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16 Aprile 2007 | Racconti d'autore

N°56-RACCONTI D’AUTORE

“Quando Muratori sognava un bagno” da “Il governo del corpo” di Piero Camporesi. Garzanti, 1995.

Piero Camporesi (nato a Forlì nel 1926, morto a Bologna nel ’97), è bravissimo a scrutare i sintomi della nostra brutale contemporaneità attraverso il filtro di una memoria erudita e volutamente inattuale.
Così, partendo da molto lontano, ne “Il governo del corpo”  si parla dell’edonismo di massa, della paranoia delle diete, della decadenza dell’olfatto, della religione del corpo, delle incerte vie del sesso liberato, dell’inquinamento dell’aria, dello sterile consumo delle ore notturne.


Quando Muratori sognava un bagno


L’Europa percorsa dall’immagine della «morte secca», nella quale lo scheletro appariva con diffusa, splendida liberalità sulle tombe e nelle chiese, penetrando negli interni delle case nobili e ricche sotto forma di «vanitates», di richiami figurativi al tempo breve e alla morte sempre più vicina, fu anche la stessa Europa che praticava sulla propria pelle il cerimoniale sommario della toilette secca. Una sorta di idrofobia mentale la teneva alla larga dai bagni. L’inquietudine dell’acqua, la diffidenza (se non la ripugnanza) verso l’uso igienico dei liquidi la allontanava da abluzioni liberatorie e purificatrici. Bagni caldi e bagni freddi, di acque dolci e di acque marine, bagni civili e bagni religiosi, specialmente nel XVI e nel XVII secolo, subiro­no un lungo declino, una prolungata eclissi. Sopravviveva, con oculate prescrizioni e dettagliate procedure, il bagno terapeu­tico tiepido. Quelli freddi e caldi, temuti anche dai medici, caddero in profondo disuso. Si riteneva comunemente che l’immersione nei liquidi sconcertasse l’equilibrio umorale, che i pori e i meati bloccati dal freddo o sollecitati dal calore, si chiudessero o si aprissero innaturalmente, favorendo oppilazioni o, viceversa, spalancando la strada ai pericoli dell’invisibile, alla malignità sempre minacciosa e imponderabile dell’aria. Soprattutto la paura del contagio pestilenziale allontanava i corpi dall’acqua. Se le finestre delle case si dovevano aprire – tenuto conto dell’orientamento e dell’esposizione – solo in certe ore mentre in altre (o quando spiravano da maligni quadranti venti funesti) restavano ermeticamente serrate per impedire che miasmi e aliti pestilenziali s’infiltrassero nell’interno dove ardevano (specialmente in tempo di peste) bracieri di legne aromatiche, le innumerevoli finestre che occhieggiavano dal corpo umano, le miriadi di pori, dovevano restare ben chiuse per impedire perniciosi passaggi e deleterie penetrazioni di funesti spiriti volatili. Era assolutamente necessario che la contaminazione aerea venisse bloccata perché la morte volava invisibile e ubiqua travasandosi inesorabilmente nei corpi non protetti. Anche le vesti e i tessuti dovevano obbedire a questa strategia difensiva: vesti lisce a tenuta ermetica, accuratamente chiuse per incapsulare corpi penetrabili e vulnerabili. Via le pellicce, via le lane e i cotoni: taffetas ben aderenti per i ricchi, tele gommate e incerate per la gente comune. Il sogno della guaina avvolgente, della chiusura totale dava conforto, sicurezza psicologica, induceva a tranquillità ragionata, a moderato ottimismo. Per sovrappiù, l’epidermide veniva protetta da unzioni e oliature, massaggiata leggermente con mantecate sostanze aromatiche: in mano, o ciondolanti sul collo, palle e spugne odorifere si accompagnavano a meno ameni amuleti preservativi, rospi o vipere rinsecchite. La sporcizia che si accumulava sulla pelle non doveva essere toccata. Era pericoloso rimuovere questa supplementare pellicola protettiva. E meglio se a letto gli ammalati non giacevano su lenzuoli puliti o non indossavano camicie di bucato. Il bagno, per i sani, era una inutile voluttà che poteva costare molto cara. Il piacere dell’acqua veniva associato a ludiche pratiche a sfondo venereo, sentito come trasgressione alla norma morale oltre che al precetto medico, infido piacere dei sensi, allettamento ad atti impudichi. Bagni pubblici e «stufe» accentuarono nel Cinque e nel Seicento la loro noméa di luoghi equivoci, malfamati, quasi postribolari, serraglio di libidini e d’impurità sregolate.


