abbiamo amato, credendo possibile incontrarli appoggiati a un muro in fondo al viottolo, e che invece sfuggono al tramonto come ombre allungate sulle siepi dei giardini.
Ci siamo perfino noi, noi di venti o trent’anni fa, irriconoscibili oggi per i gesti e le parole che non sono più i nostri, figurine virate seppia che si muovono in un film muto a 24 fotogrammi al secondo. Volenti o no saremo anche noi tra quelli, prima o dopo. Destinati a scomparire completamente in un barattolo di marmellata che qualcuno per strada calcerà via ridendo.

 

Brano corrente

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