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25 Ottobre 2012 | Racconti d'autore

Falene. 237 vite quasi perfette

di Eugenio Baroncelli, Sellerio editore, Palermo, 2012 (terza puntata)

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

25 ottobre 2012

Libro formidabile, questo che vi proponiamo: elogiato da Roberto Saviano (“Quanto mi piace quell’Italia minore”), racconta le storie di persone comuni, poco note o, talvolta, famose, comprimendole in una sola pagina, e spesso meno. Queste mini biografie puntano subito al sodo: com’è morta la persona? È la morte che spiega la vita: “Il solo stato di perfezione alla portata di un mortale è la morte”, spiega Eugenio Baroncelli, scrittore di Ravenna nato nel 1944, che prima di questo “Falene”, ha pubblicato presso Sellerio altri due raccolte di vite brevi, “Libro di candele” e “Mosche d’inverno”.
“I suoi tre libri di biografie – ha scritto Saviano – li porto in borsa da molto tempo. Da poggiare sui comodini dove mi capita di dormire. Leggo una biografia a notte eogni volta ho l’impressione di aver conosciuto, davvero conosciuto, una persona diversa. Perché Baroncelli è un virtuoso della vita altrui. Perché divora migliaia di pagine per partorire una stilla di cristallo o una pietra dura”. Di Baroncelli dice ancora: “L’Italia letteraria nasconde questi autori preziosi, figli di una tradizione spesso dimenticata, che scrivono per il piacere dei lettori”.

Empedocle di Agrigento, pesce nel fuoco

Raccontò della Terra e dell’Acqua, dell’Aria e del Fuoco. Raccontò che tutte le cose cambiano, restando eternamente le stesse. Sopra questo mondo vide splendere, pacifico e illimitato, lo «sfero circolare» che si compiace della sua unicità e che alcuni di noi chiamano Dio. Parlava nella lingua del poeta e del mago, se non sono lo stesso uomo. Sostenne di essere stato un bam­bino e una ragazza, un cespuglio e un uccello. Morì due volte. La prima di ordinaria vecchiaia, quando si spense sessantenne in qualche angolo del Peloponneso. L’altra per eccesso di eccentricità, quando, lui che assicurava di essere stato anche un muto pesce che sorge dal mare, si inerpicò sul maestoso Etna e, arrivato in cima, si inabissò nella sua bocca ardente. Quevedo, sedicente amico della verità, definì questa morte uno sproposito e lui uomo dissennato, che peccava di stravagante nostalgia. Altri, non potendo credere che facesse confusione fra gli Elementi, chiamarono lui illusionista e questa morte il più riuscito dei suoi trucchi.

 

Elisabeth Fischer, una madre e sua figlia

Fu una bellezza rara. Nel 1795, divorziata da un Graun, magistrato eminente ma uomo forse noioso, si diede alla poesia, o almeno ai poeti. Uno, il dimenticato Friedrich August von Stàgemann, lo sposò. Di un altro, indimenticabile, fu, al dire della fonte della mia fonte, «l’amica materna». Si sa che quello, fieramente incline a confondere la vita con le opere, a trentatré anni si era perdutamente innamorato della figlia dodicenne di lei, Hedwig Marie. Si narra che, in tasca una pistola vera, nel cuore un fantasioso patto suicida stretto con una donna malata, disceso dalla carrozza che doveva condurli al cristallino traguardo di Wansee, abbia fatto visita alla famiglia per rendere l’estremo saluto ma non sia stato ricevuto perché quello, a casa St.gemann, era giorno di bucato. Aveva fede nella poesia e nei patti. Non avrebbe più rivisto né l’amorevole madre né l’amata figlia. Si chiamava Heinrich von Kleist.

 

Romain Kacev detto Gary, brucia, ragazzo, brucia

«Da una parte c’è l’esibizionismo e dall’altra il fuoco».
R. GARY 

Parigi, 3 dicembre1980. Hagli anni miei, il doppio di quelli di Gesù. È il figlio naturale di un’attrice, ebrea russa sospinta in Lituania dal vento della Rivo­luzione e nell’oblio da quello del tempo, e di Ivan Mo­sjukin, indimenticata vedette del muto. Un mezzo ebreo, una cosa che non capisce («È come dire un mezzo ombrello»). È figlio legittimo del Fuoco: non è per niente che si è messo quel cognome, gari, che in russo vuol dire «brucia!» ed è anche il ritornello di una vecchia canzone tzigana. È stato molti altri. Eroi di guerra e di letti. Intrepido aviatore. Seduttore in­fallibile («Troppe donne, cioè nessuna»). Secondo dei quattro mariti di Jean Seberg, che quindici mesi prima ha scelto i barbiturici perché non andava d’accordo con le pistole e con i suoi nervi. Uomo di mondo e di­plomatico. Sganarello e il barone Dudevant messi in­sieme. Attore e regista. E scrittore. Fosco Sinibaldi. Shatan Bogat. Emile Ajar, che ha beffato i giudici vin­cendo il Goncourt dopo di lui. Vuole morire una volta in più di loro. In un momento qualunque del pomeriggio, si tira un colpo di pistola alla testa. Indossa una vestaglia rosso fuoco, che è sceso a comperare la mattina, perché il sangue non si noti troppo. «La morte?». «Molto so­pravvalutata», aveva risposto un giorno a qualcuno (ancora lui) che lo intervistava. «Bisogna cercare qual­cos’altro». Di meglio non trovò nemmeno lui.