I secoli delle spezie e degli aromi sprigionavano tanfi insopportabili (ai nasi moderni), accumulavano sordidezze epidermiche a molte dimensioni. L’unica pratica igienica tranquillamente accettata era il cambio della camicia sporca e sudata, la traspirazione della pelle l’unica operazione di ripulitura. «Il bagno d’acqua dolce», scriveva al tramonto del XVI secolo il medico romano Alessandro Petronio,


 


il quale si crede che fosse trovato dagli antichi, prima acciocché si nettassero dalle sporchezze che d’ogni intorno imbrattavano tutta la pelle e poi che sia passato in troppo delicatezza, poi che non avendo loro in uso le vesti di lino che noi chiamiamo camiscie e se pur le ave­vano non le usavano così spesso come facciamo noi, ripieni di gran lordura erano sforzati ogni giorno di nettarsi nel bagno. Ma poiché adesso l’uso delle camiscie è tanto universale che tutti, per poveri che siano, se ne servono, non è maraviglia se quella così frequente consuetudine del bagno è quasi annichilata.


 


Bagnarsi equivaleva a purgarsi. «Sono i bagni», spiegava in quegli stessi anni Castor Durante, medico nella Roma di Sisto V,


 


una spezie di evacuazione, imperocché fatti di acqua tepida riscaldano e umettano, levano la lassitudine, risolvono la ripienezza, mitigano i dolori, mollificano, ingrassano, sono convenienti a’ fanciulli e ai vecchi avanti al cibo, perciocché tirano il notrimento a lor membri e li corroborano e conferiscono a risolver le loro superfluità e cacciarle fuori; ed essendo gli escrementi de’ vecchi salsi, il bagno li contempera.


 


Consigliabile aglii «estenuati e magri» come stimolatore d’appetito, l’immersione nell’acqua tiepida era indicata (e non per motivi di «politezza») ai debilitati e disappetenti purché non avessero «alcuna lesione particolare nelle viscere interiori, perché inalza, come in tumore, le carni, le quali poi gonfiate, succhiano gli umori a guisa di ventose dalle vene». Ma guai a chi fa «troppa dimora nel bagno», perché «gli si perturba l’intelletto, le forze gli si risolvono, gli viene il vomito e finalmente la sincope, cioè mancamento di Cuore e di tutte le forze». Il bagno, insieme all’uso smodato del vino e all’incontinenza sessuale, era – ammoniva un aforisma della scuola salernitana – uno dei più sicuri strumenti per abbreviarsi la vita:


 


Si quis ad interitum properet, via trita patebit,


 Huc iter accelerant, balnea, vina, venus.


