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14 Gennaio 2012 | Racconti d'autore

E’ così fragile

Di Stefania Sabattini, www.ilmiolibro.it

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri

14 gennaio 2012

C’è un sito, ilmiolibro.it, che consente agli autori esordienti di pubblicare in autonomia senza case editrici. E’ qui che si trova la storia raccontata da Stefania Sabattini, 39enne reggiana che di professione fa la direttrice amministrativa presso il Comune di Reggio Emilia. Riempiono le pagine di questo romanzo le vicende di due amiche bolognesi, Viola e Marina, che si dipanano tra l’Emilia e l’Australia, tra la concretezza emiliana e la libertà di orizzonti del continente australiano.

PROLOGO

Stai contando i passi che ti separano da quella porta. 37,38,39
Ti sei detta: se sono dispari rimango, se sono pari mollo tutto. Dispari vuol dire che la decisione è zoppa, che non c’è un punto di appoggio sicuro.
43,44
Pari significa che c’è un equilibrio, che si può stare in piedi. Non vorresti lasciare la scelta alla scaramanzia.
50,51
Ti piacerebbe solo che qualcun altro o qualcos’altro decidesse per te. E’ troppa la pressione a cui sei stata sottoposta negli ultimi due anni. Non hai più voglia di prendere decisioni. 59,60,61
Non sai come uscirne. Fuggire può essere la soluzione. Rimanere vuol dire stare ancorata ad un mondo fatto di pochi affetti e tanto dolore. 67,68 Ma cambiare radicalmente vita, ti aiuterà a sopravvivere? Ormai ci sei. Cosa devi fare?
7…..

PARTE PRIMA
CAPITOLO 1

I bugiardi cronici hanno un modo particolare di verificare se le loro bugie sono risultate convincenti. Chi è avvezzo alla menzogna, subito dopo aver affermato con certezza il falso o negato spudoratamente il vero, compie una qualche banale azione routinaria, come soffiarsi il naso, pulire gli occhiali o aggiustarsi il nodo della cravatta e nel fare questo prova a lanciare una rapidissima occhiata, di sottecchi, al suo interlocutore per avere conferma di averla fatta franca ancora una volta. Il tutto dura una frazione di secondo. Il bugiardo ne ha bisogno, gli provoca una scarica di adrenalina, l’autostima sale e gli serve per affinare le manovre successive. A seconda di come reagiranno le sue vittime, saprà come comportarsi la volta seguente. Viola aveva una tale dimestichezza con i professionisti della bugia che di solito li individuava dopo una sola conversazione. Quando era in dubbio circa l’onestà di certe affermazioni, aspettava quello sguardo particolare, non mollava mai la presa e, quasi sempre, l’occhiata furtiva arrivava. Da bambina credeva a tutto e a tutti perché l’ingenuità e la purezza di un animo infantile si lasciano convincere anche dalle cose più assurde. Con il passare degli anni Viola imparò a diffidare. Tante furono le delusioni che ricevette da amici e conoscenti che si ripromise di non mentire mai a nessuno. D’altra parte era cresciuta con un forte senso dell’onore ed un amore per la verità che si era inculcata da sola. Era talmente disturbata dai sotterfugi e dalle falsità che non tollerava di poterne essere fautrice. Così, quando si accorse che la prima bugia di quella persona per lei così importante in realtà era solo una delle tante che già le aveva raccontato, non riuscì a capacitarsene. Il suo primo fallimento nello scovare un bugiardo avvenne proprio con chi non le avrebbe mai dovuto mentire. Se avesse potuto sapere prima ciò a cui andava incontro sarebbe stata più attenta, avrebbe eretto più difese. Quando vide il primo furtivo sguardo rivelatore si diede della stupida e dell’ingenua. Aveva perso la lucidità nel giudizio. Purtroppo non fu la sola cosa di cui non si accorse.

