6 settembre 2012
Piero P. Giorgi, nato a Bologna nel 1941, ha alle spalle studi di biologia ed esperienze di docente e ricercatore, da Parma all’Australia. Si è occupato di storia della medicina e dirige la rivista di studi italiani “Convivio”.
“Il filo di seta” è un romanzo storico ambientato nella Bologna medievale: è la storia di Alessandra, che studia medicina sotto le sembianze di un uomo, e del suo rapporto con la giovane scuola accademica bolognese. Alessandra usa il trampolino delle conoscenze naturalistiche ricevute dalla “scientia” segreta femminile per tuffarsi nella scienza ufficiale maschile, generando scandalo quando il dibattito verte su storia e medicina, filosofia naturale e psicologia. L’autore non nasconde l’ispirazione marcatamente femminista del romanzo: la storia della medichessa medievale stimola anche un confronto tra le opinioni antiche e quelle attuali circa l’eredità, scoprendo come, dopo settecento anni, il contributo della donna sia ancora sottovalutato.
Prima Parte
QUELLI DI LUCCA
Dove il setaiolo Nerino Zilliani fugge a Bologna dopo il sacco di Lucca e la sua bambina Alessandra incontra per caso il grande medico Mondino de’ Liuzzi, ma anche gli aspetti cruenti della medicina (settembre 1314).
Le guardie di Porta Stiera sono state all’erta tutto il giorno. C’è un’aria d’aspettativa, di sospetto, d’eccitazione in Bologna. Dieci giorni fa il bando del Capitano del Popolo ha annunciato l’arrivo di molti profughi toscani. Pare che ora siano poco lontano dalla città. Brava gente, alcuni anche ricchi, tutti scacciati da Lucca dopo gli scontri con i pisani ed il sacco della città inflitto dalle truppe di Uguccione della Faggiola.
«Ci porteranno via il commercio» brontola un vecchio negoziante.
«Dicono che le donne di Lucca siano bellissime» confida uno studente di legge al suo amico.
«Quanti sono?».
«Mille, dicono».
«Mille? Dove li mettiamo?».
E appena arrivato un mercante da Porretta che li ha visti mentre attraversavano Casalecchio. Hanno i carri strapieni di masserizie, sono stanchi ma continuano a camminare per arrivare prima che faccia buio.
Sono molto meno di mille. L’accordo stipulato con i bolognesi specifica venti famiglie, nessun armato e prestiti speciali per le spese di sistemazione.
La Compagniadell’Arte della Seta ha accettato l’entrata degli artigiani lucchesi che porteranno i segreti di nuovi metodi di lavorazione per i macchinari bolognesi.
«Uguccione si pentirà d’averli scacciati. Bologna diventerà un grande mercato della seta». L’arringa di Bonincontro dei Boatieri alla riunione dei Trecento convinse i bolognesi e l’accordo si fece. Ma adesso che gli stranieri stanno arrivando, paura e diffidenza affiorano in un popolo abituato ad ospitarne di tutti i generi nello Studio, ma solo per qualche anno, mentre imparano legge e medicina. Questi vengono per restare, con gli stessi diritti dei cittadini bolognesi.
«Eccoli! Sono laggiù alla curva di San Francesco!» Pietro Villola, un giovane apprendista cartolaio, si sbraccia sulle mure gesticolando, puntando il dito verso la campagna, saltellando attorno alle guardie che si dirigono verso le scale per scendere. Suona la tromba di Porta Stiera, escono i cavalli dalle scuderie, qualcuno corre a chiamare Alberto Palavicini.
«Capitano, arrivano… arrivano! ».
Molti bolognesi sanno bene cosa voglia dire esser banditi dalla propria città. Dopo decenni di lotte tra le fazioni dei Geremei e dei Lambertazzi, famiglie intere sono fuggite a Faenza o Ferrara, le loro case rase al suolo, i domestici abbandonati a se stessi. I banditi sono malvisti nelle città straniere. Vivono in ghetti separati, ossessionati dalla propria diversità, cullandosi nell’illusione di una superiorità eretta in difesa contro gli altri più numerosi.
Alcuni invece s’integrano subito nella cultura degli ospiti, esplorando costumi diversi ed imitandoli. Se perdonati, questi ultimi ritornano nella propria città per poi diventare stranieri in pàtria, in un loro ghetto di diversità autoimposta. Minoranze politiche bandite e perdonate, eretici, intellettuali scomodi, studenti itineranti e commercianti avventurosi, si spostano di città in città, ignari del loro ruolo nella diversità culturale e nell’evoluzione dei costumi e delle idee.
È il tardo pomeriggio di una bella giornata di autunno, verso la fine di settembre dell’anno 1314. Alle redini del suo carro tirato da due buoi, Nerino Zilliani si preoccupa per la figlia che cammina avanti:
«Non sei stanca Bruchina? Torna qui su. Ti perderai quando ci ammasseremo davanti alle porte della città. Alessandra! Stai qui, non allontanarti».