Ravenna, 3 dicembre 2010

 

Herman Melville, l’uomo più solo del mondo 

Pareggiò Plutarco, impareggiabile biografo. Batté tutti i portieri. Batté perfino Kafka, che almeno un termine di paragone con la sua solitudine lo aveva tro­vato: «Solo come Kafka». Nel 1852, prostrato dall’in­successo dell’ultimo romanzo, che noi giudichiamo il suo capolavoro, si guardò allo specchio e vide l’immagine del fallito perfetto. Diventò l’uomo più solo del mondo, come Gesù. Aveva trentatré anni, ma non poté morire. Invece di morire viaggiò, come se viaggiare fosse un’altra versione della morte. Tornava alla sua prima vita, di marinaio avventuroso e esperto baleniere, ma senza più illusioni. Raggiunse l’arcipelago vulcanico delle Galapagos, che i primi navigatori spagnoli avevano battezzato Islas Encantadas, e vi trovò la tetraggine dell’inferno.

Sul suo taccuino annotò: «Prendete venticinque mucchi di cenere, gettati qua e là su un terreno ai margini della città, immaginate che alcuni di questi si innalzino sulle montagne e che il terreno sia il mare, e avrete un’idea adeguata dell’aspetto di queste isole». Vide l’oceano inimitabile: un best seller già scritto davanti ai suoi occhi. Ascoltò vaghi colpi di risacca, che facilmente confondeva con il russare dei suoi lettori. Calcò nude spiagge ardenti parlando a nessuno. (Chi vuole origliare quei discorsi deve allungare le orecchie). Incontrò le grandi tartarughe. Quelle, che avevano sbalordito Darwin, lui le paragonò a una stirpe di dannati danteschi. Vide che incespicano eroicamente nelle rocce, che disperata­mente si dibattono e premono per spostarle. «La suprema loro maledizione», scrisse, «è il fatale impulso a tirare dritto in un mondo ingombro di ostacoli». Capì che l’e­stenuante storia della Natura non differisce intimamente da quella degli uomini, la sua e la nostra.

 

Robert Walser, l’uomo che entra in tutti i miei libri

Amava la vecchiaia, che il fuoco delle passioni lo spegne e che un’altra febbre, quieta e gioiosa, preserva dal predominio dell’eccezionale. «Finalmente si è smessa la vanità e possiamo sedere tranquilli nella grande pace della vecchiaia, come in una mite luce astrale».

 

Osip, ladro di biciclette 

Venuto dalla Polonia, fu il cameriere personale di Vladimir Dmitrieviè Nabokov. Godette i suoi blandi rimproveri quando gli porgeva la camicia sbagliata e le sue attenzioni per il figlio che aveva portato con sé, la cui impressionante rassomiglianza con lo zarevic Alessio non si limitava ai tratti pallidi del volto ma, per una coincidenza ancora più impressionante, includeva anche la tragica dipendenza dell’emofilia, di modo che non era raro che una carrozza di Corte conducesse alla re­sidenza dei Nabokov un famoso medico di San Pietro­burgo perché lo curasse. Patì, polacco, l’infelice destino della vecchia Russia e del suo magnanimo padrone.La Rivoluzionedi ottobre, o meglio di novembre, li divise. L’altro, in spalla lo zaino che lui gli aveva premurosa­mente preparato, dovette in tutta fretta riparare in Crimea. Lui, rimasto solo nella casa spopolata dalla Storia, finì fucilato con bolscevica pedanteria per questo imperdonabile reato: essersi appropriato delle biciclette dei Nabokov (quella di Sergej, quella di Vladimir Vladimirovic, quelle di Ol’ga e di Elena, e il triciclo del piccolo Kirill) invece di consegnarli allo Stato. Tre anni più tardi, l’altro cadde a Berlino sotto il fuoco di un sinistro manigoldo che durante la seconda guerra mondiale sarebbe stato nominato da Hitler Responsabile per gli affari dell’emigrazione russa. Difficile stabilire se quella rivoluzione fosse più forsennata o più pedante.

 

Leandro Prevost, lui e la luna

Nasce da queste parti. Non dipinge, ma ha le sue fasi, come Picasso. C’è la fase in cui, armato di pazienza, cesoie e annaffiatoio, accudisce nobilmente i fiori. C’è quella in cui si dedica al ricordo di Deanna. Fu suicidio? Lui ancora non ci crede. Spesso accennava al suicidio, ma in una forma molto poetica. Fu la sua fine? Questo è certo. La morte arrivò puntualmente con quarantotto anni di ritardo. C’è quella della luna, un’altra che ha le sue fasi. D’inverno diventa pallido come la luna. Di notte apre le finestre e si mette a guardarla. Patiamo e godiamo molte morti e molte vite tutte le notti, ma quelle sono notti speciali. Si domandò chi sarebbe spa­rito prima, se lui da questa terra o lei da quel cielo. I fiori e i morti all’estero non vanno, ma lei?

Brano corrente

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