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20 Dicembre 2012 | Racconti d'autore

Ah, la cucina bolognese!

Di Mario Sandri, da “Soste sotto le torri”, Testa Editore, 1939.

A cura di Claudio Bacilieri.

20 dicembre 2012

Vi leggiamo oggi un delizioso racconto degli anni ’30 di Mario Sandri. I giorni che precedono la natività di Betlemme, gran affacendio nelle case bolognesi! Tutta la famiglia, mobilitata, attende alla confezione della prelibata vivanda”, vale a dire i tortellini. Questo è quello che scrive il nostro autore.
In giorni come questi, così favorevoli ad approfondimenti del nostro mondo interiore, abbiamo diritto a un po’ di armonia e di quotidianità. Buon Natale a tutti, cari amici.

Ah, questa famosa cucina!

Accade sovente di sentirsi chiedere, da persone senza importanza, conosciute casualmente in treno o nella sala del telegrafo o nell’anticamera degli avvocati: “Voi siete bolognese? Toglietemi una curiosità. E’ esatto che i tortellini siano stati inventati dalla moglie di un notaio ed abbiano oltre un secolo di vita?”

Oppure: “State a. Bologna? Beato voi! Mi sapreste dire perché le tagliatelle al ragù che si mangiano all’ombra delle Due Torri, non trovano le uguali in tutta Europa?… E la mortadella, poi!…E certe altre squisitezze da mandare in solluchero un’intera generazione… Ah,:la cucina bolognese!… “

Le signore – di solito – rivolgono queste domande con un’aria tra l’estatica c l’ammirata, con un tono di voce nel quale si sentono variamente echeggiare un’accorata invidia e un profumo di golose nostalgie: ma, forse, prima del palato, parla, in esse, il disappunto di ignorare una cosi miracolosa perfezione o la segreta speranza che lo sconosciuto informatore si abbandoni al privilegio di una ricetta che farà epoca.

Gli uomini non fanno mistero della loro maliziosa ghiottoneria, della loro curiosità interessata: ascoltano e fanno lepidamente schioccare la lingua; cercano – a traverso confuse indicazioni – di far capire ove hanno pranzato l’ultima volta e i loro occhi brillano di ambigui scintillii traditori; evocano con rapimento il nome di una vivanda. famosa, la qualità. di un vino, l’indirizzo di una trattoria e si mettono in posa, come se iniziassero il rito di una beata digestione.

La conclusione é sempre la stessa: Ah, la cucina bolognese!

Questa decantata, celebrata e invidiata cucina – di cui il forestiero si interessa più dell’altezza delle Torri, della rana di Luigi Galvani e delle glosse di Accursio – è un po’ il segreto dell’anima faceta dei bolognesi, che amano la tavola estrosa e le belle donne, il parlar ridente e l’intingolo saporito, il frizzo mordace e il calice di rubino.

La cucina petroniana ha veramente un’importanza prevalente nella vita cittadina e le trattorie dove si mangia meglio si ammantano della non effimera gloria delle celebrità e i cuochi hanno una loro rigida associazione professionale che sarebbe come l’università dei tortellini e le società gastronomiche bandiscono rituali concorsi, ardui come esami di laurea, e i cucinieri passano imperiosi, nel mondo delle sciape vanità, fieri del loro prestigio, solenni nelle loro ardenti cucine come dinanzi agli stalli di un Senato accademico.

Buon mangiatore, bevitore ottimo, amatore gagliardo, poeta estroso, il bolognese ha il culto della sua cucina privilegiata e, incontentabile per natura, di essa si fa scudo nelle più svariate occasioni, pronto a difenderla, domani, dall’accidiosa insidia di un vegetariano denigratore.

I poeti, i letterati, gli scrittori bolognesi son formidabili divoratori. Lorenzo Stecchetti – gettate in disparte le torbide invettive di Postuma – detta la più completa e arguta ricetta per confezionare le tagliatelle; Alfredo Testoni fa dire alla Sgnera Cattareina le più amene verità sentimentali -gastronomiche e, chiamato a precisare, mangia da par suo; Giuseppe Lipparini abbandona Melitta per muovere alla ricerca di un’osteria suburbana, ?orita di lampioni e di tralci, e, seduto a tavola, ponti?ca.