CAPITOLO 19
Un incidente stradale è una serranda nera che si abbassa all’improvviso con uno scatto secco e repentino. E non si rialza più. Aveva sempre pensato che la sua famiglia sarebbe stata colpita, prima o poi, da un violento evento luttuoso. Viola aveva il terrore degli incidenti. La spaventavano più delle malattie perché la maggior parte delle malattie ti concede qualche avvisaglia prima di colpirti a morte. Hai modo di guardare in faccia il male, di abituarti all’idea e, se sei fortunato, puoi avere il tempo di salutare chi rimane e goderti con più consapevolezza la sua compagnia. Questa idea, questo convincimento, era ciò a cui si era aggrappata mentre Aurora moriva. La sua insegnante di italiano delle scuole superiori le aveva detto che in ogni cosa brutta della vita bisognava sforzarsi di cercare i lati positivi. Lei si era consolata pensando che aveva avuto il tempo necessario per salutare sua madre. Pochi mesi di sofferenza, ma li aveva avuti. Susanna invece, una ragazza di quinta che frequentava il suo stesso Liceo, aveva perso il padre in un incidente. Lei era stata più sfortunata. Non aveva potuto salutarlo, non aveva potuto abbracciarlo un’ultima volta. Fu per quello che quando la telefonata arrivò, Viola in un certo qual modo era preparata. Si trovava alla cassa del supermercato, con il carrello pieno di generi alimentari. Stava imbustando la spesa che aveva appena pagato con il bancomat. Sul display del cellulare comparve la scritta: numero privato.
“Pronto?” disse Viola un po’ scocciata.
“Buongiorno signora. Lei conosce Matteo Vindi? Abbiamo ripetuto l’ultima chiamata fatta sul cellulare e corrisponde a questo numero.” Era una voce empatica di donna.
“Si, è il mio compagno. Lei chi è? Cos’è successo?”
“Signora non si allarmi, ma dovrebbe venire subito qui al Pronto Soccorso dell’Ospedale Maggiore. Il Signor Vindi è rimasto coinvolto in un incidente stradale. E’ in condizioni serie.”
“Quanto serie?” la voce si fece subito affannosa. Viola era spaventata.
“I medici lo stanno ancora visitando ma l’impatto è stato violento. Non sono in grado di dirle altro. Venga qui il prima possibile. Entri dal Pronto Soccorso, le spiegheranno tutto.”
Viola riuscì solo a pensare “io lo sapevo, l’ho sempre saputo” e ce la fece a mantenere la calma. Come un automa che non ha bisogno di pensare a ciò che fa, Viola abbandonò il carrello ed i generi alimentari che ancora non aveva imbustato e se ne andò correndo verso l’uscita. La cassiera, che aveva ascoltato la telefonata, non provò nemmeno a richiamare la sua attenzione. Aveva capito che era successo qualcosa di grave. E’ morto, è sicuramente morto. Non possono dirmelo al telefono ma io lo so che è così. Fanno sempre così quando muore qualcuno. Aspettano a dirtelo di persona. E’ morto. E’ sicuramente morto. Nel suo cervello questa litania si ripeteva all’infinito. E’ morto. E’ sicuramente morto. I suoi pensieri erano paralizzati su quell’unica considerazione. L’ospedale distava almeno quindici minuti d’auto da dove si trovava lei. Guardò l’orologio prima di salire in macchina. Erano già le quattro e venti del pomeriggio. I pensieri bloccati si sciolsero all’improvviso: doveva pensare