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24 Ottobre 2019 | Racconti d'autore

Dantemotivo

Estratto dalla colonna sonora alla recitazione dell’“Inferno” di Dante Alighieri: musica di Michele Bacci, voce di Alessandro Zurla

A cura di Vittorio Ferorelli. Musica di Michele Bacci, lettura di Alessandro Zurla

Il musicista Michele Bacci e l’attore Alessandro Zurla sono i protagonisti di “Dantemotivo”, un progetto che interpreta in chiave sonora la “Divina Commedia” restituendola sotto forma di esperienza auditiva emozionante, in cui la voce recitante e la colonna musicale originale invitano a immaginare il racconto come se fosse un film. Ve ne proponiamo un estratto dai primi due volumi dedicati all’“Inferno”: il celebre Canto Quinto, con l’apparizione di Paolo e Francesca nella schiera dei lussuriosi.

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.

Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata

vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.

Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte.

”O tu che vieni al doloroso ospizio”,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,

”guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!”.
E ’l duca mio a lui: “Perché pur gride?

Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare”.

Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.

Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.

Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.

Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.

E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali

di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.

E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,

ombre portate da la detta briga;
per ch’i’ dissi: “Maestro, chi son quelle
genti che l’aura nera sì gastiga?”.

”La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper”, mi disse quelli allotta,
”fu imperadrice di molte favelle.

A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.

Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che ’l Soldan corregge.

L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussurïosa.

Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.

Vedi Parìs, Tristano”; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch’amor di nostra vita dipartille.

Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.

I’ cominciai: “Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri”.

Ed elli a me: “Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno”.

Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: “O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!”.

Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere, dal voler portate;

cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettüoso grido.

”O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’ hai pietà del nostro mal perverso.

Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.

Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense”.
Queste parole da lor ci fuor porte.

Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso, e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: “Che pense?”.

Quando rispuosi, cominciai: “Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!”.

Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: “Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.

Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?”.

E quella a me: “Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore.

Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante”.

Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.

E caddi come corpo morto cade.

[testo tratto dal volume: La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di Giorgio Petrocchi, Firenze, Casa Editrice Le Lettere, 1994 (“Le opere di Dante Alighieri. Edizione nazionale a cura della Società Dantesca Italiana”)]