Che cosa si vuole di più, per confermare la saporita supremazia di questa cucina, i cui aromi si effondono nel mondo, i cui bagliori hanno uno scintillio universale, la cui fama appetitosa non conosce confine?

Ah, la cucina bolognese!

Piccolo, rotondo, procace, biondo di buona sfoglia casalinga, saporito di ghiotto ripieno domestico, il tortellino é veramente un sovrano nella gastronomia nazionale e la sua fama splendente marcia di pari passo con la sua baldanza; che è quella di un signorotto della cucina o di un sommo tenore nel pentagramma culinario universale.

Storia, tradizione, curiosità, erudizione, civiltà, fantasia, civetteria hanno ceduto lestamente il passo a questo sicuro dominatore della mensa bolognese che, dopo aver avuto i natali all’ombra della Garisenda, ha propagato la sua fama al mondo, ha estesa la. sua gloria al1’umanità intera e – ingentilito come un damerino – é andato a rallegrare le tavole di tutti i viventi, lasciando dietro di sé una dolce scia di brodo e di formaggio grattugiato; su questa non volubile traccia hanno camminato le massaie e i buongustai, i cuochi e le signorine da marito, i tradizionalisti e gli uomini di buon appetito, le cui frasi di commossa esultanza hanno minacciato, a un tratto, di toccare il cielo.

Ravvolto nella nuvola di fumo profumato che si levava dalle borbottanti pentole cittadine, il tortellino regale – gloria di Bologna – ha allora veramente vinto il mondo dei suoi divoratori.

In ogni giorno dell’anno, la mensa bolognese ospita con orgoglio il procace tortellino e gli stabilimenti specializzati – adesso che si é preso il malvezzo di fabbricarlo a macchina – lo lanciano senza interruzione sul mercato gastronomico e colmano quei cestini, avvolti di stagnola, che ne porteranno il sapore di là dei mari, dove una legione di buongustai saluterà il suo arrivo come quello di un regale conquistatore.

Ma la sua fama é legata alla cena di Natale e la ricetta classica lo vuole galleggiante in un dorato brodo di cappone, incipriato di dolce formaggio parmigiano. .

I giorni che precedono la natività di Betlemme, gran affaccendio nelle case bolognesi! Tutta la famiglia, mobilitata, attende alla confezione della prelibata vivanda, la cui fabbricazione costituisce un riconosciuto motivo di bravura tra quartiere e quartiere, tra gioventù impetuosa e cauta vecchiaia, tra dilettanti e professionisti di questa invidiata manipolazione.

Chi, con l’aria di compiere un rito, stende la sfoglia e, dopo averla. ottenuta dello spessore voluto, la taglia in rotonde pastelle che il vicino allinea con compunzione; chi distribuisce con gravità il ripieno, servendosi della punta di un coltello e chi chiude abilmente il tortellino dandogli quella foggia immacolata che sarà il leggiadro passaporto di questo sovrano nel mondo degli uomini

dal palato perfetto. Allineato su candide tovaglie, dislocato a reggimenti dorati, il tortellino attende il giorno

fatidico del sacrificio e, recato in tavola nelle larghe zuppiere patriarcali e distribuito nelle fondine ansiose, é accolto dalle rituali acclamazioni dei commensali che salutano, in esso, il degno continuatore della festosa tradizione petroniana che, con uguale compunzione, s’inchina ai diritti dell’intelletto e a quelli non meno prepotenti dello stomaco.

E’ Natale in tutto il mondo. Schioccano i ceppi nelle caminiere bolognesi e, fuori, la neve s’ammassa nei porticati.

Il ripieno – che, talora, ha la rosea carnosità di una camelia o la gialla morbidezza di una rosa thea – è anch’esso apprestato secondo i più perfetti c complicati ricettari domestici. Braciuole di maiale minutamente triturate, candido petto di tacchino, un po’ del sapore casalingo della mortadella, uova, parmigiano, stracchino, aroma di pepe e di noci moscate, sono il fondamento di questa gastronomica delizia, che le massaie, secondo il lor gusto, perfezionano con spezie, con quarti di cappone, con rigaglie genuine e altre meraviglie della classica cucina.

E sua serenità la mortadella?

Nel dizionario gastronomico universale, alla voce mortadella occorre una pagina e forse più, ché le sue benemerenze sono cosi cospicue, il suo aroma cosi schietto e il suo gusto cosi prelibato da insuperbire non soltanto 1’anonimo inventore, quanto il modernissimo consumatore, che la costante lusinga della gola ha fatto ingegnoso c incontentabile, ghiottone e spregiudicato.

