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23 Aprile 2020 | Racconti d'autore

Considerate i gigli… Lettere a Liliana Segre

Testi di Marco Belpoliti, Paolo Fresu e Magda Indiveri tratti dal libro omonimo (a cura di Mattia Fontanella, Bologna, Pendragon, 2020)

A cura di Vittorio Ferorelli (Istituto Beni Culturali Regione Emilia-Romagna). Lettura di Marzio Bossi e Donatella Vanghi (associazione "Legg'io")

Testimone della Shoah quando era appena adolescente, la senatrice Liliana Segre riceve ancora minacce per il suo impegno a mantenere viva la memoria. Il poeta Mattia Fontanella ha chiesto a comuni cittadini, scrittori, insegnanti e artisti di inviarle una lettera aperta. Nella “Giornata mondiale del libro” ne abbiamo scelte alcune, lette dalle voci di Marzio Bossi e Donatella Vanghi dell’associazione “Legg’io”. RadioEmiliaRomagna augura a Liliana Segre, e a tutti, un buon 25 Aprile, festa della Liberazione dal nazifascismo.

Marco Belpoliti

Cara Liliana Segre,
come è difficile essere dei testimoni! Dover parlare di quello che è accaduto allora, ricordare, raccontare, e in definitiva rivivere nella memoria l’ignominia cui si è assistito, quella che è stata perpetuata nel proprio e nell’altrui corpo. Non deve essere stato facile per lei fare tutto questo. Che fatica parlare, che fatica testimoniare.
Ricordo una frase di Primo Levi che si trova in I sommersi e i salvati, l’ultimo suo libro pubblicato in vita: “se anche ritornerete, e racconterete quello che vi è successo, nessuno vi crederà”. Così dicevano le SS agli ebrei deportati negli ultimi mesi di guerra quando il Terzo Reich si stava progressivamente disfacendo davanti ai loro occhi. L’incubo di non essere creduti è quello che più ha tormentato i sopravvissuti ai campi della morte nazisti, e dunque anche lei.
Primo Levi ancora ad Auschwitz-Monowitz, nel lager collegato alla grande fabbrica di gomma sintetica, racconta di aver sognato d’essere tornato, d’essere finalmente nella sua casa e di parlare con sua sorella e con gli amici. Nel sogno-incubo la sorella si alza e se ne va. Non resta nessuno ad ascoltare le sue parole. Ancora immerso nel sonno gli sopravviene allora un dolore allo stato puro, come quello che si prova da bambini, “non temperato dal senso di realtà”. Questo avete temuto e provato voi reduci dai lager nel 1945 e negli anni seguenti. Pietro Terracina, appena scomparso, suo amico e sodale, ha detto di essersi trovato solo e disperato al ritorno da Auschwitz, nessuno voleva ascoltare quanto gli era accaduto.
Perché i testimoni sono così importanti per noi? Perché recano impressa nel loro corpo e nella loro anima l’esperienza incancellabile della deportazione. Il testimone è colui che ha diretta esperienza di un fatto, ci dicono i dizionari. La testimonianza è fondamentale proprio per questo: perché immediata, senza mediazioni di sorta. Proprio perché personale e individuale, reca con sé qualcosa di unico, che non si troverà mai nelle pagine di storia o nelle cronache successive scritte a distanza di tempo. Insieme al dolore inestinguibile, i testimoni hanno la coscienza di ciò che è avvenuto, dei tempi e dei modi. Ricordano in modo incontrovertibile. L’esperienza del lager non è rimuovibile o rinviabile, non può essere emendata o corretta, perché impressa nella carne.
In un mondo nel quale tutto o quasi viene presto dimenticato, il testimone porta con sé il suo inalienabile modo d’essere. Il testimone non sempre parla, non sempre riesce a verbalizzare quanto è accaduto là nel campo. Quante persone hanno taciuto in preda a un dolore e a una vergogna indicibile? Tante. Li bloccava la vergogna, quella che non ebbero i carnefici, e che invece morde la coscienza di chi ha assistito alla degradazione dell’uomo, alla sua distruzione: vergogna del giusto davanti alle azioni degli ingiusti. Il peso specifico della testimonianza sta in questa esperienza indelebile.
Come ha scritto Levi, l’uomo che più ha parlato e scritto della sua esperienza nel campo, “distruggere l’uomo è difficile quanto crearlo”. Il testimone reca in sé la traccia della contro-creazione, di cui sono stati capaci i nazisti. Lei si è assunta un peso molto grande, e una fatica enorme, soprattutto davanti al negazionismo che continua a risorgere ogni decennio come una bestia immonda e insopprimibile.
Le sono grato per questo, e se potessi vorrei fare qualcosa per alleviare il suo peso. È possibile? Non ci conosciamo, forse non ci incontreremo mai, tuttavia se dovesse capitare, le vorrei porgere il braccio per sorreggerla e accompagnarla, come fanno gli uomini della sua scorta nelle fotografie che scorgo sui giornali. Sono giovanotti prestanti e, da quello che vedo, gentili e soccorrevoli. La sua fatica temo non avrà fine, perché, come lei ha sperimentato, il risorgente fascismo non dà tregua, né a lei né agli altri. Il dolore non si può levare come un abito o un cappello, e nemmeno trasferire da un uomo all’altro, come ha scritto un filosofo, ma la solidarietà e la comprensione sono invece trasferibili e comunicabili. Questo spero di averlo fatto qui, con queste righe, anche se un poco e solo per poco.