a Caterina. Di lì a mezz’ora sarebbe uscita da scuola. Chiamò Camilla, la madre della migliore amica di Caterina, e le chiese di occuparsi della bimba, spiegandole brevemente che si trattava di una situazione di emergenza. Non volle chiamare Giorgio, non prima di aver saputo quali fossero le reali condizioni di Matteo. Camilla avrebbe tenuto Caterina anche a cena se ce ne fosse stato bisogno, quindi non era il caso di allertare suo padre. Fece l’errore di non chiamare i suoi amici: non avvisò Gioia e Fausto né Federica e tanto meno Pietro. Di quell’errore si pentì sopratutto quando, di fronte al medico del pronto soccorso che le diceva di come Matteo fosse morto sul colpo senza soffrire, si girò intorno per cercare una spalla su cui piangere e non ne trovò nessuna. Fu il dottore che ne aveva constatato il decesso ad offrirle la sua.
“Posso vederlo?” chiese Viola in evidente stato di shock.
“Se vuole si, ma deve essere preparata. L’impatto frontale è stato violentissimo.”
“Ho bisogno di qualche minuto. Vorrei sedermi.”
Il medico la fece accomodare in un piccolo ambulatorio adiacente alle sale d’emergenza. Un’infermiera le portò un bicchiere d’acqua e le chiese se voleva che chiamassero qualcuno. Aveva bisogno di sentire la voce di suo padre. Lo chiamò. Il telefono di casa suonava a vuoto così come il cellulare che gli aveva regalato pochi giorni prima. Strano che a quell’ora del pomeriggio non fosse in casa. Telefonò a Gioia e poi tutto precipitò. Sino a quel momento sarebbe stata in grado di ricostruire ogni singolo attimo di quella giornata, fin nei minimi dettagli; ma dall’istante in cui chiamò Gioia, non ebbe più consapevolezza di ciò che accadde. C’erano solo frammenti di ricordi, spezzoni di un documentario mal assemblati a formare un quadro la cui cornice intatta stonava con la tela lacerata in diversi punti. Alle mattonelle bianche dell’obitorio non riusciva a collegare il volto sfigurato di Matteo ma solo l’acre odore di disinfettante che le si era insinuato nelle narici. Alle insistenti telefonate a casa di suo padre collegava solo una sensazione di vuoto, immaginava l’appartamento deserto con lo squillo di due telefoni a fendere l’aria come due ferite. Ai volti di Gioia e Federica riusciva solo a collegare la tensione dei loro corpi e non la disperazione che le lessero in viso e che nei loro occhi si rifletteva. Alla corsa a perdifiato sulle scale del condominio 27 di Via Gravaglia riuscì solo a correlare la ricerca spasmodica della chiave da inserire nella serratura e non la visione statica di un uomo anziano seduto a tavola con la testa riversa nel piatto di minestra che aveva preparato per il pranzo di quel mercoledì di metà novembre. Ci furono due feretri ed un unico funerale. Un lento corteo di automobili dalla camera mortuaria al cimitero. Due sepolture affiancate. Due genitori, quelli di Matteo, che avevano delegato a Viola ogni decisione sulle esequie, insistendo per pagarne le spese. Una madre e una figlia avvinghiate in un abbraccio indissolubile, in cerca di un senso da dare alla contemporaneità di quei lutti. Erano dieci anni che a Bologna non si vedeva una fitta nevicata nel bel mezzo della stagione autunnale.