La mortadella bolognese é simbolo di gaiezza e la sua foggia – trascurando il sapore – cosi tonda, rosata, lucente, mette addosso il buon umore, affina l’appetito, ricorda certe morbide carnosità emiliane la cui memoria domina sovrana nell’alfabeto sentimentale e poi seduce e titilla il palato, perché ha un sapore cardinalizio e birichino che é il segreto della sua strepitosa fortuna mondiale.

Si dice Bologna e si pensa lepidamente alla mortadella; si nomina la Garisenda e si vede controluce, miracolosamente, una di queste scacchiere incomparabili, nelle quali i cubetti candidi si sposano al rosa delicato della polpa, mentre i granelli del pepe occhieggiano simmetricamente, quasi ad accertarsi che i più rigidi dettami della confezione siano stati rispettati ed applicati.

Cos’é che giustifica la fama della mortadella bolognese? Tutto e nulla. Essa é nata, in un istante d’estro, nella cucina di un cuoco insigne, grande cattedra lucente di spiedi, sapida di rosmarini, nella quale si destreggiano garzoni audaci e fanticelle ridenti.

Di lì, ha spiccato il volo nel mondo della ghiottoneria, ma prima ha chiesto il giudizio di un intenditore solenne: il Dottor Balanzone, il quale con gravità e compunzione ha sentenziato che la nascente fama era ben meritata e che il roseo suino poteva sentirsi orgoglioso di finire confezionato in manipolazioni tanto sapienti e ammirate.

Sotto un così felice auspicio, la mortadella é partita alla conquista dell’umanità e, nel gran viaggio periglioso, ha raddoppiato le sue proporzioni, ha perfezionata la ragnatela della sua legatura di spago casalingo, ha ingentilita la sua foggia pacioccona, poi ha strizzato l’occhio ai buongustai dell’Olimpo.

Ma la fama non basta. Ecco la dimestichezza facile, la familiarità gioconda, la confidenza sorridente con la gloria. Il buon popolano che v’invita alla sua cena frugale, si scusa di non potervi offrire che un “pzulinein ed pan e una ftlineina ed murtadela”; il rosato faccione trova posto onorevole in ogni solenne simposio; i poeti cantano in rima il sapore della mortadella e gli epicurei dissertano sul suo incomparabile gusto; i ghiottoni dicono “bela e bona” come se parlassero di un’amante; gli egoisti si elencano avaramente le sue virtù come se si trattasse di danaro, i raffinati dichiarano in definitiva: “Murtadela e po’ piò”.

Ma ecco il progresso irrompere con trambusto di ferraglie e con sibili di volanti. La confezione manuale – pur così viva e pittoresca – è soltanto degna di compatimento: fuoco alle caldaie, via agli stantuffi, moto intermittente ai meccanici strumenti! La mortadella bolognese conosce le prigioni dei cilindri di ghisa, le ghigliottine delle seghe elettriche, le clave delle impastatrici automatiche, gli arroventati forni di cottura, i gelidi frigoriferi di conservazione, le funebri scatole meccaniche per l’esportazione: passa da un reparto all’altro senza tremare, scivola da una lastra di marmo a un budello d’acciaio senza scomporsi, senza perdere la sua serenità tradizionale e, alla fine, balza fuori perfetta, compiuta, invidiata, più gustosa di vent’anni fa, più avvenente di ogni altro prodotto concorrente, incontrastata imperatrice del mondo salumario internazionale.

La sua gloria è fatta, il suo sapore non ha più misteri per nessuno. Tronfia, panciuta, magnifica, la mortadella invade la mensa, s’insedia tra gli antipasti, occupa il posto di centro nei banchetti principeschi e poi incede solenne, incontrastata tra i salami genuflessi e i prosciutti prosternati, semplice e dolce, come l’anima angelica del suo creatore, gran cuoco e gran mangione.

Le lasagne verdi, nell’olimpo gastronomico bolognese, costituiscono l’anello di congiunzione fra il regale primato dei tortellini e la rosata ghiottoneria della mortadella: paffute, insigni, voluttuose, esse sono le dominatrici indiscusse della tavola e non c’è banchetto solenne o modesta imbandigione che non si apra con questo preludio a grande orchestra di delizie, nel quale ugualmente s’impongono la bravura della confezione e 1’arte sopraffina del condimento, l’architettura prudente del cuoco e la galanteria giocosa del cameriere.

