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6 Settembre 2012 | Racconti d'autore

Il filo di seta

Di Piero P. Giorgi, Perdisa Editore, Bologna, 2007 (prima puntata)

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri

6 settembre 2012

Piero P. Giorgi, nato a Bologna nel 1941, ha alle spalle studi di biologia ed esperienze di docente e ricercatore, da Parma all’Australia. Si è occupato di storia della medicina e dirige la rivista di studi italiani “Convivio”.
“Il filo di seta” è un romanzo storico ambientato nella Bologna medievale: è la storia di Alessandra, che studia medicina sotto le sembianze di un uomo, e del suo rapporto con la giovane scuola accademica bolognese. Alessandra usa il trampolino delle conoscenze naturalistiche ricevute dalla “scientia” segreta femminile per tuffarsi nella scienza ufficiale maschile, generando scandalo quando il dibattito verte su storia e medicina, filosofia naturale e psicologia. L’autore non nasconde l’ispirazione marcatamente femminista del romanzo: la storia della medichessa medievale stimola anche un confronto tra le opinioni antiche e quelle attuali circa l’eredità, scoprendo come, dopo settecento anni, il contributo della donna sia ancora sottovalutato.

Prima Parte
QUELLI DI LUCCA 

Dove il setaiolo Nerino Zilliani fugge a Bologna dopo il sacco di Lucca e la sua bambina Alessandra incontra per caso il grande me­dico Mondino de’ Liuzzi, ma anche gli aspetti cruenti della medicina (settembre 1314).

Le guardie di Porta Stiera sono state all’erta tutto il gior­no. C’è un’aria d’aspettativa, di sospetto, d’eccitazione in Bologna. Dieci giorni fa il bando del Capitano del Popolo ha annunciato l’arrivo di molti profughi toscani. Pare che ora siano poco lontano dalla città. Brava gen­te, alcuni anche ricchi, tutti scacciati da Lucca dopo gli scontri con i pisani ed il sacco della città inflitto dalle truppe di Uguccione della Faggiola.

«Ci porteranno via il commercio» brontola un vec­chio negoziante.

«Dicono che le donne di Lucca siano bellissime» con­fida uno studente di legge al suo amico.

«Quanti sono?».

«Mille, dicono».

«Mille? Dove li mettiamo?».

E appena arrivato un mercante da Porretta che li ha visti mentre attraversavano Casalecchio. Hanno i carri strapieni di masserizie, sono stanchi ma continuano a camminare per arrivare prima che faccia buio.

Sono molto meno di mille. L’accordo stipulato con i bolognesi specifica venti famiglie, nessun armato e pre­stiti speciali per le spese di sistemazione.

La Compagniadell’Arte della Seta ha accettato l’en­trata degli artigiani lucchesi che porteranno i segreti di nuovi metodi di lavorazione per i macchinari bolo­gnesi.

«Uguccione si pentirà d’averli scacciati. Bologna di­venterà un grande mercato della seta». L’arringa di Bo­nincontro dei Boatieri alla riunione dei Trecento con­vinse i bolognesi e l’accordo si fece. Ma adesso che gli stranieri stanno arrivando, paura e diffidenza affiorano in un popolo abituato ad ospitarne di tutti i generi nel­lo Studio, ma solo per qualche anno, mentre imparano legge e medicina. Questi vengono per restare, con gli stessi diritti dei cittadini bolognesi.

«Eccoli! Sono laggiù alla curva di San Francesco!» Pie­tro Villola, un giovane apprendista cartolaio, si sbraccia sulle mure gesticolando, puntando il dito verso la cam­pagna, saltellando attorno alle guardie che si dirigono verso le scale per scendere. Suona la tromba di Porta Stiera, escono i cavalli dalle scuderie, qualcuno corre a chiamare Alberto Palavicini.

«Capitano, arrivano… arrivano! ».

Molti bolognesi sanno bene cosa voglia dire esser banditi dalla propria città. Dopo decenni di lotte tra le fazioni dei Geremei e dei Lambertazzi, famiglie intere sono fuggite a Faenza o Ferrara, le loro case rase al suo­lo, i domestici abbandonati a se stessi. I banditi sono malvisti nelle città straniere. Vivono in ghetti separati, ossessionati dalla propria diversità, cullandosi nell’illu­sione di una superiorità eretta in difesa contro gli altri più numerosi.

Alcuni invece s’integrano subito nella cultura degli ospiti, esplorando costumi diversi ed imitandoli. Se per­donati, questi ultimi ritornano nella propria città per poi diventare stranieri in pàtria, in un loro ghetto di di­versità autoimposta. Minoranze politiche bandite e per­donate, eretici, intellettuali scomodi, studenti itineranti e commercianti avventurosi, si spostano di città in città, ignari del loro ruolo nella diversità culturale e nell’evo­luzione dei costumi e delle idee.

