Salta al contenuto principale
2 Ottobre 2014 | Racconti d'autore

Magenta è il colore dei ricordi

Poesie tratte dalla raccolta omonima di Silvia Albertazzi (Milano, La Vita Felice, 2014).

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Alessia Del Bianco

Docente di Letteratura inglese all’Università di Bologna, Silvia Albertazzi ha dato alla sua seconda raccolta di versi il nome di una colorazione che si ottiene mescolandone altre, come succede alle immagini che portiamo dentro.

Magenta è il colore dei ricordi

Magenta è il colore dei ricordi
come nelle foto di via Azzurra
che guardo stasera
per farmi del male.
Niente neve neanche quest’anno.
Non sarà bianco il nostro Natale.
Dimmi dov’è la strada
che porta alla fine del giorno.
Ho le mani piene di nebbia,
pieni di fumo, gli occhi.
Ben Shahn ha sostituito
il mio Hockney
sul muro della cantina.
Ci sono tre musicisti
– contrabbasso violino chitarra –
che suonano senza guardarmi.
La cornice è azzurro lucente
– the colour of memory and dreams –.
Azzurro è lo sfondo
azzurre le pieghe
sulle tute dei musicisti.
Four piece orchestra.
Ma qual è il quarto pezzo?
– contrabbasso chitarra violino –
Solo quando inforco gli occhiali
scopro anche l’armonica a bocca
che la sera della vigilia
suona come una ciaramella.
Magenta è il contrabbasso
che ritma il pulsar dei ricordi.
E il violino ha “suono di casa,
suono di culla,
suono del nostro, dolce e passato,
pianger di nulla”.

Tolè

D’estate andavamo in collina.
Bisognava passare la colonia
– l’inferno infantile
di Bellaria –
per accedere al paradiso
di Tolé.
Ci portava un bus sbilenco
a mezza sera
sul percorso vomitavo due o tre volte.
Borgo di Sotto, ci attendeva un cascinale:
Merilde si chiamava la padrona,
Loredano, il suo unico figlio.
Come vedi, mi ricordo quasi tutto.
Mi ricordo il colore dei tramonti
che salutavano ogni anno
il nostro arrivo
e la luce del mattino a colazione
chiara e intensa il primo giorno di vacanze.
Mi ricordo la Madonna di Rodiano
e le cene con la trota ai Bortolani.
Mi ricordo il grande lavatoio
e i lunghi pomeriggi al castagneto.
Mi ricordo le domeniche a Cereglio
e le nostre scarpinate a Monte Croce.
Mi ricordo la raccolta delle more,
le serate di carte e di parole.
D’improvviso veniva il Ferragosto
a mangiare cocomero nel bosco
e iniziavano poi i temporali
– scie di colchici lasciavano sui prati.
Nel mestissimo giorno degli addii
scambiavamo promesse di ritorno.
Diss sò, cinna, andèin a Tulà?
Mi prendeva in giro lo zio Silvio
incontrandomi a Bologna in pieno inverno.
Anche subito, avrei voluto dire,
ma ero piccola e stavo in soggezione.

Anni Settanta
1. Giorno di sole in via del Lavoro

Guarda, il sole è ammucchiato sui muri delle case.
Cade luce dai tetti polverosi
e traccia in una scia di fiori d’aria
il cammino della lunga stagione.
Cascate di lenzuola alle finestre
letti disfatti dove il sole denuda
un altro ritorno.

Scivola un raggio sulla strada
e gioca a rincorrere
un desiderio d’estate sui vetri appannati.

Macchia contaminata di mezzogiorno
alta nel cielo:
il lento stupore degli anni che finiscono
segna di rughe il volto stinto
delle case.

Una canzone corre a piedi nudi
nel meriggio:
si apre un varco improvviso nella siepe
è il tramonto di ieri
che ritorna.

Profuma d’agosto la sera
si accendono fanali in fila indiana
rotolano autobus semivuoti
una voce canta Bologna e una donna.
Dove le case mi guardano
in silenzio
muore l’estate in un soffio di vento.

Hollywoodiana
                               a mio padre

Poi c’è quella lettera in fondo a un cassetto
e quella notte in fondo a un ospedale
e quella foto incorniciata sulla madia
dove tu sei un attore hollywoodiano
e io una bimba antica con il broncio.