Si dice lasagne verdi e 1’orizzonte si popola di trecce di smeraldo: morbide, stillanti, colme di gravità – talvolta – di una gravità che solo i bolognesi comprendono. Il verde delle lasagne – quel verde tenerello, leggermente stinto, che tanto seduce – é ottenuto con spinaci che, bolliti a dovere, vengono aggiunti alla farina e impastati con essa. Quando la sfoglia, ben levigata, brilla sul casalingo tagliere, ecco entrare in giuoco il coltello che la recide in larghe chiome augurali, ne forma una massa lieve, sapientemente dosata. Cotte in acqua, come tagliatelle comuni, a poco per volta, le lasagne regali sono successivamente poste ad asciugare e, raccolte in strati, vengono disposte in un ruoto di rame, alternando al condimento la pasta, ai fegatelli la sfoglia, che già va assumendo una sua calda tinta, densa di promettenti aromi.

E’ questa un’operazione delicatissima, che attesta l’arte raffinata della cuoca. Sul fondo, disposto il primo strato verde, nasce il miracolo dell’architettura saporita: e il biondo ragù invade ogni pertugio, mentre il parmigiano e i tartufi aggiungono all’incomparabile piatto la perfezione del loro suggello definitivo. Cosi colmato, i1 ruoto é posto brevemente al fuoco. Le lasagne ne usciranno appena bionde, e, sotto la dorata crosticina, il buongustaio troverà la più saporita, la più classica delle minestre di questo mondo e dell’altro…

Ci sono certi ristoranti, a Bologna, dove le lasagne sono all’ordine del giorno. E, dentro le nicchie d’oro, ridono dalle vetrine, adescano facete, offrendo a chi passa – di sotto il velame delle garze – golosi e maliosi paradisi. Le straniere sono le più fedeli ed entusiaste consumatrici. Certe signore inglesi – finito il pasto – chiamano il cuoco e pretendono di sapere da lui “come ha fatto”, per portare fino a Westminster la ricetta prelibata, quella che farà andare in solluchero il baronetto uricemico e il lord gottoso. Il cuoco bolognese non dice quasi mai “come ha fatto”: col suo faccione sorridente, sotto il berretto di panna montata, lascia dire e si compiace della curiosità suscitata dalla sua creazione. Poi pensa che il mondo é bello, che Bologna é ancora più bella e che la cucina bolognese é una tal cosa favolosa che non può esser raccontata né ad inglesi né ad altri.

Si dice panspeziale e la golosità pensa subito all’inverno, candido di sipari di neve, folto di ovatte natalizie, dolce e confortevole di domestici focolari. Si nomina questa delizia e gli occhi evocano sfilate di mostre scintillanti, trionfi di cedri trasparenti, baldanza di rose di carta e aromi di mandorle croccanti, in uno sfondo di lampade ferme dove i luccicori hanno strane perplessità di stagnole, dove anche i sapori sembrano assumere un caldo e filante alito di zucchero e di miele.

Il Natale é nella strada folta di neve; passano i carri senza rumore; filtrano, dalle tende spesse, grida e feste di bimbi allorché il panspeziale appare sulle tavole imbandite. E’ greve e lucido come un disco di vetro, ha bruni misteri di cioccolatto c densi strati spugnosi di spezie e di frutti canditi, é regale e insieme familiare, ha una sua tipica solennità che ha del religioso e del profano c poi splende, entro la sua culla di cartone, con toni e riverberi così eloquenti che non si può resistere. Balena improvviso nell’aria un coltello e si ode un colpo secco. Giustizia é fatta. La golosità é placata. Le fette sfilano mollemente all’intorno mentre nel caminetto i ceppi schioccano e la casa si empie di gaudio saporito e di clamoroso tripudio.