È il tardo pomeriggio di una bella giornata di autun­no, verso la fine di settembre dell’anno 1314. Alle re­dini del suo carro tirato da due buoi, Nerino Zilliani si preoccupa per la figlia che cammina avanti:

«Non sei stanca Bruchina? Torna qui su. Ti perderai quando ci ammasseremo davanti alle porte della città. Alessandra! Stai qui, non allontanarti».

Le esortazioni del setaiolo lucchese non servono a ri­chiamare la ragazzina che vuole vedere le mura della fa­mosa Bologna, la città di cui si è parlato tanto durante le giornate ansiose della partenza e quelle affascinanti del viaggio che sta terminando. I grandi boschi di castagno sulle colline tra Lucca e Porretta, i ruscelli con i gam­beri e le trote, le lunghe notti passate all’aperto vicino al fuoco tra le braccia del padre che piangeva. Ha solo dodici anni e sta vivendo un sogno insperato: viaggiare ai confini del mondo, cioè oltre le colline di Lucca, per raggiungere le favolose terre di Bologna, dove vivono i saggi con i loro studenti, dove lavorano i fabbricanti di canapa, da dove San Domenico esortò i suoi frati a pre­dicare in tutto il mondo.

I lucchesi sono finalmente arrivati ed hanno passato la prima notte accampati subito fuori le mura, protet­ti da alcuni armati del Comune. Qualche testa calda dei Lambertazzi avrebbe potuto molestarli. Ma non è successo niente e le prime luci del mattino trovano molti già svegli e curiosi della loro nuova patria. Spe­cialmente i bambini si aggirano nei dintorni in piccoli gruppi. Alcuni corrono indietro a raccontare che le case, la gente e l’odore del pane sono come a Lucca. I servi al seguito dei lucchesi cercano di procurarsi del cibo dai primi commercianti che aprono bottega. Uno di loro comincia a raccontare ai suoi compagni «Anni fa mio cugino, sapete quello alto e grosso, dovette ac­compagnare un commerciante di tessuti fino a Bolo­gna. Quando tornò ci diceva che qui tutti sono liberi. Forse non è vero… però sarebbe strano non avere un padrone…».

Alessandra si è alzata all’alba, è scivolata fuori dal car­ro mentre suo padre dormiva ancora; si è dapprima uni­ta agli altri bambini curiosando poco lontano, poi ha se­guito i primi mercanti di verdura che stavano entrando in città. Ora si trova all’ingresso di una delle case degli Isolani ed un vecchio scalpellino la ferma «Allora, dove crede di andare questa vagabonda?».

«Cerco gli alberi, i gelsi…».

Il vecchio smette di ammucchiare ciottoli e comincia a ridere di buon gusto. Ride così forte che Alessandra si nasconde dietro una delle colonne di legno del portica­to esterno.

È un tronco enorme di quercia rossa, squadrato, so­stenuto da una base di selenite ed incastrato in alto con due grosse travi oblique, come braccia tese per sostene­re un cielo buio di legno. Non ha mai visto un soffitto così alto. Monta sulla base di roccia, abbraccia il grosso legno, vi appoggia il viso contro e rimane così incantata da questa strana foresta. L’orecchio appoggiato all’anti­co tronco percepisce fantasie vere per la giovane mente aperta a verità fantastiche. Alessandra sente il fruscio del vento fra le dure foglie lobate delle querce, rumori trasmessi dalla nebbia della campagna, i canti di prima­vera dei contadini, quelli, notturni degli usignoli… poi due grossi colpi d’accetta.

Una mano sicura ha picchiato sulla colonna e ha rot­to l’incantesimo, «Buon giorno». Alessandra guarda sorpresa l’uomo che le è apparso di fianco e l’ha salutata. Restano tutti e due in silenzio per un po’, incuriositi.

Mondino si chiede cosa faccia una giovane di buona famiglia in giro all’alba e da sola. La cuffia di lana rica­mata che nasconde solo parte dei riccioli castani, la ve­ste di lino bianco con il petto e le spalle decorati da un piccolo lavoro di seta verde e le scarpe di pelle tenera non sono certo di una contadina del mercato delle ver­dure. Lo sconosciuto ricorda ad Alessandra il medico che veniva in casa dal nonno, poco prima che morisse. Anche lui aveva una veste lunga fino ai piedi, le mani­che larghe e pendenti che nascondevano un cestello con una boccetta di vetro.

«Sei figlia degli Isolani?».

«No».

«Cosa fai qui da sola?».

«Ascoltavo questo tronco. Deve essere stato un albero bellissimo…». 

«Ma gli alberi non parlano…».

«Sì che parlano, sono come noi. Nascono, crescono, si nutrono dalla terra e mi parlano».

«Ma guarda un po’, una giovane filosofa», Mondino osserva Alessandra divertito, ed è contento di sentire una parlata toscana, simile a quella di suo nonno Albizzio. Poi si fa serio ed abbassa gli occhi verso la base della colon­na come se leggesse dai riflessi misteriosi della selenite: «Homo fuit staturae erectae, propter quod vocatur plantenus. E vero, noi siamo come piante rovesciate: ci nutriamo con la nostra estremità superiore. Ma le piante non hanno un’anima sensitiva, come gli animali e l’uomo».