Le esortazioni del setaiolo lucchese non servono a richiamare la ragazzina che vuole vedere le mura della famosa Bologna, la città di cui si è parlato tanto durante le giornate ansiose della partenza e quelle affascinanti del viaggio che sta terminando. I grandi boschi di castagno sulle colline tra Lucca e Porretta, i ruscelli con i gamberi e le trote, le lunghe notti passate all’aperto vicino al fuoco tra le braccia del padre che piangeva. Ha solo dodici anni e sta vivendo un sogno insperato: viaggiare ai confini del mondo, cioè oltre le colline di Lucca, per raggiungere le favolose terre di Bologna, dove vivono i saggi con i loro studenti, dove lavorano i fabbricanti di canapa, da dove San Domenico esortò i suoi frati a predicare in tutto il mondo.
I lucchesi sono finalmente arrivati ed hanno passato la prima notte accampati subito fuori le mura, protetti da alcuni armati del Comune. Qualche testa calda dei Lambertazzi avrebbe potuto molestarli. Ma non è successo niente e le prime luci del mattino trovano molti già svegli e curiosi della loro nuova patria. Specialmente i bambini si aggirano nei dintorni in piccoli gruppi. Alcuni corrono indietro a raccontare che le case, la gente e l’odore del pane sono come a Lucca. I servi al seguito dei lucchesi cercano di procurarsi del cibo dai primi commercianti che aprono bottega. Uno di loro comincia a raccontare ai suoi compagni «Anni fa mio cugino, sapete quello alto e grosso, dovette accompagnare un commerciante di tessuti fino a Bologna. Quando tornò ci diceva che qui tutti sono liberi. Forse non è vero… però sarebbe strano non avere un padrone…».
Alessandra si è alzata all’alba, è scivolata fuori dal carro mentre suo padre dormiva ancora; si è dapprima unita agli altri bambini curiosando poco lontano, poi ha seguito i primi mercanti di verdura che stavano entrando in città. Ora si trova all’ingresso di una delle case degli Isolani ed un vecchio scalpellino la ferma «Allora, dove crede di andare questa vagabonda?».
«Cerco gli alberi, i gelsi…».
Il vecchio smette di ammucchiare ciottoli e comincia a ridere di buon gusto. Ride così forte che Alessandra si nasconde dietro una delle colonne di legno del porticato esterno.
È un tronco enorme di quercia rossa, squadrato, sostenuto da una base di selenite ed incastrato in alto con due grosse travi oblique, come braccia tese per sostenere un cielo buio di legno. Non ha mai visto un soffitto così alto. Monta sulla base di roccia, abbraccia il grosso legno, vi appoggia il viso contro e rimane così incantata da questa strana foresta. L’orecchio appoggiato all’antico tronco percepisce fantasie vere per la giovane mente aperta a verità fantastiche. Alessandra sente il fruscio del vento fra le dure foglie lobate delle querce, rumori trasmessi dalla nebbia della campagna, i canti di primavera dei contadini, quelli, notturni degli usignoli… poi due grossi colpi d’accetta.
Una mano sicura ha picchiato sulla colonna e ha rotto l’incantesimo, «Buon giorno». Alessandra guarda sorpresa l’uomo che le è apparso di fianco e l’ha salutata. Restano tutti e due in silenzio per un po’, incuriositi.
Mondino si chiede cosa faccia una giovane di buona famiglia in giro all’alba e da sola. La cuffia di lana ricamata che nasconde solo parte dei riccioli castani, la veste di lino bianco con il petto e le spalle decorati da un piccolo lavoro di seta verde e le scarpe di pelle tenera non sono certo di una contadina del mercato delle verdure. Lo sconosciuto ricorda ad Alessandra il medico che veniva in casa dal nonno, poco prima che morisse. Anche lui aveva una veste lunga fino ai piedi, le maniche larghe e pendenti che nascondevano un cestello con una boccetta di vetro.
«Sei figlia degli Isolani?».
«No».
«Cosa fai qui da sola?».
«Ascoltavo questo tronco. Deve essere stato un albero bellissimo…».
«Ma gli alberi non parlano…».
«Sì che parlano, sono come noi. Nascono, crescono, si nutrono dalla terra e mi parlano».
«Ma guarda un po’, una giovane filosofa», Mondino osserva Alessandra divertito, ed è contento di sentire una parlata toscana, simile a quella di suo nonno Albizzio. Poi si fa serio ed abbassa gli occhi verso la base della colonna come se leggesse dai riflessi misteriosi della selenite: «Homo fuit staturae erectae, propter quod vocatur plantenus. E vero, noi siamo come piante rovesciate: ci nutriamo con la nostra estremità superiore. Ma le piante non hanno un’anima sensitiva, come gli animali e l’uomo».