La tradizione e la fantasia, l’illusione e la storia conferiscono al panspeziale la burbera solennità di una ghiottoneria classica, di quelle che s’incontrano una volta l’anno e, anche quando appaiono, non hanno mai la familiarità ridente delle leccornie di poco conto. Pensate: le storie diligenti raccontano che l’autentica ricetta del panspeziale fu dovuta ai Frati della Certosa di Bologna i quali, tra le preghiere del chiostro e le mortificazioni della cella, sembra non disdegnassero le ghiotte contese del palato e le studiose esperienze dell’arte dolciaria. Ogni anno, a Natale, dalla Certosa partiva puntualmente alla volta di Roma un panspeziale grandioso, destinato a quel Prospero Lambertini, già consacrato Benedetto XIV, cui la cattedra di San Pietro non aveva per nulla affievolito il gusto della buona tavola e la fantasia del parlar schietto, ma piuttosto fatta in lui più acuta la nostalgia della sua rossa e ridente città.

Figuriamoci il rubizzo Lambertini dinanzi alla maestosa gloria di questo panspeziale inaudito e subito rivediamo il suo volto splendere di pontificale allegrezza e le sue mani soppesare lepidamente la mole e i suoi occhietti, che non rifuggivano le belle penitenti, tralucere ansiosi di orgasmo e di malcontenuta ghiottoneria.

Le cronache prudenti non riportano i giudizi di questo Papa di buon appetito e di eccellente umore, ma certo essi dovettero essere lusinghieri e felici se l’omaggio divenne una consuetudine e questa una tradizione gradita e se il lucente panspeziale fu il non disprezzabile confortatore dei grigi anni di regno del ridente vegliardo. E gli ingredienti? E la confezione di questo prelibato signore della tavola, che le nevi sembrano sospingere e la tramontana natalizia gaiamente benedire? Tutto un trono di appetiti e di desideri si dipana intorno al miele dorato, al candore della farina, alle droghe, al cioccolatto, ai pimenti birichini, alla fragranza delle mandorle perfette, al pungente alito dei pinoli, al lucido bagliore dei canditi che sono il fondamento, l’armatura robusta del panspeziale.

Ma quanta cura, prima che il capolavoro splenda e della sua fragranza irrori la mortificata umanità!

Si comincia con l’impasto che dev’essere sodo e biondo come una spira di sole; si continua con la plasmatura che ha segreti e accorgimenti tolti all’antica arte statuaria, si completa (con l’adornamento di lucide scorze e di caldi unguenti, si consacra con la cottura vigilata, con la confezione irresistibile, tutta gale, fiocchetti, frange, fiorami e brillanti carte veline. A voler essere precisi, ci sarebbero anche le contese fra le vecchie ricette: due uova che consiglia una massaia di provincia perché il sapore sia più delicato, un pizzico di bicarbonato o un cucchiaio d’anici o due stecchi di garofano che suggerisce un cuoco di fama indiscussa.

Poco male, per questo. Il panspeziale guarda e lascia fare: tanto, la gloria della ricetta autentica, non c’è barba di cuoco o di massaia che sia riuscito a carpirla…

Adagiato nelle rotonde scatole orlate di trine di carta, allineato in reggimenti profumati entro i larghi scaffali dello stabilimento o nelle tepide alcove delle vetrine, il panspeziale attende – lucido di scorze e profumato di aromi – di cominciare il suo viaggio per il mondo.

Può capitargli di sentirsi sprofondare in una valigia e di rivedere la luce in terra lontana, può accadere che una lama profana tagli miseramente in fette il suo maestoso spessore o, più facilmente, avviene che il ridente panspeziale si ritrovi in una tavola scintillante, accanto a una trasparente assemblea di coppe, mentre nell’aria volteggiano le strofe del sermone di Natale.

E’, questo, il trionfale epilogo di una carriera che è stata saporita, maestosa e splendente.

Il ghiotto elenco, lettore, non finisce qui. Ci sono i tortelloni da vigilia e la ciambella domestica – di cui ogni massaia possiede una ricetta privilegiata – ci sono le cotolette avvolte nei delicati sudari di prosciutto e la miri?ca allegrezza dei passatelli d’oro. E poi, che c’è ancora nelle casseruole luccicanti di Bologna?

Quando sarete riusciti a compilare la minuta di vostro gradimento, viene il bello. Ricordatevi dei locali delle colline nostre. Luoghi schietti. Tavole estrose, dinanzi a cui tutto questo ben di Dio – nell’ombra folta dei viali che cominciano a sonnecchiare – diventa una trionfale c beata musica di paradiso.

Ah, questa famosa cucina!…

Brano corrente

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