«Le piante piccole forse no, ma gli alberi sentono… voglio dire, sono sensibili». Alessandra non sa che sta contraddicendo un illustre insegnante dello Studio bolognese e continua: «Quando tagliano i rami di un pino… lui piange… lacrime attorno alla ferita…».

Mondino ascolta perplesso quella ragazzina che lo guarda dritto negli occhi, allo stesso livello, in piedi sul­la roccia di selenite, appoggiata alla grande colonna di legno. Essa parla in modo sommesso, cercando le paro­le, ma con quella sicurezza di chi non sa di non sapere, ma sa cos’ha imparato dalla vita. Per un momento smet­te d’ascoltarla, distratto dal ricordo rassicurante di uno scritto di Avicenna. Poi ritorna alla realtà. Anche lui ha dei bambini: «Come ti chiami? Dov’è la tua famiglia?».

«Mi chiamo Alessandra di Nerino Zilliani. Mio padre è laggiù con i lucchesi».

«Ah, certo, il vostro arrivo ha creato un gran trambu­sto in città. Bene, adesso ti riporto dalla tua gente. Ti staranno cercando».

Mondino aiuta la bambina a scendere da quella cat­tedra improvvisata, la prende per mano e s’avvia in di­rezione della via Salaria che li porterà verso le mura. Alessandra lo segue contenta perché ha fame e spera di trovare pane ed olio al suo ritorno. Mentre camminano lungo il terrapieno delle mura Alessandra chiede a Mondino se è un medico. Quella ragazzina che osserva, ragiona e non rispetta le conven­zioni lo mette un po’ a disagio, ma lo incuriosisce an­che, e l’accontenta per capirla meglio.

«Anche il mio avo Rainerio venne a Bologna dalla To­scana, ma da una piccola località sulle colline vicino a Fi­renze. Conosceva i segreti delle piante medicinali e suo figlio Albizio, mio nonno paterno, iniziò un commercio di spezie ed erbe curative. Ora abbiamo una spezieria non lontano di qui. Ieri sera ho preparato un decotto per la febbre del vecchio Isolani e sono restato con lui tutta la notte».

«Come fate a conoscere le malattie e le cure?».

«Ho imparato da mio zio Liuzzo, che è medico anche lui, e dai maestri dello Studio di Bologna che mi hanno spiegato i libri di Avicenna e Galeno…».

«Chi sono?…».

«Grandi medici del passato…».

«Più bravi di voi? ».

«Molto, molto più saggi ed istruiti…».

«Ma voi avete letto i loro segreti, così sapete quello che sapevano loro».

Mondino continua a camminare in silenzio senza re­plicare. Le parole di Alessandra hanno rievocato ricordi studenteschi di entusiasmi, sofferenze, illusioni e suc­cessi: la passione contagiosa di Liuzzo per la medicina, gli occhi che bruciavano dopo ore sui manoscritti illu­minati da una candela troppo piccola, la sensazione di tenere il mondo in pugno dopo la cerimonia di laurea, i complicati trattamenti curativi preparati in bottega, la speranza negli occhi dei malati, le lunghe dissezioni anatomiche sui cadaveri e la devozione degli studenti che trascrivono lezioni e discutono quaestiones con lui.

Fragili sicurezze e dubbi robusti punteggiano la car­riera dei maestri medici: le autorità del passato non sempre in accordo, gli studenti troppo devoti o troppo arroganti, e l’informazione criptica nella pratica gior­naliera. Il tutto deve essere nascosto dentro le larghe maniche della veste medica e recuperato al momento adatto, in proporzioni giuste e con qualche parola in latino per dar sicurezza agli altri ed a se stessi.

«No, non so tutto quello che sapevano loro. E tu cosa fai tutto il giorno?» Mondino vuole evadere dai propri pensieri; Alessandra rimane sorpresa da questa doman­da, poi stringe la mano del medico più forte e tira un gran sospiro: «Aiuto mio padre a fare la seta. Io faccio crescere i bachi e mi occupo delle farfalle».

«La seta! Lo sapevo che c’era qualcosa di speciale in te. Certo… la seta. La seta è speciale; non è come il lino che copre soltanto; la seta danza sul corpo. È come se fosse viva». Mondino comincia a capirla e si sente più a suo agio. «Allora tuo padre è un setaiolo lucchese. Farà buoni affari a Bologna».

«No, non può fare la seta qui: non ci sono i gelsi in questa città».

«Certo, certo che ci sono i gelsi e anche di buonissima qualità. Ma non dentro le mura, dove curiosavi tu. Sono fuori, in pianura e in collina».

La buona notizia rallegra Alessandra che accelera il passo, anche perché ha intravisto la piazzetta dove sono sistemati i carri dei lucchesi.

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