«Le piante piccole forse no, ma gli alberi sentono… voglio dire, sono sensibili». Alessandra non sa che sta contraddicendo un illustre insegnante dello Studio bolognese e continua: «Quando tagliano i rami di un pino… lui piange… lacrime attorno alla ferita…».
Mondino ascolta perplesso quella ragazzina che lo guarda dritto negli occhi, allo stesso livello, in piedi sulla roccia di selenite, appoggiata alla grande colonna di legno. Essa parla in modo sommesso, cercando le parole, ma con quella sicurezza di chi non sa di non sapere, ma sa cos’ha imparato dalla vita. Per un momento smette d’ascoltarla, distratto dal ricordo rassicurante di uno scritto di Avicenna. Poi ritorna alla realtà. Anche lui ha dei bambini: «Come ti chiami? Dov’è la tua famiglia?».
«Mi chiamo Alessandra di Nerino Zilliani. Mio padre è laggiù con i lucchesi».
«Ah, certo, il vostro arrivo ha creato un gran trambusto in città. Bene, adesso ti riporto dalla tua gente. Ti staranno cercando».
Mondino aiuta la bambina a scendere da quella cattedra improvvisata, la prende per mano e s’avvia in direzione della via Salaria che li porterà verso le mura. Alessandra lo segue contenta perché ha fame e spera di trovare pane ed olio al suo ritorno. Mentre camminano lungo il terrapieno delle mura Alessandra chiede a Mondino se è un medico. Quella ragazzina che osserva, ragiona e non rispetta le convenzioni lo mette un po’ a disagio, ma lo incuriosisce anche, e l’accontenta per capirla meglio.
«Anche il mio avo Rainerio venne a Bologna dalla Toscana, ma da una piccola località sulle colline vicino a Firenze. Conosceva i segreti delle piante medicinali e suo figlio Albizio, mio nonno paterno, iniziò un commercio di spezie ed erbe curative. Ora abbiamo una spezieria non lontano di qui. Ieri sera ho preparato un decotto per la febbre del vecchio Isolani e sono restato con lui tutta la notte».
«Come fate a conoscere le malattie e le cure?».
«Ho imparato da mio zio Liuzzo, che è medico anche lui, e dai maestri dello Studio di Bologna che mi hanno spiegato i libri di Avicenna e Galeno…».
«Chi sono?…».
«Grandi medici del passato…».
«Più bravi di voi? ».
«Molto, molto più saggi ed istruiti…».
«Ma voi avete letto i loro segreti, così sapete quello che sapevano loro».
Mondino continua a camminare in silenzio senza replicare. Le parole di Alessandra hanno rievocato ricordi studenteschi di entusiasmi, sofferenze, illusioni e successi: la passione contagiosa di Liuzzo per la medicina, gli occhi che bruciavano dopo ore sui manoscritti illuminati da una candela troppo piccola, la sensazione di tenere il mondo in pugno dopo la cerimonia di laurea, i complicati trattamenti curativi preparati in bottega, la speranza negli occhi dei malati, le lunghe dissezioni anatomiche sui cadaveri e la devozione degli studenti che trascrivono lezioni e discutono quaestiones con lui.
Fragili sicurezze e dubbi robusti punteggiano la carriera dei maestri medici: le autorità del passato non sempre in accordo, gli studenti troppo devoti o troppo arroganti, e l’informazione criptica nella pratica giornaliera. Il tutto deve essere nascosto dentro le larghe maniche della veste medica e recuperato al momento adatto, in proporzioni giuste e con qualche parola in latino per dar sicurezza agli altri ed a se stessi.
«No, non so tutto quello che sapevano loro. E tu cosa fai tutto il giorno?» Mondino vuole evadere dai propri pensieri; Alessandra rimane sorpresa da questa domanda, poi stringe la mano del medico più forte e tira un gran sospiro: «Aiuto mio padre a fare la seta. Io faccio crescere i bachi e mi occupo delle farfalle».
«La seta! Lo sapevo che c’era qualcosa di speciale in te. Certo… la seta. La seta è speciale; non è come il lino che copre soltanto; la seta danza sul corpo. È come se fosse viva». Mondino comincia a capirla e si sente più a suo agio. «Allora tuo padre è un setaiolo lucchese. Farà buoni affari a Bologna».
«No, non può fare la seta qui: non ci sono i gelsi in questa città».
«Certo, certo che ci sono i gelsi e anche di buonissima qualità. Ma non dentro le mura, dove curiosavi tu. Sono fuori, in pianura e in collina».
La buona notizia rallegra Alessandra che accelera il passo, anche perché ha intravisto la piazzetta dove sono sistemati i carri dei lucchesi.