Parafrasi
Scesi quindi dal primo al secondo cerchio, che ha minore circonferenza, ma contiene una pena tanto più dolorosa, da provocare lamenti. Qui si erge in modo spaventoso Minosse, ringhiando continuamente: all’ingresso del cerchio esamina le colpe dei dannati, li giudica e li invia alla loro sede, che indica avvolgendosi la coda intorno al corpo. Intendo dire che quando l’anima sciagurata gli si presenta davanti, subito gli confessa pienamente le sue colpe; e quell’esperto giudice dei peccati decide quale luogo dell’Inferno le è adatto; si circonda il corpo con la coda tante volte quale è il numero del cerchio dove vuole che sia mandata.
Al tribunale di Minosse ci sono sempre molte anime; ciascuna a turno va davanti a lui in giudizio, dichiara i suoi peccati, ascolta la sentenza e poi viene precipitata giù in Inferno. Quando mi vide, Minosse mi disse, sospendendo lo svolgersi della sua importante e terribile mansione: “O tu che entri nella dimora del dolore, valuta bene dove stai facendo ingresso e di chi ti fidi così; non lasciarti ingannare dall’ampiezza dell’entrata!”. La mia guida gli rispose: “Perché ti dai tanta pena di gridare? Non cercare di opporti al suo cammino stabilito dalla Provvidenza divina: così vuole Dio, perciò non fare più domande”.
Ora incominciano a farsi sentire i suoni del dolore; ora ho raggiunto un luogo da cui un coro di forti lamenti mi investe e mi sconvolge. Raggiunsi dunque un luogo completamente abbandonato dalla luce, da cui si levava un fragore come di mare in tempesta, quando è agitato da venti contrastanti. Qui la bufera infernale, che non si interrompe mai, trascina gli spiriti nel suo vortice; li tormenta facendoli roteare e scontrare. Quando i dannati arrivano davanti allo scoscendimento del cerchio, si fanno più forti le loro urla, il coro dei pianti e di lamenti; qui bestemmiano la potenza di Dio.
Intuii che a questa pena erano dannati i lussuriosi, che sottomettono la facoltà suprema della ragione all’animalesco piacere. E come le ali conducono gli stornelli in stormi larghi e fitti, nella stagione invernale, così quel vento trascina gli spiriti malvagi in ogni direzione; non dà loro sollievo nessuna speranza, non solo di cessazione, ma nemmeno di diminuzione della pena. E simile a uno stormo di gru, che volano allineate emettendo il loro verso lamentoso, vidi una fila di spiriti, trasportati dalla tempesta che ho descritto, che si lamentavano forte; perciò chiesi a Virgilio: “Maestro, chi sono quelle persone che il nero turbine fa così soffrire?”
“La prima di coloro di cui tu vuoi sapere notizie”, disse allora Virgilio, “fu imperatrice di molti popoli dalle lingue diverse. Fu così sfrenata nel vizio della lussuria, che stabilì per legge che ogni piacere fosse lecito, per cancellare la condanna che si era attirata. È Semiramide, che secondo i libri di storia fu sposa dell’imperatore Nino e gli succedette sul trono alla sua morte: regnò sulla terra che oggi è governata dal Sultano. Quella che la segue è colei che si uccise per amore (Didone), tradendo il giuramento fatto sulle spoglie del marito Sicheo; poi viene Cleopatra, famosa per la sua lussuria. Vedi subito dopo Elena, a causa della quale trascorse un così lungo tempo infelice, e vedi il valoroso Achille, che combatté il suo ultimo duello con l’amore. Vedi quindi Paride, Tristano”; e continuò a mostrarmi ed a indicarmi una quantità di ombre che furono strappate alla vita dall’amore.
Dopo che ebbi udito il mio maestro nominare gli antichi personaggi, fui colto da un improvviso sentimento di pietà, per cui fui sul punto di venir meno. Allora dissi rivolgendomi a Virgilio: “Poeta, mi piacerebbe parlare a quei due spiriti che volano stando uniti, e sembrano abbandonarsi senza peso al vento”. Egli rispose: “Fa attenzione quando si avvicineranno a noi, pregali in nome dell’amore che li trascina e vedrai che verranno”.
Appena il vento li spinse verso di noi, dissi ad alta voce: “O anime tormentate, venite a parlare con noi, se non vi è negato!”. Come colombe, spinte dal desiderio amoroso, si muovono nell’aria con le ali spiegate verso l’amato nido, condotte dalla volontà di raggiungerlo, così quei due spiriti uscirono dalla fila di anime ove si trova Didone e vennero verso di noi per l’aria infernale, così intenso era stato il commosso richiamo.
“O creatura vivente gentile e benevola, che attraverso l’aria nerastra vieni a far visita a noi, che macchiammo il mondo col nostro sangue, se Dio ci ascoltasse pregheremmo per la pace del tuo spirito, dato che hai pietà della nostra terribile sofferenza. Noi converseremo con voi degli argomenti che vi stanno a cuore, finché il vento, come fa, smetterà di infuriare in questo luogo riparato. La città dove nacqui sorge sulla costa dove sfociano le acque del Po, confondendosi con quelle dei suoi affluenti. Amore, che si impossessa rapidamente del cuore gentile, fece sì che questi (Paolo) si innamorasse del bel aspetto fisico che poi persi assassinata. Amore, che non permette ad alcuna persona che sia amata di non amare a sua volta, fece sì che mi innamorassi della bellezza di costui (Paolo) con intensità tale che, come vedi, ancora non si é affievolita. Amore portò me e Paolo a essere uniti nella morte, a morire insieme. Chi ci strappò alla vita è destinato a sua volta all’Inferno: alla Caina, il cerchio dei traditori”. Francesca così ci parlò in nome di entrambi.
Quando ebbe ascoltato quelle anime ferite, abbassai il capo e lo tenni così tanto a lungo, che il poeta mi domandò a che cosa pensavo. Quando risposi, vincendo l’emozione, dissi: “O me infelice, quanti pensieri innamorati, quanto desiderio trascinò costoro al punto di commettere il grave peccato!”. Poi mi rivolsi direttamente alla coppia di anime e così parlai loro: “Francesca, le tue sofferenze mi rendono addolorato e pietoso al punto di farmi piangere. Ma vorrei sapere con precisione questo: nel tempo in cui a causa del vostro sentimento sospiravate senza osare manifestarlo, per quale ragione e in che modo Amore permise che conosceste i reciproci, contrastati sentimenti?”.
Francesca mi rispose così: “Nulla suscita maggior dolore del ricordo della felicità passata nel tempo dell’infelicità; e il tuo maestro lo sa. Ma se hai tanto desiderio di conoscere l’origine prima del nostro amore, parlerò, pur tra le lacrime. Un giorno, leggevamo insieme per divertimento la storia del cavaliere Lancillotto e di come si innamorò di Ginevra; eravamo soli e non avevamo alcun presentimento di ciò che sarebbe successo. Più volte quella lettura ci spinse a sollevare lo sguardo l’uno verso l’altra facendoci impallidire, ma solo un passo vinse le nostre resistenze. Quando leggemmo che la bocca desiderata di Ginevra veniva baciata da quell’amante straordinario, Lancillotto, questi, che non sarà mai separato da me per l’eternità, mi baciò la bocca tremando di passione e di desiderio. A provocare la nostra unione fu il libro e con esso il suo autore. Da quel giorno smettemmo di leggerlo”.
Mentre uno dei due spiriti raccontava questi avvenimenti, l’altro, in silenzio, piangeva; allora per l’intensa pietà io mi sentii venir meno, quasi al punto di morire. E caddi al suolo, come morto.

[testo tratto dal volume: Dante Alighieri, La commedia, a cura di Bianca Garavelli, Milano, Bompiani, 1993]

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