Fuori nevica e io vorrei incontrarti
su di un ponte la notte di Natale.
Potrei forse regalarti un paio d’ali
se mi mostri meraviglie in questa vita.

Tu da giovane sembravi Dustin Hoffmann
sorridevi – Alfredo, Alfredo – al Pavaglione.
Poi da vecchio eri De Niro col suo ghigno
l’aria ironica, lo sguardo sornione.

Mi sciroppo filmacci senza succo
per vederti, da quando sei scomparso.

Invoca il lupo

Porto ancora il lutto di Luigi
e sì che di tempo n’è passato,
da quella notte, da quell’ultima canzone.
Io non posso ascoltare quella voce
senza piangere il suo tempo ch’è finito
proprio quando il mio incominciava.

Non avevo ancora quindici anni,
mi mancavano più di dieci mesi.
Mi piaceva ascoltar le sue canzoni
alla radio, con il primo buio.

Vedrai, vedrai, vedrai che cambierà
Non poteva esser sempre così grigio:
le giornate d’autunno lungo i viali,
poi la neve a coprir le foglie gialle.

Le temps file ses jours, l’eau passe sous les ponts
A Parigi ci venni anni dopo,
dopo il maggio, ma sempre sessantotto.
Non ricordo più molto di quei giorni:
Jean-Michel dagli occhi color ghiaccio,
e De Gaulle sui boulevards a mezzo luglio.

Oggi un tè mi costa quattro euro
e non è neppure tanto buono:
niente latte, niente fetta di limone,
in albergo non c’è televisione.
Le cinque e mezza
– Houblon e Sarrazin –
non un libro, nessuno a cui parlare.
Un telefono soltanto, ma è muto
e non so neppure chi chiamare.

E lontano lontano nel tempo
mi domando che fine avrà mai fatto
quel ragazzo dagli occhi così verdi
di cui m’innamorai furiosamente
perché il suo sguardo somigliava al tuo.

Da mezzo ottobre alla fine di gennaio
ballammo stretti San Franciscan Nights
nelle buie cantine dei sobborghi.
A novembre mi regalò un profumo.
Col disgelo se ne andò per sempre.

Ciao amore, ciao amore, ciao amore ciao
Sono qui, ma per parlare d’altri
(già, di te chi si ricorda più?
Che sei morto cantando migrazioni
quando noi migravamo verso Nord)
Mi hanno chiesto di non dire “noi”,
mi hanno detto di parlar di ciò che so.
Di che parlo? Del mio proletariato,
di Paul Morel e di Giuda, quello oscuro?
Sono sempre perduta in San Donato,
al Pilastro non c’è la Tangenziale,
le domeniche d’inverno a San Donnino,
vuoto il sabato, solo televisione.

E ora che avrei mille cose da fare, io vedo i miei sogni svanire
E che ne faccio delle primavere?
Che ne farò del sole, delle piazze
illuminate dalla polvere dei pioppi?
Il maggio adesso è fatto ormai di niente,
filtra appena la luce giù in cantina,
cerchi invano nei lunghi pomeriggi
l’odore caldo del tiglio e della strada.

Cara maestra
non per me cantavi.
«Invoca il lupo», domani ricomincia.
«Crepi», rispondo, per non cadergli in bocca.

Nine stories (and this is the tenth)

La bibliotecaria mi porge il libro
È proprio questo che vuole?
Mi dice guardando
le pagine gialle
i segni di biro
la copertina stracciata.
Ce n’è certo una copia
più nuova.
Ma non è il nuovo
che voglio.
Voglio il libro ch’è stato
sul tuo scaffale
in cima alle scale.
Il libro che tu
hai comperato
usato
e tenuto tra le mani.
Ti cerco tra le pagine
invano.
Eppure ci sei
– ci sei stato.
Hai sfiorato la carta,
ti sei visto in Esmé,
hai rincorso i pesci-banana.

Come verremo alla meta
noi della razza
rimasta a terra?
Il Tas l’hanno inchiodato
a una targa di marmo
in comune.
Ma lui vola alto nel cielo:
se alzo lo sguardo lo vedo
più su della pioggia che scroscia.

Poi, com’era la scuola,
com’era?
Non ricordo che una finestra,
il chiostro rosso,
l’erba dove ora è la ghiaia
e la campanella che suona
prima dell’ultima ora.