 Occhi, mani, denti, tuttavia, andavano attentamente bagnati Con l’acqua non tanto per pulizia personale, quanto perché tali abluzioni, rigorosamente fredde, erano di gran conforto al cervello, organo delicato e sensibile che richiedeva procedure di grande attenzione e cerimoniali devoti. In queste pratiche quotidiane de confortatione cerebri, di vigile riguardo per il fragile equilibrio cerebrale, il precetto voleva che ogni mattino, a digiuno, «ci laviamo gli occhi Con acqua fresca, per purgarli da ogni caligine e questo più presto si deve fare inaspergendoli che strofinandoli con le mani, overo tenendoli aperti, sommergendogli dentro un bacile pieno di acqua chiara e dopo con un panno bianco e sottile asciuttarli; e in questa maniera si manterranno, netti da ogni lordura e si aguzzerà la vista. E questo è perché gli occhi», notava Domenico Auda nel Breve compendio di maravigliosi secreti, «sono di natura acquea, cioè freddi e per questo si devono lavar con acqua fresca e non calda». Anche le mani dovevano essere ben lavate soprattutto perché erano gli strumenti principali per «nettare» gli «organi» (occhi, denti, narici, orecchie, bocca) che col cervello avevano stretti rapporti di contiguità e di funzioni. «Dovemo nettarsi li denti da ogni immondezza perché fa puzzare il fiato, e non nettandoli, mandano quel fetore nel cervello, il quale per esser delicato, si è di grandissimo nocumento» (Auda). Bisognava però aver cura di bagnarsi le mani con acqua fredda e non calda perché col «lavarsi le mani in acqua calda si generano li vermi nel ventre» e per sovrappiù l’acqua riscaldata «impedisce la digestione perché apre li pori, onde il calor naturale si dilata fuori». Grande conforto si aspettava il cervello dalla pettinatura mattutina «perché in questa maniera vengono ad aprirsi li pori della testa ed evaporano quelli cattivi umori che si sono raccolti la notte e si purifica l’intelletto e anco si aguzza la memoria, ma si deve incominciar dalla fronte, tirando all’insù» (Auda). La fronte però non doveva essere lavata, ma – come aveva prescritto Marsilio Ficino nel De triplici vita solo fregata «alquanto con un panno aspretto», perfezionando, levati dal letto, l’operazione che era incominciata prima d’uscirne di stropicciare con «le piante delle mani prima un poco e leggiermente tutto il corpo e poi il capo con le unghie leggierissimamente». Un cerimoniale del risveglio ritenuto indispensabile dal grande neoplatonico fiorentino che aveva indicato anche il numero più soddisfacente di passate col pettine (circa quaranta) all’intellettuale ipocondriaco che riapriva gli occhi all’alba dopo la stagnazione notturna durante la quale i cattivi umori, malinconia prima e pituita poi, si erano infiltrati nei recessi del corpo inondandolo di torpide caligini. Più che al corpo e al suo uso sociale, si aveva cura di mettere l’organo principe, il cervello, nelle migliori condizioni per affrontare la giornata, le ore luminose dell’arco diurno, le più alacri ed eccitanti per l’attività cerebrale, coincidente col tempo febeo, il corso solare, prima che calassero le tenebre, nefaste per le attività intellettuali. Il sole «apre co’ raggi suoi i meati del corpo», spiegava Ficino, «e sparge e diffonde dal centro alla circonferenza gli umori». Quando invece «il sole si parte da noi, ogni cosa si restringe e unisce: insieme». La notte rappresentava il lungo momento negativo della giornata, la zona opaca dominata da influssi malvagi e da umori perversi che, rifluendo dalla periferia, si addensavano al centro: il tempo oscuro ed equivoco dei sogni, delle inquietudini, delle fantasie impure. L’intellettuale in armonia col cosmo doveva essere rigorosamente solare.


Che la notte fosse tempo di contaminazione era credenza diffusa in molte culture e religioni. Gli ebrei osservanti dell’Europa centro-orientale e specialmente i Chassidim almeno fino al secolo Scorso si limitavano al mattino a versare l’acqua sulle mani e a raccoglierla poi in una bacinella –  racconta Mark Lidsbarski nella sua autobiografia – perché, secondo la norma rituale, solo l’acqua corrente purifica. Un atto a sfondo cultuale più che igienico. Era prescritto inoltre di prendere la brocca con la destra, passarla nella sinistra, versare l’acqua prima sulla destra poi sulla sinistra, ripetendo quest’atto tre volte. Più che per pulizia del corpo si lavavano per purificarlo, per sciacquar via i demoni che durante la notte, profittando del sonno, si erano posati sulle unghie delle mani e sulle palpebre.