PARTE SECONDA
CAPITOLO 6

Era a Sydney da tre settimane e non si era ancora data il tempo di fermarsi a pensare. Caterina aveva iniziato la scuola. Andava avanti e indietro autonomamente con lo scuolabus che arrivava fin davanti a casa. L’istituto che frequentava era a tempo pieno. Per quei primi giorni Viola andava a trovarla nell’ora del pranzo. Le insegnanti lo concedevano sempre ai genitori dei nuovi arrivati, pensando fosse nell’interesse degli alunni. Per raggiungere il lavoro Viola aveva già preso confidenza con le linee dell’autobus e della metro che da Five Docks la portavano alla vicina Leichhardt. Non volle chiedere a Marina di aiutarla a cercare un’auto usata perché temeva che gliel’avrebbe regalata. Viola poteva disporre di una discreta somma per far fronte alle prime spese australiane. Aveva venduto l’appartamento di via Gravaglia a Bologna ed incassato il trattamento di fine rapporto al Centro di Studi Forensi. Per far fronte al futuro di Caterina aveva vincolato l’ottanta percento dell’importo complessivo in una banca australiana, la stessa di Archie e Marina. Con la restante parte si era pagata le spese di viaggio e del trasloco oltreoceano e aveva accantonato, su un conto aperto in un istituto bancario di Five Docks, una decina di migliaia di euro per gestire ogni eventualità. Se avesse trovato un usato d’occasione sarebbe stata disposta a spenderne la metà. Qualche giorno dopo, sfogliando una rivista d’annunci, trovò una Toyota Camry color amaranto che faceva al caso suo. Il colore di quella berlina le ricordava la tonalità della cucina dell’appartamento di Via Santo Stefano. Agendo d’impulso telefonò al numero di cellulare indicato nell’annuncio e, neanche ventiquattr’ore dopo, la Camry amaranto era parcheggiata nel vialetto d’ingresso di Grosvenor drive. Riflettendo sulla piega che stava prendendo il nuovo inizio australiano, Viola si sentì incapace di far fronte a tutto. Conquistare l’autonomia in un luogo così diverso da quello in cui era cresciuta le sembrava impossibile. Grazie a Marina tutto stava andando per il meglio, non le lasciava mai sole, faceva di tutto per coinvolgere Caterina nella vita della sua famiglia, le circondava di attenzioni, consigli, affetto. Nonostante questo, i dubbi si insinuarono nei pensieri di Viola. L’aveva messo nel conto prima di partire che avrebbe avuto momenti di sconforto e, forse, di pentimento. Quando la sera socchiudeva la porta della camera di Caterina, dopo averle dato il bacio della buonanotte, si sedeva in veranda, si serviva qualcosa da bere e si sentiva profondamente inadeguata. La sua autostima, che di giorno l’assisteva e la guidava nel districarsi fra tutte le novità che doveva affrontare, di sera crollava e la faceva sentire stanca ed inutile. Viola doveva imparare a concedersi un po’ di benevolenza. Era dura con se stessa, non si perdonava nulla, pretendeva sempre troppo. Questo lato rigido del suo carattere emergeva con ancora più forza quando iniziava a fare progressi. Per lei non bastavano mai ed era così esigente da diventare incontentabile. Pensando a quelle giornate si rese conto che l’unico conforto concreto e tangibile era il linguaggio del corpo di Caterina. Aveva appetito, dormiva bene, sprizzava voglia di correre e si curava nell’aspetto come non aveva mai fatto. Stava bene e si vedeva. Solo questo avrebbe dovuto bastarle per essere soddisfatta di se stessa e della scelta che aveva compiuto. Ma i traumi non erano ancora stati superati e chissà di quanto altro tempo avrebbe avuto bisogno per potersi considerare finalmente guarita. Per molte notti le lacrime scesero copiose sul volto di Viola. Sarebbero scese anche nei mesi seguenti, quando le cose avrebbero iniziato ad andare meglio. Non poteva pretendere che l’oblio in cui era precipitata nell’ultimo tempo della sua vita svanisse senza lasciare strascichi. Quella sera, senza sapere perché, andò a pescare nella memoria il Dottor Serranti e lo psicodramma. La violenza con cui aveva vissuto quell’esperienza liberatoria era ancora nascosta in chissà quale anfratto della sua anima. Gli anni che erano seguiti alla catarsi di quell’evento le avevano riservato gioie immense e dolori abissali. Si disse che forse era da quel punto che doveva ripartire. Da Aurora, che con le parole e la voce di Alessandro, le aveva dichiarato il suo amore e l’aveva salutata un’ultima volta. Chiuse gli occhi, proprio come fece Giorgio il giorno della laurea di Viola, e diede un bacio a sua madre con tutto l’amore che poteva.

Brano corrente

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