Più indietro, un cortile al tramonto.
Da una finestra aperta
una canzone
        Se io fossi un falegname
        E tu una signora
        Credi davvero
        Che mi vorresti ancora?
Rosseggia il peperoncino
sul balcone
– digitale purpurea dei miei nonni.
Lo accarezzo
e mi strofino gli occhi.
Brucia lo sguardo,
la musica s’invola.

Se le cose non son scritte
non ci sono.
Tutto quel ch’è scivolato
tra le dita
mi ritorna in qualche verso di canzone.

Forse è così che arriveremo un giorno
cantando piano vecchie canzonette.
Forse è così che ci ritroveremo,
che torneremo a quell’agosto afoso,
a quella notte ai giardini Margherita
dove qualcuno cantava quei trent’anni
che ancora io non avevo
e che oggi ha già mio figlio.

E allora ascolto Jannacci

E allora ascolto Jannacci
ma non posso farlo a occhi asciutti.
Jannacci è la Milano che volevo
bambina
e la Bologna che avevo
e non mi piaceva.
Jannacci è mio zio che scherzava su niente
prima di metter giudizio.
È Floriano che inciampava negli anni
e un giorno è caduto
per non più rialzarsi.
È me che facevo la figlia di ferroviere
e poi la poiana
che non se ne vuole andare
– piuttosto si fa ammazzare.
E in via Azzurra io e te sapevamo
che la vita era solo un bidone
da far rotolare più giù.
Chissà se ti ricordi, Tommaso,
come ridevi del vescovo
che addentava la mano del sacrista?
(e io piangevo, invece, come
l’uomo di via Lomellina –
ero forse balorda, magari un malore…)

Oggi anch’io il foulard non lo metto più
ma la fabbrica non la conosco
– è svanita, con Flori e col nonno,
con le tute stirate di fresco
e appese alla porta del bagno.
Vincenzina dell’Accademia
sbalzata per sbaglio tra i ricchi
di cultura e anche di soldi
sono qui all’Università una di quelli
che lavorano sodo da sempre
non hanno ancora finito
e non sanno che cavolo fanno.

                        (Zero a zero anche ieri
                        ‘sto Bologna qui
                        ‘sto Diamanti che ormai
                        non mi gioca più…)

E anche oggi piove
e aspetto l’autobus
come Pedro Pedreiro
e come sua moglie
che aspetta
un bambino
che aspetterà.

La sera è fatta di gocce di pioggia
Signore, pietà di me che salgo sul bus
e lungo il tragitto sogno
la pioviggine sugl’irti colli
mentre passa la vita che oggi
sa di fango, d’acqua, di niente.
Tutto qui, che la notte è vicina.
Ecco,
tutto qui.

The Great Gates of Kiev

Ma sì, io le ricordo le sere d’altri tempi
quando eravamo stupiti d’esser vivi
solo perché il tramonto crepitava
sui nostri volti e dietro il campanile.
E ci pareva che si aprisse un mondo
e più in alto spalancassero cancelli.
Pullulava di promesse il cielo
mentre dall’alto pioveva il primo buio.

Ma sì, ma sì ricordo
quella che è stata la nostra religione:
due foglie verdi impigliate nella rete,
le rose bianche e i sassi del cortile
e i silenzi e le frasi fatte
e le paure che sono desideri
e le preghiere con la rabbia dentro
e le parole che non servon più.

                Parlavamo, ricordo, di partire,
                del cammino e degli incontri sul tragitto.
                Avevamo messo il mondo in una tasca,
                cercavamo qualcuno cui donarlo.

Passa il tempo e volano le fate
siamo invecchiati senza mai partire:
vuoto è il cortile, abbattuto lo steccato
petali a terra e roca la campana.

Aspetto ancora, a volte, una parola
che possa risvegliare un desiderio:
il mare oscuro che mi porto dentro,
stelle di pietra fisse anche più in alto.
Poi, verso sera, è il vento che solleva
la polvere giocando sopra l’erba.
Fuggono ombre in corsa sulla strada
in una danza di malinconie.

                E se ricordo, ricordo solo il giorno
                che mi hai posato il sole tra le dita:
                lo tengo ancora nel cavo della mano.
                Non è finito ancora il nostro giorno.

Brano corrente

Brano corrente

Playlist

Programmi