Sembrerà strano: ma mentre l’Occidente voltava le spalle all’acqua e incominciava il grande rifiuto di quei bagni nei quali anche sant’Agostino aveva cercato, seguendo l’uso greco-romano, di trovare rifrigerium, di rimuovere «ansietatem ex animo» (Conjessiones, IX, 12.4), nella seconda Roma, a Costantinopoli divenuta Istanbul, la civiltà dei bagni rifioriva vigorosamente. Il Levante turco aveva eretto colossali terme, monumentali bagni di marmo, diaspro, porfido, dalle cupole sferiche tagliate come arance a metà rivestite di piombo, dai pavi­menti marmorei puliti come tazze d’argento. «Una delle cose che ci rinfacciano di più i turchi e giustamente», raccontava uno spagnuolo che, catturato dagli infedeli nel 1554 visse a lungo come schiavo fra di loro, Andrés Laguna, «è la nostra sporcizia. In Spagna non c’è nessuno che si lavi due volte in tutta la vita». Negli stessi anni in cui lo schiavo iberico si godeva le delizie dei bagni turchi, un dotto medico italiano nostalgico delle antiche terme, studioso di acque correnti e di vini ben conservati, Andrea Bacci, lamentava che fosse andata «persa» l’«arte della bellezza e politezza del corpo», ricordando che nel mondo romano non era mai esistito nessun cittadino che «a guisa che noi oggi frequentiamo le chiese, non an­dasse ogni giorno alle terme e si lavasse». Il profondo rammarico per i bagni perduti, per le acque evitate e respinte, diventa pungente e sferzante denuncia nel primo grande igienista moderno, Bernardino Ramazzini che, all’alba del XVIII secolo, punta il dito contro la religione cristiana la quale, preoccupata «più della salute delle anime che di quella del corpo, ha lascia­to a poco a poco cadere in disuso i bagni».


Parole che a due secoli e mezzo di distanza, sembrano reinscriversi nelle riflessioni di Alberto Savinio, quando, nel 1944, ribadiva che


idrofilia e cristianesimo fanno a pugni. L’uso progressivo dei bagni in piscina e in tinozza, delle docce a fissa rosa di annaffiatoio o a tubo flessibile, le abluzioni di ogni genere marciano di conserva col regresso del senso cristiano della vita. Tolstoi non si lavava … Non si dimentichi peraltro che nella mania balnearia c’è il germe della decadenza.


Le amare e forse ingenerose considerazioni del medico modenese autore della «diatriba» De morbis artificum (1700) si levavano da una città all’avanguardia del risveglio medico occidentale, da quella piccola capitale del ducato estense dove, fra la biblioteca e la cura delle anime di Santa Maria della Pomposa, si muoveva il sudatissimo «proposto» Lodovico Antonio Muratori. L’infaticabile e impolverato archivista ducale, prete non conformista, «avrebbe desiderato», ricordava suo nipote,


che tornassero in uso in Italia i bagni tanto una volta praticati dai Romani e tuttavia familiari fra i popoli orientali, persuaso che l’apertura dei pori della cute e la pulizia da essi introdotta, ed insieme il sudare, conferiscano a tenere in buon equilibrio e purificare i fluidi del corpo umano.


Questi dotti e saggi modenesi del primo Settecento (e fra loro potrebbe entrare a buon diritto anche Antonio Vallisnieri, studioso di acque e fontane, sperimentatore «dell’uso e dell’abuso delle bevande e bagnature calde e fredde») non potevano certamente immaginare a quali eccessi di sperpero e di dissennato abuso dei tesori liquidi avrebbe condotto l’onesto sogno di un buon bagno, d’un tranquillo, domestico refrigerio idrico.


«Corriere della Sera», 4 settembre 1985.


Lettura di Fulvio Redeghieri. 

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