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Magda Indiveri

Cara Liliana,
con pudore, ma anche con orgoglio ti scrivo come scrivessi a una collega, o a una sorella. Sono un’insegnante, e come te ho alle spalle trenta e più anni passati a parlare con gli adolescenti. Certo, noi abbiamo le nostre discipline attraverso cui far passare i valori civili, tu hai dovuto far conto sulla narrazione della tua tragica esperienza. Ma il flusso vitale delle giornate buone, quando i ragazzi ti guardano e ti ascoltano e poi fanno mille osservazioni e magari dopo un po’ di tempo quel che hai detto torna e scopri che è diventato loro, ecco, credo che in questi anni tu l’abbia vissuto come me.
Questo ci dà l’energia per continuare senza abbatterci; è benedetta la tua decisione, dopo tanto forzato silenzio, di raccontare, anche sfinendoti, anche soffrendo ogni volta, come sicuramente è successo. Penso al romanzo di Dacia Maraini che ha come protagonista Marianna Ucrìa: di fronte alla violenza la bambina diventa muta, e tale viene considerata, ma lei non smette di comunicare e a un certo punto il riscatto sarà la sua vittoria. I silenzi sono muri e imprigionano sia chi pensa di difendersi sia chi non vuole sapere.
È contro il silenzio che la scuola ogni giorno lavora.
Qualche tempo fa, per ampliare i miei mezzi di comunicazione, avevo aperto un blog di letture e di citazioni che avevo chiamato “un filo di voce”. Certo, volevo dire che era una cosa piccola, sommessa; ma in realtà credo fortemente – tu me lo hai fatto capire davvero – che la voce fili un filo che non si spezza, e che arriva ovunque. La tua voce resta nel cuore di chiunque ti abbia ascoltato. Lo dicono anche i miei studenti che in varie occasioni ti hanno incontrato. Quel “filo di voce” che dice “volevo vivere” di contro alla pistola caduta, sottile ma perentorio, ti ha salvata e salva ognuno di noi, ogni volta.
In quella voce sento le voci sorelle, Anna Achmatova fuori dalla prigione del figlio; Anna Magnani che rincorre la macchina nel film Roma città aperta; la maestra Ida che chiama il bimbo Useppe dopo il bombardamento a San Lorenzo ne La Storia della Morante; le parole spezzate di Amelia Rosselli; e Antigone, e le donne di Ravensbruck e Milena e tutte, tutte le sento dentro la tua voce.
Così prendo coraggio e molto umilmente, ancora, ogni mattina in un’aula, spiego e racconto.
Con tanta gratitudine.

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Paolo Fresu

Cara Liliana Segre, le scrivo… per dirle che non esiste solo quella Italia greve e sorda che denigra lei e la storia recente.
Esiste un’Italia straordinaria composta dai tanti che vogliono costruire il mondo e desiderano lasciare, ai propri figli e alle future generazioni, i doni della libertà, dell’eguaglianza e del rispetto.
È l’Italia che non dimentica e che ama leggere e scrivere, comunicare, incontrarsi, toccarsi la mano e guardarsi negli occhi. L’Italia che ama la musica, l’arte e il boato della verità capace di spazzare la pochezza dell’uomo facendolo diventare poesia.
I segni che lei porta addosso sono semi per fare nascere fiori.

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[C’è una bambina di cui non ricordo il nome, che ha disegnato una farfalla gialla che vola sui fili spinati. Io non avevo le matite colorate, e forse non avevo, e non ho mai avuto, la fantasia meravigliosa della bambina di Terezin… Che la farfalla gialla voli sempre sopra i fili spinati! Questo è un semplicissimo messaggio da nonna che vorrei lasciare ai miei futuri nipoti ideali. Che siano in grado di fare la scelta. E con la loro responsabilità e la loro coscienza, essere sempre quella farfalla gialla che vola sopra ai fili spinati.]

Le parole finali di Liliana Segre sono tratte dal discorso pronunciato al Parlamento europeo il 29 gennaio 2020.
 

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